La Lettera alle famiglie di Giovanni Paolo II (1994) non dovrà essere presto dimenticata. Essa presenta un severo giudizio sul mondo moderno: «La nostra civiltà dovrebbe rendersi conto di essere, da diversi punti di vista, una civiltà malata, che genera profonde alterazioni nell'uomo» (n. 20). La diagnosi non potrebbe essere più conturbante; peraltro, essa è accompagnata da un profondo incoraggiamento all'ottimismo.
In primo luogo, la malattia consiste nella quasi totale perdita dei caratteri di «civiltà dell'amore», come il Papa caratterizza una civiltà che sia veramente umana. Invece noi viviamo, egli afferma, «una civiltà del prodotto e del godimento, una civiltà delle "cose" e non delle "persone", una civiltà in cui le persone si usano come si usano le cose» (n. 13).
Nella società e nell'uomo, dunque, c'è qualcosa di seriamente sbagliato. Qui la forza della diagnosi del Papa è contrassegnata dalla solidità del suo ottimismo. Convinto che la malattia non è dovuta alle strutture o a forze impersonali, ma proviene dall'uomo stesso, egli è altrettanto convinto che proprio nell'uomo si trovano le attitudini di base e le risorse per identificare la patologia, per suscitare il desiderio di curarla e, non senza l'aiuto di Dio, per arrivare a guarirla.
L'uomo, nonostante tutto, è fatto per la verità e per il bene. Nel profondo del cuore, egli è maggiormente attratto dalla bellezza e dallo splendore della verità e del bene, che non dalla menzogna e dall'egoismo. Questa convinzione si trova alla base di tutto l'insegnamento di Giovanni Paolo II. L'enciclica Veritatis splendor, per esempio, è un potente appello a ritornare alla ricerca della verità, alla sete dello splendore che da essa promana. Se ci si allontana dalla verità, si perde la capacità di scoprire il bene, il bene per il quale è fatto il nostro cuore, e allora si rischia di finire in una vita senza amore.
Peraltro, una grave patologia minaccia oggi l'amore: l'amore dovrebbe essere il vero motore del nostro essere, e invece può essere scrollato via da noi e ucciso dalla ricerca di noi stessi. Questa è la malattia che attanaglia le società occidentali, poiché la vera salute umana può essere presente soltanto in persone capaci di amare; invece stiamo dimenticando come si ama, stiamo dimenticando, soprattutto, che dobbiamo imparare ad amare, e forse disperiamo della nostra capacità di imparare.
Nulla è tanto distruttivo della felicità quanto lo scetticismo circa la presenza o la possibilità di amore, quanto il dubitare di poter dare amore o riceverlo. «Sono troppo egoista per amare gli altri, o gli altri sono troppo egoisti per amarmi. Non amo nessuno. Nessuno mi ama. Non riesco a trovare qualcuno da amare; perciò gli altri non sono degni di amore. Nessuno mi ama; perciò io non sono degno di amore». Se una persona non è capace di lottare contro queste tentazioni — che oggi sono profondamente radicate nel cuore di molti— l'esito finale può essere il suicidio.
Nonostante che il fondamentale ostacolo all'amore sia l'egoismo — presente in ciascuno di noi — in circostanze normali l'amore ha sempre trovato dei forti supporti naturali al proprio sviluppo. La novità della patologia che affligge la società attuale sta nel fatto che quegli stessi supporti naturali, primi fra i quali la vita coniugale e familiare, sono essi stessi in pericolo di morte. Chiamandoci all'esistenza, il piano di Dio era che avremmo dovuto essere concepiti e svilupparci nell'amore; che la nostra vita avrebbe dovuto maturare in quella particolare scuola di amore che è la famiglia. Dio ha istituito la famiglia perché fosse il primo luogo in cui l'amore venisse appreso con tutta naturalezza e dalla quale potesse riversarsi sugli altri. Perciò, attraverso il matrimonio e la famiglia, Dio vuole spargere amore, e con esso il bene, in tutto il mondo.
