Nell'introduzione ho fatto notare che nelle nazioni occidentali il divorzio è considerato da molti un segno di progresso sociale; basti pensare alla sorpresa scandalizzata di tanti quando, pochi anni fa, il popolo irlandese ne respinse l'introduzione nel proprio Paese.
Il punto di partenza è questo: solo chi è convinto che il divorzio arrechi più felicità dovrebbe considerarlo un segno di progresso. È quindi ragionevole domandarsi se il divorzio comporti davvero vantaggi per la società e se contribuisca realmente alla felicità delle persone e delle famiglie. Se di fatto il divorzio giovasse alla maggioranza — sia pure a spese di una sfortunata minoranza— si potrebbe ragionevolmente parlare di progresso. Se, al contrario, per la felicità di pochi dovessero soffrire in molti non si potrebbe più parlare di progresso. Ritengo che sia appunto questo il caso; e penso che ciascuno possa verificarlo per suo conto, ragionando e osservando spassionatamente i fatti concreti.
Che il matrimonio sia indissolubile in virtù della propria natura è stato esplicitamente affermato da Gesù Cristo (cfr Mt 19, 8-9), con una dottrina che la Chiesa ha più volte ribadito': ogni matrimonio, sacramentale o meno, è indissolubile. Non mi propongo però di approfondire questa dottrina, ma piuttosto di suggerire che: a) il divorzio, anche a livello di felicità personale e terrena, produce più risultati negativi che positivi; b) l'indissolubilità, lungi dal danneggiare l'amore umano, lo difende e lo realizza. Gli argomenti in favore di queste due tesi sono complementari: basteranno poche considerazioni per illustrare la prima, mentre per la seconda spenderò qualche parola di più.
Il divorzio genera divorzio
II divorzio non favorisce la felicità; favorisce il divorzio. E significa sempre il crollo definitivo di un sogno di felicità. C'è chi dice che il divorzio riguarda solo casi estremi: quei matrimoni che sono effettivamente falliti. In simili casi il divorzio darebbe l'opportunità di ricominciare. Sembra invece ogni giorno più evidente che il «rimedio» del divorzio, anziché risolvere il male, semmai lo aggrava.
Il divorzio non cura casi «estremi»; li crea. Il divorzio genera divorzio, e si riproduce rapidamente. È statisticamente accertato che, non appena se ne permette l'instaurazione in una società, esso cresce vertiginosamente. I dati che seguono mostrano questo incremento negli Stati Uniti in due periodi di trent'anni dal 1900 al 1960, calcolando il rapporto tra numero di matrimoni celebrati e di divorzi concessi — il rapporto, cioè, tra i matrimoni «fatti» e quelli «disfatti» — ogni anno:
Anno Matrimoni Divorzi %
1900 709.000 56.000 8
1930 1.127.000 196.000 17
1960 1.527.000 395.000 26 [2]
La tendenza a crescere è tale che la percentuale riscontrata nel 1960 è raddoppiata appena 15 anni più tardi: nel 1975 vi sono stati 2.126.000 matrimoni, contro 1.026.000 divorzi3: un divorzio per ogni due matrimoni celebrati!
Non so chi oserebbe affermare che questi dati mostrano un progresso nella felicità umana. Mostrano, a mio parere, un fallimento: il crescente isolamento dell'uomo. Tra tutte le istituzioni naturali il matrimonio è, con la sua speranza di amore profondo e duraturo, quella che offre maggiori promesse di felicità. Se, nelle società divorziste, la metà delle persone che si sposano non raggiungono questa sospirata felicità, dove la otterranno? Forse convolando a nuove nozze? Ancora una volta sono le statistiche a rispondere: il numero di divorzi tra persone già divorziate e risposate è tre o quattro volte superiore al numero di divorzi tra persone al primo matrimonio.
