Purtroppo passo gran parte del mio tempo a occuparmi di cause di nullità matrimoniale. In tali cause è frequente che si chieda la nullità adducendo come motivo il fatto che il consenso coniugale è stato viziato dalla esclusione di uno dei tre «bona», o beni tradizionali del matrimonio: il «bonum fidei» (fedeltà a un solo coniuge: singolarità dell'unione), il «bonum sacramenti» (permanenza del vincolo: indissolubilità dell'unione), o il «bonum prolis» (la prole: fecondità dell'unione).
Poiché ognuno di questi tre bona implica un obbligo, è logico che noi giudici ecclesiastici rivolgiamo la nostra attenzione a stabilire se la persona che ha contratto matrimonio abbia o meno accettato l'obbligo corrispondente. Non saprei dire, invece, fino a che punto altre persone facciano bene a considerare tali bona, principalmente o esclusivamente, in funzione della loro obbligatorietà. Se li considerano solo da questo punto di vista, tenendo conto che un obbligo si presenta normalmente come un peso — e tutti tendiamo a evitare i pesi — potrebbero giungere alla conclusione che l'esclusione dell'indissolubilità (o della fedeltà o della prole) non deve essere ritenuta strana o eccezionale, e che è, anzi, un fenomeno logico e normale.
Non mi riferisco a teorie. Per un buon numero di cristiani — e tra di loro ve ne sono molti che hanno la missione di formare e guidare gli altri — oggi non è sorprendente l'ipotesi che un individuo, nel dare il proprio consenso matrimoniale, escluda uno di questi bona: anzi sembra loro ragionevole e naturale.
L'esclusione non è naturale
L'esclusione è tuttavia sorprendente, proprio perché non è ne ragionevole ne naturale. Non è logico, infatti, rifiutare gli obblighi che necessariamente accompagnano l'acquisizione di una cosa buona. Se l'oggetto in causa è sufficientemente buono, tale bene compenserà abbondantemente gli oneri che ne conseguono.
L'acquisto di un'automobile, per esempio, comporta una spesa e l'assunzione di certe responsabilità; ma la maggior parte delle persone vede nell'automobile qualcosa di buono, e, malgrado i sacrifici che comporta, ritiene di aver tratto giovamento dall'acquisto; magari anche di due o tre di esse, se se le può permettere'.
Dobbiamo essere profondamente grati a sant'Agostino per la sua descrizione degli elementi essenziali del matrimonio come bona, ossia come «cose buone», come beni. E anche a Giovanni Paolo II quando, nell'esortazione apostolica Familiaris consortio, parla dell'indissolubilità come di una realtà gioiosa che noi cristiani dobbiamo proclamare al mondo; egli infatti sottolinea che «è necessario ribadire il lieto annuncio della definitività di quell'amore coniugale»2.
La fedeltà, la prole e l'indissolubilità sono cose buone! L'affermazione del vescovo di Ippona e quella del Romano Pontefice ci inducono a riflettere, a seguire una linea di pensiero che può farci scoprire o riscoprire un punto fondamentale per il futuro del matrimonio e della famiglia, e che, tuttavia, è stato lasciato in ombra, pur essendo elementare ed evidente: il fatto che ognuno dei bona matrimonialia è proprio un quid bonum, qualcosa di buono. Ognuno di essi è «un bene» perché contribuisce in ampia misura non solo al bene della società, ma anche al «bonum coniugum», al «bene» dei coniugi, al loro perfezionamento e alla loro maturazione come persone che hanno imparato ad amare (e certamente questo è il bene definitivo che ognuno di noi deve acquisire e sviluppare su questa terra: la capacità di amare).
E naturale desiderare un vincolo esclusivo & permanente
Solo se si recupera questo modo di pensare si comprende che i bona matrimonialia sono desiderabili e che è naturale desiderarli, perché ciò corrisponde alla natura dell'amore umano. L'uomo trova qualcosa di profondamente buono nell'idea di un amore: a) del quale egli è oggetto singolare e privilegiato; b) che può possedere per tutta la vita, e c) per mezzo del quale, facendosi co-creatore, può perpetuare sé stesso (e, come vedremo, qualcosa di più che sé stesso).