Se la vita di ciascun individuo e della società diventa buona o cattiva, positiva o negativa, ricca di amore o tarpata dall'egoismo, dipende fondamentalmente dalla famiglia. La qualità della famiglia e l'esperienza della famiglia sono vitali per ottenere individui sani e una società sana in cui, nonostante la presenza del male, il bene sia presente in maniera sempre più forte. Uno dei paragrafi più pregnanti della Lettera del Papa afferma che «la famiglia si trova al centro del grande combattimento tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra l'amore e quanto all'amore si oppone. Alla famiglia è affidato il compito di lottare prima di tutto per liberare le forze del bene [...]. Occorre far sì che tali forze siano fatte proprie da ogni nucleo familiare, affinchè [...] la famiglia sia "forte di Dio"» (n. 23).
Se procediamo nell'esame del piano di Dio, possiamo dire che la famiglia ha una tale forza perché è — deve essere — quel luogo del tutto speciale in cui nessuno viene privato di amore, neppure il meno amabile. I genitori tendono ad amare ciascuno dei loro figli, persino e specialmente il peggiore. Allora i figli imparano che c'è un amore che non è condizionato dal merito e che non viene sminuito a motivo dei difetti. I figli che sono cresciuti in una simile famiglia e hanno sperimentato che cosa significa essere amati incondizionatamente, sono nella miglior condizione per affrontare la sfida dell'amore, dentro e fuori la famiglia.
Se i figli imparano normalmente ad amare è soprattutto perché hanno sperimentato l'essere amati nell'ambiente naturale della famiglia. San Tommaso insegna che nulla spinge qualcuno ad amare quanto il sentirsi amato'. I figli che sono amati dai propri genitori imparano a loro volta ad amare. La perseverante dedizione dei propri genitori insegna loro a poco a poco che amare significa donare. E sotto la costante e amorevole guida dei propri genitori imparano anch'essi ad amarsi tra loro. Così fratelli e sorelle imparano gradualmente a essere generosi tra loro, a comprendere, a perdonare, a riconciliarsi. Allora la famiglia diventa veramente, come dice il Papa, «la prima scuola dell'essere uomo sotto i vari aspetti» (n. 15): una scuola che prepara i figli alla vita, in modo particolare alla vita moderna, in cui gli individui si spazientiscono gli uni verso gli altri, in cui prevalgono i giudizi negativi, in cui i difetti delle altre persone diventano un'ossessione e il passar sopra una rarità, in cui la grettezza e l'intolleranza sembra che vadano acquistando credito come codice di comportamento sociale. Qui si vede quanto sia privilegiato il compito dei genitori: non solo nel dare la vita, ma anche nell'insegnare ad amare. Si potrebbe persino dire senza esagerazione che la loro missione consiste nel salvare l'amore, mediante un lavoro di incarnazione che lo umanizza per i loro figli, in modo che non sia per loro una semplice parola, bensì una realtà veramente presente nella loro vita di tutti i giorni.
Se tante famiglie oggi non sono più quella scuola dell'amore che avrebbero dovuto essere è quasi sempre perché i fondatori di ciascuna famiglia, il marito e la moglie, non hanno posto correttamente le basi del loro amore iniziale. Le famiglie non sono sempre scuole di amore; esse sono come i genitori le fanno. I genitori non daranno un amore incondizionato ai figli se non hanno cercato di darselo reciprocamente.
Il vero amore è esigente
Queste riflessioni spiegano perché una parte tanto preponderante dell'insegnamento dell'attuale Pontefice sia imperniato su una chiara e positiva esposizione del piano divino sulla sessualità umana, e in particolare sul matrimonio e sulla famiglia, che sono oggi tanto minacciati e senza la stabilità dei quali la società non potrà mai essere cristiana e nemmeno umana.