E facile rendersi conto, dati alla mano, che la legalizzazione del divorzio tende a creare una situazione che condanna al fallimento un numero di coppie sempre maggiore. Nelle società dove il matrimonio è considerato una decisione irrevocabile, di solito si medita a lungo sulle implicazioni di questo passo, e nessuno osa prendere alla leggera un impegno che durerà per tutta la vita. Dopo, quando appaiono le inevitabili difficoltà della vita coniugale, molte volte la mancanza di una facile scappatoia aiuta a salvaguardare il matrimonio. In una società divorzista è difficile che a chi si sposa non passi per la mente qualcosa come: «Se non andrà bene, potrò sempre divorziare». Ragionando così, però, si appanna la sensazione di compiere, sposandosi, un passo irrevocabile. Non ci si sta compromettendo per tutta la vita, si sta semplicemente provando qualcosa, con la riserva di abbandonarlo qualora non funzioni a dovere. La mentalità divorzista porta a una visione commerciale del matrimonio: si tende, ab initio, a considerarlo con diffidenza; e pertanto si insiste nel chiedere la garanzia che sia possibile riavere la propria libertà qualora si riveli insoddisfacente. «Prova e vedrai!» è uno slogan buono per una mercé, ma non si adatta a un giuramento d'amore. «Proverò e vedrò»: un simile atteggiamento calcolatore applicato al matrimonio getta le basi di un futuro fallimento. Che felicità merita, in fin dei conti, chi mette alla prova il matrimonio anziché sé stesso?
Indissolubilità & felicità
Avevo suggerito, in secondo luogo, che l'indissolubilità è stata pensata (dalla natura, da Dio) per contribuire alla felicità dell'uomo, non per ostacolarla. Ma il perché dell'indissolubilità si fa comprensibile solo se si capisce il perché del matrimonio. Il matrimonio esiste per fare felici le persone, insegnando loro ad amarsi. L'indissolubilità è semplicemente la regola che Dio pone a quanti intraprendono questo apprendistato di amore: non si è autorizzati a interrompere lo sforzo di amare, per il fatto che costa fatica.
Nel matrimonio (e nell'indissolubilità) i coniugi dovrebbero trovare la felicità, perché ciò fa parte del piano divino per quanti si sposano. Bisogna però tenere presente che:
a) Benché il matrimonio possa e debba fare felici i coniugi, non può farlo in modo perfetto: la felicità perfetta si ottiene solamente in Ciclo, non quaggiù. Pertanto chiunque pretenda una felicità perfetta dal matrimonio si sentirà necessariamente defraudato4.
b) Nel matrimonio si può essere felici, ma non senza impegnarsi. La felicità non si conquista facilmente: esige lotta. La felicità che si ottiene a poco prezzo non è duratura; pertanto un matrimonio felice senza sforzo è una chimera5.
c) Dal principio generale che «il matrimonio dovrebbe fare felici gli uomini» non bisogna frettolosamente concludere che «il matrimonio deve fare felice me». Un simile ragionamento è spesso guidato più da sentimenti come l'impazienza, l'autocompassione, la rabbia o l'amarezza che dalla logica: in una parola dall'egoismo. E un matrimonio dominato dall'egoismo non può funzionare: non è in condizione di fare felice nessuno. Ognuno di questi aspetti, soprattutto l'ultimo, merita un ulteriore commento.
Il matrimonio — abbiamo detto — non può donare la felicità perfetta: non è il suo fine. L'obiettivo del matrimonio, va precisato, non è procurare una felicità perfetta ai coniugi, bensì maturarli per la felicità perfetta. Giorno per giorno, attraverso le vicende terrene, Dio cerca di insegnarci ad amare, per farci capaci di godere pienamente di Lui in Paradiso. Il matrimonio è una delle scuole — una scuola d'amore — dove si formano gli alunni di Dio.
Dicevamo in secondo luogo che se il matrimonio esige un impegno è perché l'amore stesso lo richiede. L'amore è una disciplina tutt'altro che facile, e la ragione della sua difficoltà consiste in questo: ognuno di noi è fortemente incentrato sul proprio «io», mentre l'amore vero si rivolge verso «l'altro». La persona non impara ad amare se non vince il proprio egoismo. Ciò richiede un impegno e una lotta costanti, con prevedibili alti e bassi. L'amore aumenta solo se diminuisce l'egoismo; se l'egoismo resta, l'amore non può crescere. Se poi è l'egoismo ad aumentare, l'amore si indebolisce fino a morire. Ed è raro che l'amore muoia di morte naturale: di solito viene «assassinato» dall'amor proprio.