Proprio a motivo della bontà che riconosce in loro, per l'uomo non è naturale il temere o l'escludere tali beni, ma il cercarli e l'aderirvi.
E naturale desiderare un'unione matrimoniale esclusiva, permanente e feconda, ed è dunque anti-naturale escludere uno qualunque di questi tre elementi. Dobbiamo recuperare questa verità, e farla talmente nostra da saperla manifestare agli altri.
Che la fedeltà sia qualcosa di buono è ovvio. «Tu sei unico per me»: è la prima affermazione veramente personalizzata dell'amore coniugale ed è un'eco delle parole rivolte da Dio a ogni uomo che leggiamo nel profeta Isaia: «Meus es tu», «Sei mio» (Is 43, 1).
Anche il bene dell'indissolubilità risulta chiaro: possedere un focolare e un rifugio stabili, sapere che il mutuo appartenersi deve durare tutta la vita. La persona umana è stata creata per questo; sa che ciò esigerà sacrificio e sente che tale sacrificio merita di esser fatto. «E proprio del cuore umano accettare esigenze, perfino difficili, in nome dell'amore per un ideale e soprattutto in nome dell'amore verso la persona»3. Qualcosa, pertanto, non funziona nel cuore e nella mente di chi respinge l'indissolubilità della relazione coniugale.
A ogni modo non mi dilungherei oltre su questi due aspetti, dal momento che desidero centrare l'attenzione sul bonum prolis, il «bene» costituito dalla prole.
Privarsi di un bene
La mentalità contraccettiva — dolorosamente posta in evidenza, a scopo terapeutico, dalla Humanae vitae — è una malattia che può rivelarsi fatale per la società occidentale. La discussione sulle tecniche della pianificazione familiare non è il cuore del problema e, in realtà, non è che un aspetto del quadro patologico. La vera malattia consiste nel fatto che gran parte della civiltà occidentale concepisce la pianificazione familiare (in senso riduttivo) come qualcosa di buono, e sembra incapace di capire che è, invece, la privazione di qualcosa di buono.
Non mi riferisco qui, evidentemente, a quelle coppie che per motivi economici o di salute hanno reale necessità dell'aiuto che offre la pianificazione familiare naturale (e vi ricorrono tuttavia con riluttanza), ma a quelle — e sono un gran numero — che, pur potendo benissimo avere una famiglia più numerosa, decidono liberamente di limitarla, senza rendersi conto, a quanto pare, della bontà di ciò di cui si stanno privando. Preferiscono possedere meno bona matrimonialia — concretamente il bene della prole — per poter disporre di bona materialia in maggior quantità. E la qualità della loro vita — sempre più materialista e meno umana — è conseguenza inevitabile della loro decisione. I beni materiali, da soli, non sono in grado di mantenere in vita un matrimonio, mentre lo sono i beni matrimoniali, soprattutto il bonum prolis.
C'è qualcosa di profondamente buono in questo aspetto specifico dell'unione sessuale-coniugale, nel quale risiede la sua vera singolarità, non tanto per il piacere che la suole accompagnare, quanto per il potere che sta a significare: il potere, frutto della complementarità sessuale, di dare origine a una nuova vita. L'uomo e la donna nutrono un profondo desiderio di questa unione veramente coniugale e veramente sessuale, desiderio che è fortemente radicato nella natura umana. E particolarmente importante sottolineare oggi, in tutta la sua pienezza, 1''indole personalistica di questa tendenza naturale, che va ben oltre l'auto-affermazione e l'autoperpetuazione.
Auto-affermazione? Auto-perpetuazione?
Il rapporto sessuale contraccettivo può tendere solo all'auto-affermazione, a una mera manifestazione dell'io, nella quale ognuno cerca in sé stesso e non riesce — e forse neppure cerca di farlo — ne a conoscere l'altro ne a darglisi veramente. L'autentico rapporto sessuale-matrimoniale, aperto alla vita, è per sua stessa natura un'affermazione dell'amore: conferma il vicendevole amore e la mutua donazione coniugale, sottolineando proprio la singolarità e la grandezza della partecipazione degli sposi alla potenzialità sessuale.
