09. GENITORI, FIGLI & REGOLE DI VITA

            Mi trovavo a Washington, anni fa. Una giovane episcopaliana da poco convertitasi al cattolicesimo, nel raccontarmi la sua esperienza, mi disse, in un misto di gioia e sollievo: «Lei, padre, non può immaginare il male a cui si va incontro quando non si sanno le regole della vita. Ma ora sì che le so».

            Queste parole mi tornano spesso alla memoria quando osservo tanta gente in questo nostro mondo, e specialmente tanti giovani, che sembra non conoscano affatto le regole della vita. Suppongo che in fondo queste persone, per quanto cerchino di dissimularlo, se la passino piuttosto male. E non pare proprio che abbiano grandi probabilità di dare un senso alla loro vita, che manca di fede, di ideali, di purezza, di amore, di criterio: non sanno distinguere il bene dal male.

            È uno scenario che spaventa molti padri di famiglia: certo tutti coloro che amano davvero i propri figli. La loro preoccupazione è comprensibile. Ed è comprensibile che, pensando ai propri figli (forse ancora molto giovani), i genitori si chiedano: come potremo evitare che sia così anche per loro?

            Come evitarlo? Formandoli! Formando le loro coscienze, perché acquistino criterio, perché imparino le regole, perché imparino a distinguere il bene dal male; e formando le loro volontà, perché sappiano lottare.

LA COSCIENZA DEI BAMBINI

            Un bimbo di quattro o cinque anni è già capace di rendersi conto che alcune cose sono giuste o sbagliate. Gli è facile, per esempio, rendersi conto che è male fare qualcosa che può dispiacere alle persone che egli conosce come buone. Se i suoi genitori sono buoni, saprà di fare male facendo qualcosa che non piace a loro. Questa è già una prima base essenziale per la sua vita morale.

            Il passo successivo è molto facile. Ed è molto importante che il bambino lo compia, perché si tratta di elevare questa base morale — questa coscienza incipiente — a un livello soprannaturale, a una rapporto cosciente con Dio. Stiamo considerando il caso di un bambino i cui genitori siano buoni (ovvero stiano lottando per esserlo, che è l'unico modo di «essere buoni» esistente in questa vita). Se i genitori gli insegnano che Dio è buono — e se il bambino si rende conto attraverso molti dettagli che essi realmente lo credono —, egli saprà di fare male facendo qualcosa che questo Dio buono non vuole, e saprà anche che deve lottare, come i suoi genitori, per comportarsi bene, per fare ciò che vuole questo Dio buono, proprio perché è buono.

            Non si potrà mai esagerare l'importanza del fatto che il bambino si renda conto di questo concetto iniziale di ciò che è bene e ciò che è male, che assimili l'idea che un'azione è buona perché piace a un Dio buono, o che è cattiva perché dispiace a questo Dio buono. E che qui risieda l'unica base per una formazione sana e retta della coscienza morale risulta subito evidente quando si pensa all'alternativa che troppo spesso viene imposta: devi fare ciò che i tuoi genitori ti dicono, altrimenti sarai castigato; oppure: bisogna fare ciò che Dio comanda, altrimenti ci castigherà.

L'amore o la paura?

            Il contrasto tra queste due concezioni è totale, così come sono in antitesi i tipi di coscienza e di vita morale che ne derivano. Da una parte si prospetta una vita morale basata sull'amore, cioè una genuina vita cristiana come ci propone ogni pagina del Vangelo. L'altra conduce a una vita morale fondata sulla paura, che non può essere una vita autenticamente cristiana perché non è la vita, piena di fiducia, propria di chi si sente figlio di Dio.

            È facile constatare che questo secondo atteggiamento morale — davvero carente — sembra prevalere in molte anime. Pertanto è opportuno rintracciarne l'origine. E anzitutto i genitori sono tenuti ad avvertire quanto sia delicata e quale responsabilità comporti la missione di formare le coscienze dei propri figli; come tale missione dipenda in primo luogo da quanto loro stessi sono buoni e si sforzano per esserlo; dalla fiducia che ripongono in Dio e che trasmettono ai figli; dall'ambiente d'amore, e non di repressione e castigo, che predomina nel focolare domestico.