La Lettera del Papa è molto realista circa queste minacce, benché sia, come abbiamo già osservato, profondamente ottimista sul disegno provvidenziale di Dio. E interessante fare un parallelo fra la Lettera e le idee di un altro grande fautore del matrimonio e della famiglia, il fondatore dell'Opus Dei; infatti nel messaggio del beato Josemaria Escrivá si trova un attraente e forte ottimismo sulla bellezza della vita matrimoniale e familiare, quando viene vissuta secondo i piani di Dio.
La ricerca di sé stessi è incompatibile con il vero amore, che è una chiamata a uscire da sé stessi: a donarsi, non a ricercare sé stessi. Perciò l'amore è una sfida; non è mai una scelta facile. «L'amore è esigente», afferma il Papa, e prosegue: «Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente, perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia» (n. 14). Anche il fondatore dell'Opus Dei era perfettamente consapevole che l'amore, come la felicità, è esigente. Un tema costante della sua predicazione è che la felicità — anche a livello umano — è la conseguenza della dedizione e della dimenticanza di sé stessi. In uno dei suoi libri egli scrive: «Può essere felice sulla terra, di una felicità che è preparazione e anticipo del Cielo, solo chi dimentica sé stesso — nel matrimonio come in ogni situazione — e si dedica a Dio e agli altri»2. Altrove egli insiste: «II matrimonio esige molto sacrificio, ma quanto benessere, quanta pace e quanta consolazione da. Se non è così, vuoi dire che sono cattivi gli sposi»3.
Amare veramente una persona significa volere il suo bene. Questo senza dubbio comprende il volere che l'altra persona sia migliore, ma si deve incominciare con l'amarla come essa è attualmente', e almeno nel matrimonio essere disposti ad amarla come potrà diventare; altrimenti non è una persona reale che ci s'impegna ad amare, non è un reale impegno coniugale che si prende promettendo fedeltà «nella buona e nella cattiva sorte»...
La fedeltà reciproca viene vissuta facilmente finché viene mantenuto in vita l'amore; può invece apparire come un peso insostenibile se l'amore viene trascurato e gradualmente si spegne. Il beato Josemaria ha insistito spesso su questo punto e sull'importanza delle piccole cose che dimostrano e alimentano l'amore. Egli ebbe modi originali e peculiari di ammonire le coppie di sposi, per esempio dicendo alle mogli che devono mantenersi attraenti nella persona e nel modo di vestire: esse hanno l'obbligo verso i loro mariti di fare questo. «Il marito è felice che vi facciate belle per lui! E ne avete l'obbligo. Siete sue. Allora lui si conserverà forte e pulito per voi, perché è vostro»4. Che gli sposi si debbano amare l'un l'altro «come fidanzati» era una frase abituale sulle labbra di mons. Escrivá. Essi dovrebbero sempre saper ritornare a quell'amore pieno di ideali del loro fidanzamento e dei primi anni della vita matrimoniale. «Avrebbe un ben povero concetto del matrimonio e dell'affetto umano chi pensasse che, nell'urto contro le difficoltà, l'amore e la gioia vengano meno. E proprio allora, invece, che i sentimenti che animano quelle creature rivelano la loro vera natura, che la donazione e la tenerezza si rafforzano e si manifestano come affetto autentico e profondo, più potente della morte»5.
Le sfide dell'amore
Normalmente le persone si sposano perché si sono «innamorate» l'una dell'altra. Ma un matrimonio riuscito e felice non dipende dall'innamorarsi, bensì soprattutto dal perseverare nell'amore. Innamorarsi è facile; perseverare nell'amore non lo è.