Il desiderio della perpetuazione è qualcosa di naturale, che ha di per sé un profondo valore personalistico. (Se l'uomo moderno stenta a capirlo, dobbiamo vedere in ciò un segno di quanto sia umanamente devitalizzato, snaturato e spersonalizzato). A ogni modo la coniugalità conduce l'istinto procreativo sessuale al di là del desiderio naturale di perpetuare sé stessi. Nel contesto dell'amore coniugale il desiderio di auto-perpetuazione acquista un vigore e un senso nuovi. Non si tratta più di due «io» slegati, che cercano — forse in maniera egoistica — l'autoperpetuazione, ma, piuttosto, di due innamorati che, in maniera naturale, desiderano perpetuare il vicendevole amore e sperimentare la gioia di vederlo incarnarsi in una nuova vita, frutto della mutua conoscenza spirituale e carnale, attraverso la quale gli sposi esprimono il loro amore (cfr Gn 4,1).
I veri innamorati desiderano agire in sintonia: progettare, acquistare, arredare qualcosa insieme, che sarà in modo speciale loro, perché frutto della loro decisione e azione congiunta. Per due sposi non c'è niente di più proprio dei figli da loro generati. Lo scultore cerca di scolpire nella pietra la propria ispirazione. Gli unici che possono creare opere d'arte vive sono i genitori, e ogni figlio è un monumento singolare all'amore creativo che ha ispirato e unito i genitori.
Attraverso i monumenti che costruisce, la società evoca i grandi avvenimenti del passato, per mantenere viva nel futuro la loro memoria. Anche l'amore coniugale ha bisogno di tali monumenti. Quando il primo impulso romantico sembra spegnersi, e gli sposi sono tentati di pensare che l'amore coniugale sia morto con esso, ogni figlio diventa testimonianza vivente della loro profonda, singolare e totale donazione reciproca nel passato — quando era più facile amarsi — ed è come un appello urgente a continuare a donarsi, anche qualora risulti difficile.
Assenze programmate
Nel mio lavoro alla Rota Romana non di rado mi imbatto in domande di nullità riguardanti matrimoni — evidentemente validi — di persone che si sono sposate per amore, ma la cui unione è fallita perché con mutuo e deliberato consenso hanno deciso di ritardare 1 ' arrivo dei figli, privando in questo modo l'amore coniugale del sostegno naturale di cui ha bisogno.
All'inizio del matrimonio gli sposi possono pensare che la felicità consista in un contemplarsi l'un l'altro. Se persistono in tale atteggiamento, i difetti che ognuno scopre via via nell'altro rischiano di diventare, a lungo andare, intollerabili. Se la loro situazione li porta, invece, a guardare insieme i figli, ogni coniuge continuerà indubbiamente a scoprire i difetti dell'altro, ma avrà meno tempo e meno ragioni per ritenerli insopportabili. Tuttavia, come è ovvio, non si può contemplare ciò che non c'è.
Una serie di assenze programmate sta trasformando la vita coniugale di molte coppie in una realtà vuota e vana, che finisce per sgretolarsi. L'amore che aspira a nutrirsi soltanto della contemplazione dell'altro può condurre alla sazietà. L'amore coniugale, per crescere, deve poter contemplare ed essere contemplato da altri occhi, frutto dello stesso amore4.
L'amore coniugale ha pertanto bisogno del sostegno costituito dai figli5, i quali rafforzano la bontà del vincolo matrimoniale, perché non ceda di fronte alle tensioni che sorgono in seguito all'inevitabile attenuazione o scomparsa dell'amore iniziale, più sentimentale, romantico e spontaneo. Allora il vincolo matrimoniale — che Dio non vuole venga sciolto — non poggia solo sui possibili alti e bassi dell'amore e del sentimento tra gli sposi, ma — soprattutto e sempre più — sui loro figli: ogni figlio è così un legame in più che lo rinforza. Nell'omelia pronunciata a Washington, nell'ottobre 1979, Giovanni Paolo II ricordava alle coppie che «è minor male negare ai propri figli certe comodità e vantaggi materiali che privarli della presenza di fratelli e sorelle che potrebbero aiutarli a sviluppare la loro umanità e realizzare la bellezza della vita in ogni sua fase e in tutta la sua varietà»6. Io suggerirei alle coppie che propendono, senza sufficienti ragioni, per la limitazione della famiglia, di leggere tale monito del Papa alla luce della dottrina del Concilio Vaticano II. Essa ricorda che «i figli sono il dono più eccellente del matrimonio e contribuiscono enormemente al bene degli stessi genitori»7. In tali casi i coniugi priverebbero pertanto di un bene singolare — di una esperienza irripetibile — non solo i figli che hanno già, ma sé stessi.