            Questo non vuoi dire che i bambini non si possono o non si devono castigare. A volte il castigo è necessario, ma va imposto sempre in seguito a una scelta ponderata, e mai in un attacco d'ira; deve essere proporzionato alla colpa, e, se è possibile (pensandoci sarà sempre possibile), dev'essere un castigo formativo piuttosto che punitivo, ovvero non imposto in primo luogo per punire il «delinquente», ma per aiutarlo a comprendere in che cosa consisteva lo sbaglio commesso.

Il bambino & il peccato

            Quando e come conviene formare nel bambino il senso del peccato? Abbiamo già dato una risposta parziale a questa domanda; ma, prima di approfondire l'argomento, mi si consenta qualche considerazione preliminare.

            È abbastanza strano che oggi, mentre si parla più che mai di coscienza, si parli sempre meno del peccato. Una maggiore sensibilità verso la voce della coscienza dovrebbe, a rigor di logica, comportare una maggiore sensibilità verso il peccato, cioè verso i casi in cui disobbediamo a quella voce. Il fatto che ciò non succeda dimostra la superficialità con cui viene trattato oggi il tema della coscienza.

            Oggi si parla sempre meno del peccato personale. E, circa l'argomento che stiamo trattando, questa tendenza tocca il vertice quando l'argomento è «il bambino e il peccato»; attenzione — ammoniscono in molti —, attenzione a parlare ai bambini del peccato, a inculcare un'idea del genere, che danneggerebbe il loro sviluppo psicologico.

            Quel che può davvero causare danni irreparabili, in questo campo, è l'ignoranza. Quando un bambino raggiunge l'età per comprendere che qualcosa può offendere Dio, è dannoso lasciarlo nell'ignoranza che «quello» sia peccato, perché così correrà il rischio che vada mettendo radici in lui; radici che saranno sempre più difficili da estirpare col passare del tempo.

            Alcuni, mostrandosi riluttanti a parlare del peccato ai figli piccoli, danno l'impressione di essere stati essi stessi vittime di un'educazione che vedeva il peccato in funzione del castigo, e in cui il rapporto dell'anima con Dio era ispirato al timore. Se ciò è vero, è meglio che non siano loro a trattare questo tema con i figli (e che lo facciano altri, più preparati), perché ne deformerebbero le coscienze, inculcando in essi la paura come principio dominante. E una coscienza così deformata è indubbiamente dannosa.

            Ma abbiamo già chiarito prima che non è così che si insegna al bambino a comprendere il peccato. In primo luogo il peccato non va inteso come qualcosa meritevole di castigo (visione egocentrica), ma come una mancanza di amore (visione cristiana). Bisogna insegnare ai bambini che il peccato è un'offesa a Qualcuno che è Buono; un «disamore» verso Qualcuno che ci ama, e ciò deve dolerci; ma possiamo porvi rimedio — molto facilmente —, perché l'Amore è sempre pronto a perdonare.

            Questa catechesi sul peccato è sempre formativa. Quindi conviene iniziarla quanto prima.

Il peccato & ciò che «non va bene»

            E ovvio che non tutto ciò che «non va bene» è peccato. Ci sono alcune, poche cose che «non vanno bene», ma che non sono moralmente definibili come peccati.

            Tali sono, per esempio, le mancanze di educazione, che sono mancanze sociali, ma che, in genere, non sono immorali (certo, potrebbero diventarlo se il loro mancato adempimento comportasse un'offesa alla carità). Certo, le mancanze alle convenzioni vanno corrette, dato che potrebbero rendere difficili i rapporti con gli altri. Ma tali mancanze non sono peccati, e classificarle come tali davanti al bambino servirebbe solo a confondere la retta formazione della sua coscienza.

            Per evitare possibili confusioni e deformazioni nei propri figli i genitori devono mantenere un controllo rigoroso sulle proprie reazioni. Quando vogliono correggere o castigare un figlio per qualcosa che «non va bene» è prudente che prendano tempo per domandarsi: «Ma, davanti a Dio, è davvero male?».