Il processo romantico che di solito ispira la decisione di sposarsi ha alcune caratteristiche peculiari. Ricco di affettività, esso tende a idealizzare l'altra persona, ne esagera le virtù e minimizza o non riesce a vedere i suoi difetti; l'amore è proprio «cieco». Di peculiare in questo processo è che esso sembra un disegno deliberato della natura: quel «romanzo», contrassegnato da una forte affettività e da una debole percezione, parrebbe facilitare alle persone il volersi legare insieme per tutta la vita. In questo, la natura non gioca un brutto tiro, ma piuttosto realizza il preludio di un piano più impegnativo: quando, più tardi, il romanzo sfuma e i difetti personali vengono alla ribalta, l'amore spontaneo deve maturare in qualcosa di più profondamente inteso e voluto. È a quel punto che gli sposi dovrebbero capire che non hanno ancora imparato veramente ad amare e che, se non l'imparano, non potranno restare insieme.
Così leggiamo nella Lettera del Papa: «L'amore non è un'utopia: è dato all'uomo come compito da attuare con l'aiuto della grazia divina» (n. 15). Il Santo Padre parla di «pericoli che incombono sull'amore» e soggiunge: «Si pensi anzitutto all'egoismo» (n. 14). Come è vero! Tutti noi siamo fatti per amare, ma siamo perseguitati dall'egoismo. Di qui comincia la costante lotta della vita.
Il beato Josemaría predicava costantemente che la superbia è la peggior forma di egoismo, e pertanto anche il peggior nemico dell'amore. Se non si combattono l'orgoglio e l'egoismo, essi distruggono l'amore, l'unità e la felicità, mettendo l'anima in pericolo di perdersi. L'umiltà è una delle armi principali per la lotta: l'umiltà di chiedere costantemente perdono a Dio per i propri peccati e, nella vita matrimoniale, di chiedere costantemente al proprio coniugo di perdonarlo, anche se verrebbe in mente soprattutto di biasimarlo. Mons. Escrivá sapeva dimostrare alle persone come, se ci sono discussioni o liti nel matrimonio, la colpa non sia di una parte sola, ma di entrambi; perciò ambedue devono chiedersi reciprocamente perdono. «Dal momento che siamo creature umane, qualche volta si può litigare; ma poco. E poi, tutt'e due devono riconoscere di averne la colpa, e dirsi l'uno all'altro: scusami!»6.
Amare le persone con i loro difetti
II vero amore, perciò, dev'essere così forte da superare il più grande pericolo per l'unione matrimoniale: i difetti che, man mano, ciascuno degli sposi scopre inevitabilmente nell'altro. Qui tocchiamo un punto decisamente importante del messaggio spirituale del beato Josemaría.
Quale incoraggiamento ha dato con la sua costante insistenza sul fatto che Dio ci ama con i nostri difetti: non per i nostri difetti, ma con essi! Noi tutti abbiamo difetti e viene il momento che li scopriamo, a volte con una forza sorprendente. Il sentirsi rifiutati dagli altri per quei difetti produce una crisi: di superbia e di auto-giustificazione, oppure di disperazione. Il sapere che si è amati con i propri difetti può allora diventare elemento di salvezza.
Se Dio ci ama così, i cristiani sono chiamati ad amare nello stesso modo. Che questo abbia una speciale applicazione alla vita matrimoniale è ovvio ed elementare, e tuttavia è dimenticato da molti. Il beato Josemaria comprese che questa è una condizione fondamentale per il vero amore umano, e insegnò fermamente e costantemente che la reale e durevole felicità coniugale dipende da questo: essere generosi, umili e perseveranti per imparare ad amare un coniuge che ha dei difetti, essendo un coniuge pieno di difetti. «Faccio i complimenti a quanti sono sposati; ma vi dico di non inaridire l'amore, di far in modo di essere sempre giovani, di conservarvi interamente l'uno per l'altro, d'arrivare ad amarvi tanto da amare i difetti del consorte, purché non costituiscano offesa a Dio. Non vi lamentate mai l'uno dell'altro! Se vi lagnate, vuoi dire che non vi volete bene abbastanza, perché difetti ne avrete sempre. Ce li ho anch'io, nonostante la mia età, e continuo a lottare contro di essi. Fate lo stesso anche voi»7.