Educazione & valori
Si sente a volte osservare che viene adottata la pianificazione — la limitazione — familiare nella misura in cui migliora il livello di educazione della coppia. Accettare acriticamente tale affermazione significa dare per scontata una determinata filosofia della vita. Senza un modello ben determinato di educazione, profondamente imbevuto di certi peculiari valori — o, meglio, disvalori — non si ottiene che la gente adotti facilmente la limitazione familiare. Ma è possibile qualificarla come autentica educazione? È il caso di ricordare le parole pronunciate circa centoquarant'anni fa dal cardinale Newman sull'educazione contemporanea: egli diceva che l'uomo moderno è istruito ma non educato; gli si insegna «a fare», e a pensare quanto basta per «fare»; ma non gli si insegna a pensare di più8.
L'argomento in esame si riduce in definitiva a una questione di valori e alternative, di beni e di opzioni. Nessuno può impadronirsi di tutti i beni di questo mondo. Possiamo scegliere l'uno o l'altro bene, ma spesso non tutti e due contemporaneamente. Chi sceglie saggiamente e nel modo più umano si rivolge al bene migliore, e sa che così facendo si è arricchito. È questa la scelta che denota un certo livello di educazione, mentre quella meno umana e meno valida si accontenta del bene inferiore e probabilmente non sa che si risolve in un inganno e in un impoverimento. Leggiamo nella Bibbia parole vigorose, che giungono a proposito: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30, 19). Non c'è una scelta intermedia tra la vita e la morte. C'è da chiedersi, dunque, quale sia il punto di arrivo cui conducono le opzioni verso cui propende l'Occidente.
Un mio conoscente africano, venendo a sapere che l'indice di fertilità occidentale è approssimativamente di 1,2, ha osservato: «Le coppie occidentali devono essere molto povere se non possono permettersi più di due figli».
Non era un «esperto» nel senso occidentale del termine; le sue parole sono tuttavia interessanti. Può completarle un altro granello di sapienza «inesperta», proveniente dallo stesso Occidente. Qualche tempo fa in Inghilterra ho conosciuto una coppia, due coniugi normali che desideravano avere figli. Nacque il primo, ma poi ci fu un intervallo indesiderato di tre o quattro anni. Alla fine la madre si trovò nuovamente in stato interessante. Il primogenito era pieno di aspettative; sopravvenne però un aborto spontaneo. Il padre dovette dire al bambino che il fratellino tanto desiderato non sarebbe più arrivato: «Vedi, malgrado l'attesa, la mamma non avrà più questo bambino» e, piegandosi agli imperscrutabili disegni di Dio, aggiunse: «E meglio così». Il bambino tuttavia non era disposto a rassegnarsi tanto facilmente: «Ma papa, c'è qualcosa di meglio di un bimbo...?»9. Nessun programma computerizzato sarà mai capace di prevedere le uscite e le verità dei bambini: quelle verità che sono anch'esse parte del bonum prolis.
Ordine di valori
II bambino del nostro episodio possedeva un ordine di valori appropriato, ordine che, secondo la Humanae vitae, è il primo che gli sposi debbono possedere se vogliono impostare correttamente la pianificazione familiare' . Non danno prova di tale senso dei valori i coniugi che non sono capaci di comprendere che un bambino è il miglior acquisto possibile, quello che più li arricchisce. Molti sposi occidentali sembrano non capire la semplice verità che i figli sono il frutto più personalizzato dell'amore coniugale, il dono più grande che possano scambiarsi: al tempo stesso un dono divino, elargito a entrambi da Dio.
«Ma se avessimo un nuovo figlio noi e i nostri figli vivremmo in condizioni peggiori...». Non si dirà certo che il nuovo figlio starà peggio, a meno che non ci si voglia annoverare tra quanti dubitano che la vita stessa sia un bene, o che, in ultima analisi, la non esistenza possa essere preferita all'esistenza.