            Molte volte, senza dubbio, risponderanno di sì, perché Dio non vuole che i bambini dicano bugie, o che siano capricciosi, o che dimentichino il rispetto per gli altri (compreso il legittimo — ancorché sacrificato — bisogno di riposo dei genitori).

            Però, a pensarci bene, altre volte risponderanno di no, vedendo che in fondo quel che Dio non vuole è che i genitori si lascino dominare dai nervi; non vuole che siano pigri e tirannici, dettando in casa le condizioni che più convengono a loro. Una delle tentazioni tipiche dei genitori è quella di vedere nei figli colpe che altro non sono se non naturali reazioni dei piccoli alle colpe dei genitori stessi. I genitori devono sapere bene che se qualcosa non è male davanti a Dio — quantunque «non vada bene» secondo il gusto o la comodità dei genitori —non è male, quindi non merita alcun castigo e tanto meno la qualifica di peccato.

Il peccato come egoismo

            C'è un altro concetto, facilmente accessibile ai bambini, che può aiutarli molto a formarsi una idea esatta del peccato: è male essere egoisti.

            I bambini sanno già, dentro di sé, riconoscere l'egoismo, e si rendono conto che un comportamento egoista è degno di disprezzo. Occorre approfittare di questa loro comprensione quasi istintiva di quanto sia disprezzabile l'egoismo per aiutarli a capire la malvagità del peccato.

            Anzitutto il peccato è un'offesa a Dio, e qualunque definizione o spiegazione che ne tralasciasse questa essenza teologica e lo presentasse semplicemente come un errore umano sarebbe deformante. Perciò, quando si insegna al bambino che il peccato è un'offesa a Dio, a un Dio buono, bisogna dirgli che è un'offesa proprio perché è una espressione di egoismo. Ed Egli non vuole che siamo egoisti perché, nella misura in cui lo siamo, rendiamo difficile la nostra salvezza e impossibile qualsiasi vera felicità, anche in questa vita. Questa è la sua volontà, e qui sta il senso dei Comandamenti: che lottiamo contro le tendenze egoistiche e che impariamo ad amare.

            Bisogna insegnare ai bambini che ci sono molti modi di offendere Dio facendo il proprio comodo, e molte forme di egoismo: l'egoismo della superbia (radice di tutti i peccati e presente in tutti), della menzogna, dell'avidità, della gola, dell'ira, del rancore, dell'invidia, della comodità, della sensualità. In breve, l'egoismo di tutti i peccati capitali.

Il bambino & il peccato mortale

            Qualsiasi forma di egoismo è, in fondo, un peccato, sia pure veniale. Vuoi dire cercare sé stessi e, di conseguenza, voltare le spalle a Dio, anche solo in parte. Dato che sappiamo per esperienza che i bambini possono essere egoisti, non dovremmo avere difficoltà ad ammettere che sono capaci di commettere peccati veniali, piccole manifestazioni di egoismo.

            Ma sono capaci di commettere peccati mortali? Può un bambino di dieci anni, per esempio, commettere un peccato mortale? Ritengo di sì. E credo che questa conclusione si imponga. Basta chiedersi: i bambini, che sono capaci di piccoli egoismi, sono capaci di egoismi grandi? Penso di sì; credo che un bambino di dieci anni sia in grado di essere molto egoista, di chiudersi in sé stesso, voltando completamente le spalle a Dio e agli altri. E questo è già peccato mortale.

            So bene che questa mia affermazione non mancherà di stupire, e che molti la troveranno inaccettabile. Ma se non accettano che un bambino di dieci anni possa commettere un peccato mortale, almeno ci dicano quando gli si potrà attribuire questa capacità: a quattordici anni invece che a tredici? A tredici anni anziché a dodici?

            Analizziamo più a fondo questo punto. Il peccato mortale fa sì che ci concentriamo totalmente su noi stessi, e dunque tronca necessariamente la nostra amicizia con Dio. Di questo, secondo me, un bambino di dieci anni è già capace. Si pensi, per esempio, a un bambino che in Confessione si accusi di questi peccati: «Ho sottratto qualcosa a mio fratello, apposta per farlo adirare», oppure «Ho odiato un compagno e non l'ho voluto perdonare», «Ho dato fastidio, di proposito, al nonno», «Sono stato sgarbato con mio padre per tutta la settimana».