Parlando con una coppia di sposi, egli spesso domandava, magari incominciando dalla moglie: «Ami tuo marito?». «Certamente», lei rispondeva. «Ma lo ami tanto?» «Tanto!» «Ma lo ami con i suoi difetti?...». Se a questo punto si dava un attimo di esitazione, egli soggiungeva: «Perché se non è così, tu non lo ami». E poi chiedeva le stesse cose al marito.
Amore, generosità & figli
II Papa, mentre insiste sulla bellezza dell'amore coniugale e familiare, parla dei pericoli che lo minacciano e delle sfide che deve affrontare. Abbiamo già rilevato che cita l'egoismo come il primo fra «i pericoli che incombono sull'amore». Egli prosegue: «Si pensi [...] non solo all'egoismo del singolo, ma anche a quello della coppia» (n. 14). Egli parla del pericolo per l'amore coniugale rappresentato non solo dall'egoismo nelle reciproche relazioni tra marito e moglie, ma anche dall'egoismo partecipato fra i due nei confronti dei figli: il pericolo che la coppia sia calcolatrice nell'atteggiamento verso la prole. I figli sono propriamente il frutto dell'amore coniugale; ma è un ben povero amore se è calcolatore. Il donare con calcolo, specialmente nel donare la vita, raramente esprime — o rafforza— un vero amore. L'amore, quello vero, tende a essere generoso; e la generosità non ragiona in termini di calcolo.
Il Papa perciò insiste nel dire che, nella vita coniugale, viene proposta ai due coniugi insieme una sfida particolare, concernente il possibile frutto del loro amore. «I figli da loro generati dovrebbero — qui sta la sfida — consolidare tale patto, arricchendo e approfondendo la comunione coniugale del padre e della madre. Quando ciò non avviene, occorre domandarsi se l'egoismo, che a causa dell'inclinazione umana al male si nasconde anche nell'amore dell'uomo e della donna, non sia più forte di quest'amore» (n. 7).
L'insegnamento di mons. Escrivá fa eco su questo punto: «L'egoismo, in ciascuna delle sue forme, si oppone all'amore di Dio che deve dominare nella nostra vita. Questo è un punto fondamentale, che dev'essere tenuto ben presente a proposito del matrimonio e del numero dei figli» . L'amore coniugale è naturalmente destinato a diventare amore parentale. Normalmente, questa è una condizione perché si conservi e cresca. Il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica recita: «L'amore coniugale tende per sua natura a essere fecondo. Il figlio non viene ad aggiungersi dall'esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia al cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento» (n. 2366). Quale coppia di sposi può pensare di non amare i propri figli come un dono e un possesso totalmente unici? Tuttavia, oggi molti preferiscono posticipare questo dono, nonostante la garanzia che esso offre di ispirare il loro amore; ed essi fanno questo allo scopo di acquisire altre cose che essi non potranno mai amare — o dalle quali non potranno mai essere amati — in modo simile. Che cos'è accaduto da renderli così ciechi sull'importanza di essere amati, di amare, d'imparare ad amare? I cuori dei coniugi, due persone orientale l'una verso l'altra, non possono maturare in un fedele amore coniugale se non diventano cuori di genitori, insieme orientati verso i figli (cfr Le 1,17).
Il beato Josemaria parlava con entusiasmo del privilegio della paternità e della maternità, specialmente nel caso delle donne. In Brasile, nel 1974, disse a un folto gruppo di persone sposate: «La maternità è una cosa santa, gioiosa, buona, nobile, benedetta e amabile. Madri, complimenti»9. Costantemente ripeteva che «la maternità rende più belle».