«Ma gli altri figli — quelli che già abbiamo — staranno peggio». Davvero staranno peggio? Il Papa suggerisce che, in termini di autentici valori umani, non sarà così.
«Ma noi sì che staremo peggio. La vita ci risulterà più difficile». Sarà indubbiamente necessario uno sforzo maggiore (molta gente lavora duramente, oggi, per possedere più beni materiali); ma questi sforzi renderanno forse meno felici?
Ogni qual volta la questione è stata sollevata nell'ambito dei corsi specialistici che ho avuto occasione d'impartire, ho proposto ai miei studenti di svolgere una piccola analisi comparativa. Qualcosa del genere:
Bambini Auto Tv/Vcr Educaz. dei figli Vacanze all'estero
Fam. A: 2 2 2/2 Scuole di ottimo livello Sì
Fam. B: 5 1 1/0 Scuole di medio livello Mai
Dopo aver presentato questo schema agli studenti la prima domanda che propongo loro è: «Quale delle due famiglie possiede un livello di vita più alto?». Rispondono tutti: «La famiglia A, ovviamente». Ripeto la domanda: «Quale delle due famiglie possiede un livello di vita più alto?». Si produce in genere un lieve sconcerto, ma continuano a dare la stessa risposta. Ripeto la domanda per la terza e per la quarta volta. Alla fine nasce qualche perplessità: qualcuno viene assalito dal dubbio, fino a che «concede»: «Beh... Se si volessero considerare i figli come parte del livello di vita...».
«Se si volesse...». Sarebbe ora che cominciassimo ad annoverare i figli all'aprivo e non al passivo dell'esistenza! Qualcuno aggiungerà che occorre includerli in tutt'e due le partite. D'accordo, come si fa con l'autovettura. Un'automobile è un vantaggio e un peso; l'acquisto e la manutenzione costano danaro, richiedono fatica e attenzione: proprio come un figlio. Per decidere quale dei due si debba scegliere si dovrebbe considerare quale valga di più, giacché una scelta diversa implicherebbe un abbassamento del livello di vita".
Chiedersi quale dei due darà maggior soddisfazione è certo espressione di utilitarismo piuttosto che di idealismo. Tuttavia, se anche si volesse analizzare in tale prospettiva il nostro tema, bisognerebbe mettere in conto il danaro, il tempo e la fatica che tanta gente investe per il tennis o per i computer o per interessi o hobby cosiddetti creativi. In vista di una soddisfazione che tali attività non sempre procurano, si spende e si legge tutto ciò che il mercato offre.
Come è possibile che non si desideri investire anche nella paternità? Com'è possibile non leggere libri (ce ne sono in abbondanza) sulla gioia che proviene dalla dedizione ai propri figli, sulla soddisfazione di essere genitore? E com'è possibile non sentire l'attrazione per una creatività tutta singolare (ci si allargano gli orizzonti), per l'avventura di essere co-creatori?
Nel profondo del cuore molti sposi sentono indubbiamente che un figlio è un dono buono e grande, ma sono talmente condizionati che non hanno fiducia in tale verità; hanno bisogno che qualcuno insegni loro a vivere con recuperata fiducia. E mi sembra ovvio che solo gli sposi che hanno scelto il bonum prolis — nella pienezza con la quale Dio ha voluto benedire il loro matrimonio — saranno capaci di insegnarlo loro. Non bisogna dimenticare che Paolo VI, nella Humanae vitae, indicando le diverse modalità della paternità responsabile, ha voluto mettere in chiaro che la vivono in primo luogo le coppie che prendono «la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa»12.
Tante coppie al giorno d'oggi soffrono di un'auto-privazione, di un impoverimento volontario, in conseguenza del rifiuto del dono della vita e della non accettazione della fecondità dell'amore. Non sarebbe strano che la moderna e agiata società occidentale passasse alla storia come «la società depauperata», dove i cittadini — popoli interi — si sono ammalati mortalmente, in un processo che sta svuotando la loro vita del significato degli autentici valori umani.