            Non dico che questi siano necessariamente peccati gravi. Ma non mi sembra impossibile, e neanche difficile, che arrivino a esserlo. Non è difficile che un peccato del genere interrompa l'amicizia con Dio, in quanto facilmente implica un atteggiamento gravemente egocentrico che pone sé stessi al centro della propria vita, e la ricerca della propria soddisfazione anche a costo di fare soffrire altri; un atteggiamento orgoglioso può indurre a respingere la lealtà e la dipendenza verso Dio e verso gli altri.

Peccato, egoismo & inferno

            Mi si dirà: ma se un bambino, che ha commesso un peccato grave, morisse improvvisamente, andrebbe all'inferno? Tutti ci poniamo quest'interrogativo davanti all'idea del peccato mortale; e se ci costa accettare che un bambino possa commetterne, forse è perché ci costa accettare che noi stessi possiamo commetterne e meritare l'inferno.

            Per chiarire questa osservazione bisogna ricordare, in primo luogo, che Dio ci ama, che vuole che tutti si salvino (cfr 1 Tm 2, 4), che vuole portarci in Paradiso. Bisogna pertanto respingere l'idea che una persona che lotta per vivere bene finisca all'inferno per una sola mancanza che non riesce a confessare prima di morire. Dio, se può, non chiama a sé una persona in un momento cattivo: vuole che per tutti il momento sia buono. Ma qui entra in gioco la nostra libertà. Siamo capaci di accorciare i momenti buoni e di estendere quelli cattivi, al punto da ridurre sensibilmente la possibilità che la morte ci colga in un momento buono.

            Approfondendo un poco, occorre dire che il peccato mortale fa effettivamente meritare l'inferno, ma, in pratica, ciò che porta all'inferno è il peccato mortale del quale non ci si pente.

            Se una persona, nonostante abbia commesso molti peccati mortali, si pente, si salverà. E, restando in tema di coscienza, è proprio la nostra coscienza — ben formata e ascoltata — l'alleato più vicino e più intimo perché ci pentiamo se commettiamo un peccato mortale.

            Dio vuole chiamarci in un buon momento, e ci ha fatto in modo che, se lo offendiamo gravemente cedendo gravemente all'egoismo, è difficile che non ce ne rendiamo conto, perché la nostra coscienza protesta; e in fondo siamo tristi e non troviamo pace finché, come il figlio! prodigo, ci pentiamo e ci mettiamo in cammino verso nostro Padre Dio. E quindi normale che reagiamo collaborando con la grazia che ci arriva attraverso la coscienza, e che facciamo un atto di contrizione. Sarebbe tutto assai più semplice se non si fossero alcuni pericoli. C'è il rischio che la nostra coscienza non sia fine e ben formata, o che ci siamo abituati a non esaminarla, o a non obbedirle (e quando non si obbedisce alla coscienza c'è pericolo che diventi più dura e insensibile); in questi casi, anche se commettiamo peccati gravi, il nostro pentimento va facendosi meno frequente, il nostro egoismo più profondo e più continuo, l'amicizia con Dio si raffredda, e si consolida il rifiuto del suo perdono.

            Tutto ciò può succedere quando la coscienza non funziona bene; quando un uomo comincia a reputare di poco conto peccati che invece sono gravi, quando non fa caso alle proteste della sua coscienza, quando non le obbedisce, quando non si pente; così, a poco a poco, va cadendo in un egocentrismo e in una autosufficienza totali: si rende incapace di amare e quindi di raggiungere il Cielo, dove può entrare solo chi sa amare.

Rettificazione continua

            Difficilmente un solo atto di grave egoismo porta all'inferno. È lo stato di grave egoismo — l'egocentrismo ostinato e totale, col rifiuto definitivo della misericordia e dell'amicizia di Dio — che porta all'inferno. Un solo peccato mortale basta già a troncare l'amicizia con Dio. Ma se ciò succede ecco la coscienza, che esiste appunto per questo, con la funzione di protestare, di biasimare la nostra condotta affinchè ci correggiamo.