Vitalità della famiglia
La famiglia è scuola di vita e di amore. Ma se essa non ha un certo minimo di vigore, normalmente espresso in termini di dimensione, non è verosimile che individualismo ed egoismo abbiano cancellato le loro spinose angolosità. Nella sua Lettera il Papa insiste: «C'è poca vita umana nelle famiglie dei nostri giorni. Mancano le persone con le quali creare e condividere il bene comune; eppure il bene, per sua natura, esige di essere creato e condiviso con altri: "bonum est diffusivum sui", "il bene tende a diffondersi"» (n. 10). Secondo quanto espresso da Paolo VI nella Humanae vitae (n. 10), la paternità responsabile ha la sua prima espressione nella «prudente e generosa decisione di avere una grande famiglia». Il nuovo Catechismo richiama che «la Sacra Scrittura e la pratica tradizionale della Chiesa vedono nelle famiglie numerose un segno della benedizione divina e della generosità dei genitori» (n. 2373). Il beato Josemaría difendeva costantemente le famiglie numerose, che egli vedeva come naturale espressione e supporto dell'amore coniugale e della fiducia nella paterna provvidenza di Dio, come pure come il luogo in cui i figli imparano la tolleranza, il reciproco aiuto, il servizio e la generosità, acquisendo così quelle qualità che possono mantenere a un livello umano la vita sociale.
Egli vedeva la procreazione come un privilegio, una missione divina, e come un pegno di speciali benedizioni per i coniugi. Non voleva che gli sposi facessero l'abitudine a quel privilegio. Gli venivano rivolte con frequenza domande come questa: «Padre, ho dieci figli. Quando dico questo, alcuni mi guardano come un animale raro. Lei che ne pensa?». Mons. Escrivá rispose immediatamente: «Che Dio ha avuto dieci volte molta fiducia in voi: dillo a tua moglie, da parte mia. La benedico dieci volte con le mie due mani di sacerdote, perché non avete frapposto ostacolo alla vita, perché avete ricevuto come venuto da Dio quello che costituisce il regalo più meraviglioso»10.
Vocazione alla santità
Fin qui abbiamo parlato dell'amore coniugale e familiare su un piano naturale. Abbiamo ripreso le parole del Papa circa i nemici dell'amore e preso anche in considerazione la semplice e ottimistica psicologia del beato Josemaria per quanto concerne il modo di poter superare tali difficoltà. Tutto quello che abbiamo rilevato può essere applicato a qualunque coppia di sposi. Naturalmente, però, ne il Santo Padre ne mons. Escrivá presentano il matrimonio come un ideale meramente naturale ed essi non pensano che le sue sfide e la sua bellezza possano trovare compimento con le sole forze naturali. Il Papa, come tutti i suoi predecessori, insiste sul fatto che il matrimonio per i cristiani è un sacramento e che marito e moglie devono fare affidamento sulla grazia sacramentale allo scopo di essere all'altezza del loro amore e della loro missione come coniugi e genitori (cfr Lettera, nn. 15 e 16).
Nella visione di mons. Escrivá sul matrimonio cristiano troviamo naturalmente la stessa insistenza sul suo carattere sacramentale. Ma vi compare costantemente anche una nuova e martellante sottolineatura: il matrimonio viene presentato non soltanto a livello di sacramento, ma anche come vocazione, come chiamata personale a un genere di vita essenzialmente orientato alla santità.
«Queste crisi mondiali sono crisi di santi»", scrisse circa sessant'anni fa. La vita del fondatore dell'Opus Dei, per usare una frase che era spesso sulle sue labbra, fu dedita ad «aprire i cammini divini della terra», a convincere dovunque la gente comune che il lavoro e le occupazioni di ciascuno sono strade verso Dio e strade di Dio: che Dio lo si deve trovare non solo alla fine del cammino, ma ad ogni passo di queste strade secolari, che perciò devono esser viste in sé stesse come mezzo per trovarlo e amarlo.
La santità è l'unica formula per risolvere le crisi reali del mondo! Per parecchie persone, l'aspetto più rivoluzionario del messaggio del fondatore sell'Opus Dei è il fatto che egli abbia applicato tutto questo proprio al matrimonio, presentandolo non solo come un sacramento, ma soprattutto come una vocazione; comunicando a milioni di sposi la convinzione che Dio li chiama al matrimonio, e così facendo li chiama alla santità; che essi hanno la grande missione di rendere il loro amore coniugale e il loro amore di genitori espressioni di amore di Dio e mezzi per amarlo. Giovani e meno giovani hanno ripetutamente meditato su quell'altro punto che si trova all'inizio di Cammino: «Ridi perché ti dico che hai "vocazione matrimoniale"? — Ebbene l'hai: proprio così, vocazione» (n. 27).