La perdita della sessualità
II concetto di auto-privazione merita un ulteriore commento. Ci sono tempi e situazioni nei quali si può consigliare o imporre una privazione: per esempio quando motivi di salute esigono che una persona si astenga dai cibi solidi. Ma anche in tali casi dovrà trattarsi di una misura temporanea, in modo che il paziente possa poi tornare a nutrirsi come richiede un appetito normale e sano. L'appetito sessuale occidentale non è dunque normale, non è sano e non è neppure — come ho cercato di dimostrare nel capitolo scorso — realmente sessuale.
La Chiesa insegna che l'aspetto unitivo e l'aspetto procreativo dell'atto coniugale sono inseparabili. I propugnatori della contraccezione, invece, sostengono che è perfettamente lecito separarli. Ma non è questo il contenuto reale della loro proposta. L'effetto reale della contraccezione non è di separare questi due aspetti (annullando — direbbero — l'aspetto procreativo, ma rispettando quello unitivo), bensì di distruggerli entrambi. Che l'atto sessuale contraccettivo non sia procreativo è evidente per tutti. Che non sia unitivo, in un senso propriamente coniugale, per qualcuno non è altrettanto evidente. E tuttavia un'analisi più profonda ci assicura che non è assolutamente attività sessuale, in un senso veramente umano.
La contraccezione non separa il sesso da un qualche elemento che gli sia estraneo, ne tanto meno da qualche altro elemento collegato al sesso per uno sfortunato caso della biologia. A essere separati sono l'attività del sesso — l'azione apparente del sesso — dal suo significato. La realtà del sesso viene del tutto accantonata: ciò che rimane ne è una mera caricatura.
Si sta così separando il «corpo» del sesso dall''«anima» del sesso, e ciò che rimane è un cadavere: sesso mummificato, sesso morto. Tanti contemporanei, senza rendersene conto, sono pienamente votati all'uccisione del sesso e della sessualità umana.
A molte coppie moderne manca un appetito sessuale autentico. La sessualità che le caratterizza non è veramente umana. Una mascolinità e una femminilità menomate convergono in un incontro che non è autenticamente coniugale. Tali matrimoni, privi delle essenziali qualità umanizzanti e personalizzanti proprie della vera sessualità coniugale — privi del vero bonum sexualitatis — sono minacciati di morte per atrofia coniugale-sessuale. Una volontaria sterilità nega al loro amore il frutto che dovrebbe per sua natura produrre e di cui ha bisogno per la propria conservazione e sopravvivenza.
NOTE
[1] Conosco una famiglia africana che ha diciotto figli e nessuna automobile, e una famiglia americana (se si può chiamarla «famiglia»), con diciotto automobili e nessun figlio. La famiglia africana, posso assicurarlo, è molto più felice: circa diciotto volte di più.
[2] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, n. 20.
[3] Giovanni Paolo II, Udienza generale, 28 aprile 1982.
[4] L'amore tra coniugi naturalmente infecondi — tali perché Dio non ha dato loro dei figli — deve anch'esso crescere; per farlo ha in egual misura bisogno della dedizione agli altri.
[5] Uno o due figli o, a volte, cinque o sei. Solo Dio conosce l'entità del sostegno di cui ha bisogno ogni coppia. Da qui deriva l'assoluta necessità che gli sposi mettano a fuoco la questione con profondo spirito d'orazione, se vogliono risolverla prudentemente e felicemente.
[6] Giovanni Paolo il. Omelia, 7 ottobre 1979.
[7] Cost. Gaudium et spes, n. 50.
[8] John Henry Newman, On the Scope and Nature of University Education, Discourse IV.
[9] C'era una volta un Bambino nato a Betlemme, e niente era o è meglio di quel Bambino, che divide la sua ricchezza con ogni bambino nato. E avrebbe voluto dividerla con molti che non sono nati e non nasceranno mai.
[10] Cfr Enc. Humanae vitae, n. 21.
[11] Altro commento di un africano. Un keniota mi esprimeva il suo sconcerto di fronte agli argomenti addotti dalla International Planned Parenthood Federation: «Tradizionalmente, se la vacca della famiglia vicina partoriva un vitello, si porgevano le congratulazioni alla famiglia perché il suo livello di vita era migliorato. Adesso, se la moglie da alla luce un bambino, a quanto pare occorre porgere agli sposi le condoglianze perché il loro livello di vita si è abbassato... È una logica che non riesco a capire».
[12] Cfr Enc. Humanae vitae, n. 10.