            Colui che sa correggersi prontamente dimostra di avere una coscienza fine. Il suo peccato lo avrà allontanato da Dio, ma la correzione cancella il passo falso e può anche portare a un grado di amore maggiore di prima.

            Ma che cosa succederebbe se non si rettificasse subito, se si ritardasse il pentimento? Significherebbe inequivocabilmente dare poca importanza alla vita di grazia, all'amicizia con Dio. In questo caso ogni giorno di ritardo è un passo verso uno stato in cui la freddezza si sarà fatta totale, la coscienza ridotta definitivamente al silenzio, e vano sarà ogni tentativo di conversione o di rinascita della grazia.

            Questo è lo stato che realmente minaccia l'uomo. Il pericolo è tanto più serio in quanto a questo stato si arriva a poco a poco e con relativa facilità — se non si ascolta la coscienza —, e, una volta giunti a questo punto, è molto difficile uscirne.

            Non ci deve pertanto costare troppa fatica renderci conto che chiunque di noi può andare all'inferno. Non è difficile, basta non tenere in considerazione la coscienza: non esaminarla, non ascoltarla, non obbedirle. Basta sviluppare — e non ci vuole poi tanto — la tendenza a giustificare ogni nostra azione. Basta, in definitiva, evitare di confrontarsi con l'impegno arduo e costante di rettificazione che implica la vita cristiana.

            «Dobbiamo affrontare coraggiosamente le nostre miserie personali, cercare di purificarci [...]. Il potere di Dio si manifesta nella nostra debolezza, e ci spinge a lottare, a combattere contro i nostri difetti, pur sapendo che non otterremo mai del tutto la vittoria durante la vita terrena. La vita cristiana è un continuo cominciare e ricominciare, un rinnovarsi ogni giorno» [1].

            Sembra evidente che il modo migliore per valutare gli egoismi e i peccati maggiori sia dare la giusta importanza — ne troppa, ne troppo poca — agli egoismi e alle mancanze minori. In altre parole, il modo migliore per provare dolore dei peccati mortali è provarne per quelli veniali. Per questo — al contrario di ciò che a volte oggi si insegna — penso che spingere i figli a confessare spesso le loro mancanze, che normalmente saranno lievi, sia un mezzo meravigliosamente efficace per la formazione sana ed equilibrata della loro coscienza morale. E ciò che vale per i bambini è ugualmente valido per noi adulti.

FORMAZIONE DELLA COSCIENZA DEI FIGLI: ALCUNE NORME

            La formazione della coscienza di un bambino è un processo lungo e continuo. Una corretta istruzione scolastica può fornire un contributo importante. Tuttavia occorre precisare due cose: in primo luogo che tale processo dovrebbe essere già iniziato in casa; e che, soprattutto, è fondamentale che prosegua principalmente in quell'ambito. I paragrafi che seguono vorrebbero aiutare i genitori in questo impegno continuo.

Il senso del dovere morale

            E vitale che il bambino vada man mano acquisendo un corretto senso del dovere morale; che comprenda gradualmente perché dobbiamo fare certe cose ed evitare altre. Bisogna aiutarlo a comprendere che non siamo animali; che non cresciamo automaticamente; che non nasciamo già perfetti e rifiniti nella nostra forma definitiva; che possiamo svilupparci bene o male; che abbiamo una strada da percorrere; che possiamo arrivare a destinazione o perderci; salvarci o essere dannati. Per questo Dio, che ci ama, ci ha preparato la strada. Se vogliamo raggiungere la meta, il Cielo, siamo tenuti a seguire le sue indicazioni. Tuttavia gli obblighi a cui siamo sottoposti sono di carattere morale, non fisico. Dio non ci forza fisicamente a fare il suo volere, affinchè seguiamo il cammino che Egli ha predisposto. Ci lascia a disposizione la nostra libertà. E pertanto ci lascia le alternative e le conseguenze di tale libertà. Sta a noi scegliere se seguire le sue indicazioni (perché abbiamo fiducia in Lui, perché crediamo che sono indicazioni provenienti dalla Verità e dall'Amore) o non seguirle (perché la nostra comodità è riluttante a fare lo sforzo che esse implicano, o perché la nostra superbia non è preparata ad accettare la Verità o a comprendere l'Amore che le ispira). Ma non sta a noi l'alternativa, nel caso in cui facessimo a meno di seguire le sue indicazioni, di evitare le relative conseguenze: ciò è non solo moralmente, ma anche fisicamente impossibile.