Molto spesso l'egocentrismo è assai forte. E anche vero che esso, in ciascuno di noi, si accompagna a un autentico bisogno di amore vero, un profondo anelito a incentrarci sugli altri. Ma è normale che, in quasi tutte le coppie, ciascuno dei due coniugi inizi la vita coniugale pensando più a sé stesso che all'altro.
Tuttavia — si potrebbe osservare — dal momento che di solito due persone che si sposano sono innamorate, le attenzioni di ciascuno non sono forse già fìsse nell'altro? Può darsi, ma credo che solo il tempo potrà confermare la bontà delle disposizioni: come mai, altrimenti, sono tante le persone che al momento di sposarsi pensano di essere una coppia «unica al mondo» e dopo appena qualche anno non si sopportano più a vicenda? Si dice che l'amore è svanito, «morto», e che il divorzio è il successivo, inevitabile passo. Avremo modo di esaminare a fondo quale sia la migliore maniera di reagire quando l'amore «muore»; ma prima sarà meglio sottoporre a un esame questo amore coniugale che — ci si assicura — è in fin di vita, tenendo presente ancora una volta che se l'amore muore, di rado ciò capita all'improvviso.
Il giorno delle nozze l'amore scoppiava di salute. Quale processo di degradazione si è sviluppato perché uno dei coniugi, o entrambi, vogliano dichiararlo morto e sepolto pochi anni più tardi? Non sarà che, in fondo, non era un amore così sano e forte come sembrava? E possibile. Raramente l'amore comincia forte, perché all'inizio ancora non si conosce l'altra persona a fondo, quale realmente è (di solito un insieme, come tutti gli esseri umani, di pregi e difetti).
All'inizio è molto forte il sentimento. Ma il sentimento — che contiene sempre una vena di romanticismo — tende a idealizzare la persona amata, e pertanto non è realmente incentrato sull''«altro». Coglie «l'altro» attraverso un velo roseo che ne presenta un'immagine particolarmente gradevole. Di fatto il sentimento è spesso compatibile con una buona dose di egocentrismo.
Il sentimento, facile e gradevole, può dare un valido impulso iniziale all'avvio dell'amore; ma non è l'amore. Quando quest'impulso si affievolisce, l'amore — se c'è — deve proseguire da solo. E facile sentirsi innamorati; è più difficile perseverare nell'amore.
Con gli occhi del sentimento è difficile scorgere difetti, nella persona amata, che non siano comunque sopraffatti da una moltitudine di virtù. L'amore autentico deve vedere i difetti, o almeno rendersi conto che esistono e prima o poi emergeranno. E evidente che l'amore autentico deve amare l'altra persona con i suoi difetti: amarla quale realmente è. Cosa niente affatto facile6.
Una frase come: «ti amo a patto che tu non abbia difetti» non è una dichiarazione d'amore autentica, ma equivale a dire: «ti amo a patto che tu non sia una persona reale...»; e l'amore disposto ad amare solo una persona inesistente non è amore. D'altro canto dire: «ti amerò a patto che tu non abbia difetti» è come dire: «ti amerò a patto di non dovermi mai sforzare per amarti», e questo è mero egoismo.
Porre vincoli all'amore
Ogni tentativo di stabilire qualche limite all'amore (specialmente sulla sua durata o revocabilità) dimostra una certa dose di egoismo. Una frase del tipo: «Ti amerò fino al 31 dicembre del 1995, sempre che, nel frattempo, non mi innamori di qualche altro» somiglia più a una trattativa commerciale che a una promessa di amore.
Se si considera il matrimonio come un meccanismo per produrre soddisfazione, il venir meno di tale soddisfazione verrà attribuito al cessato funzionamento dello strumento, che verrà sostituito alla stregua di un qualsiasi apparecchio —un televisore, un'automobile—che non funzioni più. Ma è stato il matrimonio a non funzionare o piuttosto il marito, o la moglie, o entrambi? Anche un 'automobile può guastarsi per un difetto di fabbricazione oppure per la scarsa perizia del conducente: nel secondo caso potremmo addirittura chiederci quanto durerà un altro veicolo nelle mani della stessa persona se questa non avrà prima imparato a guidare nel modo corretto.