Famiglie sante: di questo ha specialmente bisogno il nostro tempo. Esse possono esser formate solo da coniugi che cerchino veramente di essere santi. Solo in simili famiglie il bene sarà più forte del male e capace di sopraffarlo. Solo da simili famiglie può venire diffuso quel bene che può salvare il mondo; perché solo i santi sono forti della «forza di Dio».
«Da quasi quarant'anni — ha scritto mons. Escrivá nel 1968 — predico il significato vocazionale del matrimonio. Quante volte ho visto illuminarsi il volto di tanti, uomini e donne, che credendo inconciliabili nella loro vita la dedizione a Dio e un amore umano nobile e puro, mi sentivano dire che il matrimonio è una strada divina sulla terra»12.
Il matrimonio è un cammino divino; è certamente un'affermazione audace! Raramente nella storia della Chiesa è stata proclamata con tanta energia non solo la bontà costitutiva del matrimonio, ma il suo significato di vocazione alla santità.
Il beato Josemaria ha insistito nel dire che l'amore verso Dio, nel caso di marito e moglie, è inseparabile dal loro amore reciproco e li aiuta a realizzare ciò che questo implica. L'uno è mezzo per conseguire l'altro amore. La crescita in uno di questi amori non è possibile senza crescere nell'altro. Gli sposi, egli ripeteva, sono stati «chiamati da Dio a raggiungere l'amore divino attraverso l'amore umano»13.
«Gli sposi hanno grazia di stato — la grazia del sacramento — per praticare tutte le virtù umane e cristiane della convivenza: la comprensione, il buon umore, la pazienza, il perdono, la delicatezza nel rapporto reciproco. L'importante è non lasciarsi andare, non lasciarsi dominare dal nervosismo, dall'orgoglio o dalle manie personali. Per riuscirci, marito e moglie devono sviluppare la propria vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere con finezza — per un motivo che è allo stesso tempo umano e soprannaturale — le virtù del focolare cristiano»14. C'è una grande saggezza e una grande forza nella spiritualità sottesa a queste affermazioni. Il principio che la grazia costruisce sulla natura è particolarmente vero nel caso delle grazie del matrimonio. Se si fa assegnamento su queste grazie, esse attivano tutte le genuine espressioni del vero amore coniugale e familiare.
Il problema del nostro mondo contemporaneo è di voler essere felici ricevendo e non donando; ma questo va contro le regole fondamentali del vivere umano. Alla fine dei conti, non possiamo e non vogliamo ignorare il fatto che la felicità — anche la felicità che il matrimonio promette — non è possibile senza generosità e sacrificio. Il beato Josemaria diceva spesso che la gioia «ha le radici a forma di croce»15. È la regola e l'apparente paradosso del Vangelo: solo «perdendo» e donando sé stessi — l'essenza dell'amore — possiamo incominciare a trovarci e, ancor più che noi stessi, a trovare la felicità per la quale siamo fatti.
La nuova armonizzazione tra i fini del matrimonio
Per molto tempo nell'insegnamento cattolico veniva fatta una presentazione gerarchica dei fini del matrimonio, in cui la procreazione era il fine principale. Il Concilio Vaticano II, che due volte afferma che il matrimonio è per sua natura ordinato alla procreazione, non usa il termine «fine primario». In due importanti documenti del magistero postconciliare è stata articolata una chiara e integrata visuale dei fini del matrimonio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dichiara che il fine è duplice: «il bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita»16, con espressione identica a quanto era stato già stabilito nel Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 1055). Entrambi i fini sono presentati come fini istituzionali ed entrambi, propriamente intesi, sono personalistici. Piuttosto che una gerarchia fra di essi, è la loro interdipendenza e inseparabilità che viene ora sottolineata.