             Se non seguiamo le sue indicazioni — oltre che offenderlo (perché respingiamo una espressione del suo amore) —, non arriveremo alla meta. Una persona che viaggia con l'intento di arrivare a Roma è libera di seguire la segnaletica stradale o di ignorarla. Ma se non la segue, non arriverà a Roma. La libertà e la responsabilità sono caratteristiche basilari della moralità. Inoltre sono inscindibilmente correlate tra loro, tanto che una non può essere considerata senza l'altra [2]. Visto che i giovani d'oggi, già dai dodici o tredici anni, sono spinti a concepire la libertà come il diritto di fare quel che piace senza preoccuparsi delle conseguenze delle azioni, e senza farsene carico, dobbiamo adoperarci perché comprendano che una libertà così concepita non è libertà. È irresponsabilità, o, per meglio dire, libertà irresponsabile; ma ciò non toglie che se ne debba rispondere. Devono rendersi conto che la responsabilità accompagna sempre la libertà: possiamo dimenticarlo, non evitarlo. Tutti, prima o poi, dovremo rispondere delle nostre libere azioni, specialmente delle nostre libere azioni irresponsabili.

            Fatto sta che i giovani, e non solo loro, si ritrovano immersi nella fitta nebbia di confusione che avvolge il tema della libertà. Chiederci chi o che cosa abbia causato la nebbia va aldilà dei nostri scopi. Ma l'esperienza mi dice che le persone sono grandemente aiutate a migliorare la visibilità quando si ricorda loro un principio elementare e abbastanza ovvio: siamo liberi di fare e di scegliere, ma non di sfuggire alle inevitabili conseguenze di quanto effettivamente facciamo e scegliamo. Sono libero di buttarmi dal dodicesimo piano; se lo faccio, però, non sono libero di schivare la conseguenza che mi obbliga a sfracellarmi contro il marciapiede; sono libero di provare le droghe, ma non sono libero di evitare la conseguenza che me ne farà restare schiavo.

Ragioni positive

            Quanto agli obblighi o alle proibizioni in concreto, i genitori dovrebbero sforzarsi sempre di evidenziare le ragioni positive che vi stanno dietro, gli scopi positivi che si propongono di agevolare.

            «Non puoi fare questo perché è male». Questa non è una spiegazione positiva: anzi, piuttosto che formare la coscienza la deforma, lasciando nel bambino un senso restrittivo e negativo della moralità che è proprio all'opposto dell'idea di morale cristiana che gli andrebbe ispirata.

            «Perché dobbiamo andare a Messa?». Non solo per soddisfare a un precetto (il precetto in sé non è un fine), ma per onorare Dio e per partecipare uniti al Sacrificio di Gesù Cristo. Conviene sottolineare sempre le finalità dei precetti.

            «Perché bisogna pregare?». Non solo perché è comandato, e neppure «perché è quel che fa ogni buon cristiano», ma per parlare con Dio, per conoscerlo.

            «Perché non bisogna mentire?». Perché vuoi dire abusare della facoltà che Dio ci ha dato di comunicare con gli altri; la menzogna è una barriera tra noi e Dio, tra noi e gli altri.

            Il mondo di oggi, così confuso e irrequieto, offre continui spunti per chiarire i criteri morali, e occorre approfittare di queste occasioni — offerte da quotidiani e riviste, dalla televisione — e coglierne al volo tante altre nelle conversazioni in famiglia.

            E viene il momento (più o meno attorno ai dieci anni) in cui la domanda: «Perché non posso vedere quel film, o non dovrei leggere quel libro?» viene posta con serietà, e con serietà bisogna rispondere: «Perché può danneggiarti», e occorre spiegare in che cosa consiste il danno: «Perché ti toglie la libertà di amare, in quanto la purezza è una condizione dell'amore; perché può renderti schiavo del tuo corpo...».