Bisogna imparare ad amare, e ciò richiede tempo, e può perfino risultare più difficile man mano che si progredisce. Del resto ciò è vero per altri importanti aspetti della vita: la professione o qualsiasi attività commerciale. È noto a tutti che per diventare medico, o avvocato, bisogna prima frequentare anni di università, e, una volta conseguita la laurea, occorre continuare a studiare per approfondire la propria formazione professionale; eppure, nonostante questi sacrifici, non sempre si raggiunge il successo professionale sperato.
È strano che alle stesse persone ciò non risulti altrettanto evidente per quanto riguarda il matrimonio; e che quando si fa evidente la necessità di questo sforzo, tendano a pensare — se hanno assunto la mentalità divorzista — che è meglio mandare tutto a rotoli. Questo atteggiamento non è ragionevole, come non lo sarebbe per un aspirante medico abbandonare il corso di Medicina in una determinata università sperando di trovarne un'altra dove le materie più difficili, come Fisiologia o Farmacologia, siano state abolite. Anche ammesso che questa persona riuscisse fortunosamente a laurearsi, un simile medico sarebbe destinato al fallimento. Allo stesso modo, chi non è disposto a impegnarsi ad amare — a imparare ad amare — andrà inevitabilmente incontro a un disastro come marito o come moglie.
Per essere felici nel matrimonio ci vuole sforzo. Quando un coniuge, davanti alle difficoltà, lascia spazio a un ragionamento come: «Chiederò il divorzio, mi risposerò con quell'altro o quell'altra, così sarò più felice», ciò che in realtà sta pensando, a volte senza esserne pienamente cosciente, è: «La mia felicità dipende dal fatto che non mi si chieda troppo; sarò felice solo se non dovrò impegnarmi eccessivamente, se non dovrò rinunziare ai miei comodi, se per amare non dovrò sacrificarmi». Chi ragiona così non sarà mai felice, perché la felicità è una conseguenza della dedizione7; non si può essere felici — ne dentro il matrimonio ne fuori di esso — se si vuole ricevere più di quanto si sia disposti a dare.
L'indissolubilità è parte del piano di Dio per coloro che facilmente si darebbero per vinti8: coloro che si stancano delle esigenze dell'amore e della fedeltà, e sono tentati di abbandonare la lotta, sono in tal modo esortati da Dio a perseverare in questo compito. Dio è l'arbitro del grande gioco della felicità. Non è un gioco facile; ma, se si gioca secondo le regole, è certo che si può vincere. Una delle principali regole del gioco, per chi lo gioca all'interno del matrimonio, è l'indissolubilità: non si abbandona la partita, neanche nei momenti più duri; chi l'abbandona, perde.
Ripeto: non esiste una strada facile per la felicità. Chi ricorre al divorzio a causa delle difficoltà che ogni matrimonio porta con sé, sta semplicemente arrendendosi agli ostacoli che si frappongono fra lui e la felicità, e si ritrova sempre più lontano dalla vera felicità.
Nel matrimonio il peggior nemico dell'amore è l'egoismo: intendendo con ciò il proprio, non quello del coniugo. Si può fuggire dal coniuge, ma il proprio egoismo sarà sempre presente... Amare una persona egoista è sempre possibile (Dio lo fa con ognuno di noi); quel che risulta impossibile è che una persona egoista possa amare.
Un'articolo apparso nel 1967 sulla rivista Newsweek, intitolato «La donna divorziata», conserva intatta la sua validità a distanza di ventiquattro anni. Vi si legge che la donna divorziata ammette di essere più egoista e di tenere alla propria indipendenza, cura maggiormente la propria immagine, si sente socialmente disadattata; più sulla difensiva, con meno illusioni di felicità, più triste... «la sua tristesse», si legge ancora, «è evidenziata dal numero di donne divorziate che ricorrono alla psicoanalisi, dal numero di alcolizzate (una ogni quattro), e infine dal numero di suicidi (tre volte maggiore che tra le donne sposate)»11.
Ravvivare l'amore
L'istinto coniugale, che spinge al matrimonio e all'impegno per renderlo felice, sollecita lo sforzo di curarlo se si ferisce e di ripararlo se si rompe.