Mons. Escrivá ha sempre sostenuto lo stretto legame tra i fini del matrimonio, in cui l'amore umano e l'amore divino s'incontrano e operano mano nella mano. Come egli intendesse la connessione tra questi fini appare nel seguente passo, in cui egli li prende in considerazione non solo sotto il profilo istituzionale, ma anche sotto quello vocazionale: «E importante che gli sposi acquistino un chiaro senso della dignità della loro vocazione; che sappiano di esser stati chiamati da Dio a raggiungere l'amore divino attraverso l'amore umano; che sono stati scelti, fin dall'eternità, per cooperare con il potere creatore di Dio nella procreazione e poi nell'educazione dei figli»17.
«Di esser stati chiamati da Dio»...; «che sono stati scelti fin dall'eternità»: nulla può essere più personale di una simile vocazione divina. E nello scopo che egli vi ravvisa «raggiungere l'amore divino attraverso l'amore umano» esprime certamente il contenuto essenziale del «bene degli sposi». Conoscere la bontà di Dio, aprirsi a quel bene, prepararsi al suo possesso e all'eterno suo godimento: in questo consiste l'ultimo destino e il «bene» di ogni persona. Il bene degli sposi si trova nella combinazione e nello sviluppo come un tutto unico della capacità di amore, sia umano che divino, del marito e della moglie. L'amore umano, che dall'amore divino deriva e ad esso conduce; l'amore coniugale che diventa poi parentale, derivante dall'amore della famiglia; il bene che si espande nella famiglia e dalla famiglia, con tutta la forza di Dio: con tutta quella forza che salva il mondo.
L'amore può essere ucciso dalla legge: da cattive leggi, che oggi abbondano. Non può essere ricostituito dalla legge, neppure da buone leggi, benché di buone leggi ci sia bisogno ed esse possano certamente giovare. Non è nei Parlamenti, e neppure nelle Supreme Corti o nelle Conferenze delle Nazioni Unite, che l'amore può essere risuscitato, bensì solamente nelle famiglie.
Le coppie di sposi devono imparare a mettere i loro problemi meramente personali o individuali in un secondo piano; e, insieme, a superare le loro diversità (o a scoprire come convivere con esse), a perdonare e dimenticare, e ad amarsi l'un l'altro, con tutti i relativi difetti. Se il loro amore è vero e accorto, essi non vorranno rimanere una coppia: vorranno diventare una famiglia. E allora, come genitori, essi hanno bisogno di innalzare continuamente le loro menti e i loro cuori — ciascuno per conto suo ed entrambi insieme — a quello che Dio, ancora una volta attraverso la Lettera del Papa, propone loro; a quello che la società e il mondo, senza saperlo, ha bisogno di ricevere da loro; e a quello che i loro figli, forse anche senza rendersene perfettamente conto, hanno il diritto di attendersi da loro.
NOTE
[1] Cfr Summa Theologiae, I-II, 26, art. 2.
[2] È Gesù che passa, n. 24.
[3] RHF 20159, p. 108 (RHF fa riferimento all'archivio storico che si conserva nella sede centrale della Prelatura Opus Dei, a Roma).
[4] RHF 20770, p. 669.
[5] È Gesù che passa, n. 24.
[6] RHF 20770, p. 108.
[7] RHF 20760, p. 770.
[8] Colloqui con mons. Escrivá, n. 93.
[9] RHF 20770, p. 83.
[10] RHF 20760, pp. 778-779.
[11] Cammino, n. 301.
[12] Colloqui con mons. Escrivá, n. 91.
[13] Colloqui con mons. Escrivá, n. 93.
[14] Colloqui con mons. Escrivá, n. 108.
[15] Cfr Forgia, n. 28.
[16] RHF 2363; cfr n. 2249.
[17] Colloqui con mons. Escrivá, n. 93.