«Io non amo più mio marito (mia moglie); il mio amore nei suoi confronti è scomparso...». Puoi ritrovare l'amore scomparso, ma, per riuscirci, devi imparare a perdonare. Se avessi perdonato prima (e, forse, se avessi anche chiesto perdono) il tuo amore non sarebbe morto. L'amore coniugale non muore a causa delle liti tra marito e moglie, ma per non saperle riparare: a uccidere l'amore è l'incapacità di perdonare e di chiedere perdono. I diverbi che si risolvono — benché grandi — non distruggono l'amore, semmai lo rafforzano; quelli che non si risolvono — anche se di poca importanza — avvelenano lentamente la vita coniugale e possono arrivare a renderla intollerabile.
L'amore è morto... Che importanza aveva avuto per tè? Con quali sacrifici hai dimostrato di averne compreso il valore? Che cosa hai fatto per proteggerlo e, soprattutto, quanto sei disposto a dare per riportarlo in vita? Si può tenere vivo l'amore, ma non senza sacrificio; si può far rivivere l'amore, ma non senza rinuncia.
«Ma io non ho il minimo interesse a fare rivivere questo amore: il mio matrimonio è stato un fallimento e mio marito (mia moglie) non bada più a me». Probabilmente ciò non è vero: il matrimonio è un tesoro troppo grande perché lo si lasci perdere così. Devi riattualizzare quell'istinto coniugale che ti portò a sposarti e cercare di farlo rivivere nella sua purezza, nel suo idealismo e nella sua generosità.
In fin dei conti l'istinto coniugale non è egoista, e sono poche le persone che si sposano per mero egoismo. Il matrimonio va costruito sulla generosità contenuta in questo istinto: bisogna fomentare il generoso proposito di essere un buon marito o una buona moglie, che impari ad amare il coniuge così com'è, con i suoi difetti; bisogna stimolare il nobile desiderio di vincere l'orgoglio, di sorvolare nelle offese, di perdonare, di dimenticare... Non è cristiano, e neanche umano, pensare che la vita sia governata dall'istinto di vendetta, dalla necessità di rispondere col male al male.
Una volta ho visitato il Gran Canyon, in Colorado. Tra i ricordi che conservo c'è n'è uno che ha poco a che fare con quel grandioso spettacolo formatesi in milioni di anni, e riguarda invece una minuscola fetta di umanità i cui strilli riempivano l'autobus che ci portava verso il lato sud del Canyon. Una madre metteva a dura prova la propria pazienza tentando invano di calmare il figlio di tre o quattro anni. Quale che fosse la causa della sua collera, il piccolo si mise a strillare contro di lei scandendo ogni sillaba con furiosa chiarezza: «Io-ti-odio». Per un attimo l'autobus fu pervaso da un'atmosfera di ostilità; ma fu solo un attimo. La madre fu pronta a rispondere: «E-io-ti-amo».
Si dirà che fa parte della natura umana, dell'istinto materno, un simile comportamento. Certo. Allo stesso modo fa parte della natura umana — dell'istinto coniugale — desiderare di essere fedeli al matrimonio, costi quel che costi: reagire con amore verso il coniuge anche davanti a un comportamento offensivo e odioso.
Chi risponde al disprezzo o all'odio con l'amore, vince. L'amore è sempre l'arma segreta, lo strumento più potente, perché con esso condividiamo il potere di Dio.
Se gli sposi vogliono fare rivivere 1 ' amore, ciascuno deve riandare alle buone caratteristiche che a suo tempo pensava che l'altro avesse, e per le quali lo amava. È poco probabile che siano scomparse del tutto, però bisognerà impegnarsi a riscoprirle. Per riuscirvi ciascuno dovrà bandire dalla propria mente la coscienza dei difetti dell'altro.
Infine, può essere molto utile provarsi a scoprire le qualità che gli amici del marito (o le amiche della moglie) gli (o le) attribuiscono tuttora. Nei momenti di crisi non bisogna chiedere ai propri amici che cosa pensano del coniuge, ma agli amici di lui, alle amiche di lei. È possibile che i propri amici non sappiano aiutare a vedere il marito o la moglie sotto una buona luce; al contrario, gli amici di lui o le amiche di lei — se si sa ascoltarli — saranno probabilmente di valido aiuto.
Matrimoni senza senso?
Un breve sguardo, per finire, alle situazioni «disperate». Che cosa si può fare quando, per esempio, sembra che al coniuge non resti più nessuna virtù? Che cosa fare se il marito è un alcolizzato o se la moglie ha un'infermità mentale? Anche in queste circostanze ho conosciuto persone, e non poche, che sono rimaste fedeli, senza dimenticare le promesse che, anni prima, avevano fatto per amore: «nella buona e nella cattiva sorte..., nella salute e nella malattia»; costoro, contemplando l'altra parte ridotta in un tale stato di infermità o di bassezza, sono stati all'altezza delle circostanze, raggiungendo livelli eroici di amore.
Non è vero che la Chiesa, negando il divorzio in questi casi, condanni il marito o la moglie a una vita infelice. Queste persone non saranno disgraziate — benché debbano indubbiamente soffrire — se sapranno portare la loro croce in stretta unione con Gesù Cristo.
In ogni caso bisogna precisare che se una persona pensa che ciò che deve affrontare sia troppo — se la moglie, per esempio, pensa di non essere capace di convivere con un marito che si ubriaca e la maltratta fisicamente — allora, come ultimo rimedio, viene concessa la separazione.
La Chiesa non nega il diritto alla separazione. Ciò che afferma è: puoi separarti da tuo marito o da tua moglie, ma il vincolo tra voi resta. Da un altro punto di vista, il Signore dice a questa persona: «Puoi separarti da tuo marito o da tua moglie, ma non ti separare da me. Forse pensi che non sia possibile essere felice col tuo coniuge, ma puoi essere felice con me; sii fedele a quello che io ti chiedo; cerca di amministrare bene il talento della fedeltà che ti ho donato: la tua ricompensa sarà grande».
Questa non è una condanna all'infelicità, ma una chiamata speciale alla santità. Alcuni corrispondono bene a questa chiamata; altri, invece, non sanno farlo. Allo stesso modo alcune persone — per esempio coloro ai quali viene inaspettatamente diagnosticato un cancro — accettano la propria infermità elevandosi a nuove altezze nell'amore di Dio, mentre altre sprofondano nell'amarezza. Allora si tocca con mano quel profondo mistero che è la libertà umana, e la capacità dell'uomo di rispondere in modi diversi alla grazia divina.
La tesi secondo la quale un matrimonio, quando comincia a essere faticoso, è diventato «senza senso» e bisogna porvi fine con il divorzio, contiene lo stesso atteggiamento disperato verso la vita con il quale si dichiarano «senza senso» le sofferenze di un paziente incurabile e si ricorre all'eutanasia per porvi fine. Tutti i matrimoni, come tutte le malattie, devono compiersi fino in fondo: sono tutti «terminali», ma nessuno è senza senso. Tutte le esperienze terrene, buone o brutte, giungono alla fine: una fine che, se ci siamo sobbarcati generosamente la croce, segna l'inizio dell'autentica felicità, del premio eterno.
NOTE
[1] Cfr Concilio di Trento, sess. 24, can. 5; Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, mi. 48-50.
[2] Collier's Encyclopedia, vol. 8, p. 281 (ed. 1968).
[3] National Center for Health Statistics, Washington, D.C.
[4] Cfr il terzo capitolo.
[5] Se un uomo e una donna vivessero sempre «felicemente» nel matrimonio, senza bisogno di alcuno sforzo autentico, probabilmente il loro matrimonio — per quanto «felice» (e sarebbe una felicità mediocre) — non avrebbe raggiunto uno dei suoi obiettivi, perché non li avrebbe maturati come persone.
[6] Anche amare Dio, che non ha difetti, è difficile, perché invece noi ne siamo pieni. È difficile uscire da sé stessi e donarsi, che è ciò che l'amore implica; è difficile anche se l'Altro è perfetto. Lo è ancora di più quando non è tale, cosa che accade nei rapporti tra esseri umani (matrimonio compreso).
[7] «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20, 35).
[8] Se «sentirsi» sempre innamorati facesse parte della natura umana, la legge dell'indissolubilità non avrebbe ragion d'essere; in questo senso si potrebbe precisare che questa legge serve proprio per chi non «sente» più l'amore.
[9] «Newsweek», 13 febbraio 1967.