            Il compito di formare la coscienza dei figli riguardo alla purezza è una responsabilità di particolare competenza dei genitori. Dovrebbero essere «i genitori a far conoscere ai figli l'origine della vita, in modo graduale, adattandosi alla loro mentalità e alla loro capacità di capire, prevenendo un po' la loro naturale curiosità; bisogna evitare che i ragazzi avvolgano di malizia questa materia, e che apprendano cose — in sé nobili e sante — attraverso le malevole confidenze dei compagni. Tutto ciò costituisce di solito un passo importante nel consolidamento dell'amicizia fra genitori e figli, perché impedisce che si crei una frattura nel momento stesso in cui comincia a destarsi la vita morale» [3]. In questo compito bisogna procedere per gradi; il punto di partenza, quello su cui bisogna insistere sempre, è che le differenze fra i sessi — così come l'attrazione sessuale e l'unione sessuale — sono parte della creazione divina. Sono il modo che Dio ha scelto per creare nuove vite, nel matrimonio, associando l'uomo alla sua attività creatrice. Quindi la sessualità ha in sé qualcosa di sacro, essendo strettamente legata ai piani di Dio sull'uomo; e, come tutto ciò che ha speciale attinenza con Dio, va orientata con cura secondo il fine da Lui stabilito. Se ciò costa sforzo, perché le nostre passioni, pur in sé buone, sono disordinate, significa che dovremo imparare a controllare tali passioni e a volgere la sessualità al suo fine. Spiegazioni di questo tenore aiutano i figli ad apprezzare e a rispettare la virtù della castità e sarà loro più facile, quando cominceranno ad avere difficoltà, vivere questa virtù in modo positivo, facendo ricorso alla grazia divina per sostenere i propri sforzi umani.

            È essenziale cominciare in tempo l'educazione sessuale, tenendo presenti due princìpi fondamentali:

            a) bisogna infondere riverenza di fronte a questo tema;

            b) questa riverenza va infusa prima che l'argomento cominci a diventare tentazione. Dopo è già tardi.

Non tutte le restrizioni limitano la nostra libertà

            Non si deve tuttavia trascurare il fatto che la prima reazione di un giovane (e, sorprendentemente, di molti adulti) a una restrizione consiste nel vedere in essa una limitazione della propria libertà. Occorrerà spiegare ai figli, più volte, che non è vero: non tutte le restrizioni implicano necessariamente una limitazione della libertà. Non è difficile portarli a capire che qualsiasi energia dev'essere controllata affinchè sia utilizzabile per il meglio; la forza di un fiume dev'essere convogliata; l'energia del vapore va tenuta dentro una caldaia; la compressione e lo scoppio della benzina devono avvenire nei cilindri di un motore. Anche le energie umane vanno incanalate; le restrizioni a cui dobbiamo sottoporle servono per poterle impiegare, durante tutta la vita, con maggiore profitto e libertà.

            Un esempio semplice e chiaro per illustrare questo punto è quello della strada: una strada è una restrizione, un'area delimitata, con la sua carreggiata, le sue curve e i suoi dislivelli. Per mantenersi in carreggiata bisogna accettare e seguire tutte queste restrizioni; ma esse non ci limitano se consideriamo che una strada serve per raggiungere una meta: a questo deve servire la vita.

            L'autostrada rappresenta un esempio ancora più chiaro, con il suo limitato numero di entrate e di uscite, con i suoi limiti massimi — e a volte minimi — di velocità. Nessuno penserebbe a questi limiti come a restrizioni della propria libertà; sono piuttosto fattori che favoriscono l'impiego più proficuo della libertà stessa.

Esercitare la volontà

            Bisogna aiutare i figli a comprendere che se non hanno volontà saranno inutili nella vita. L'atleta esercita e allena i muscoli per tenersi in forma in vista della corsa: se non si allenasse il suo corpo non risponderebbe nel modo voluto. Dobbiamo allenare la volontà in un modo simile — esercitando i «muscoli» della volontà con piccoli sforzi e sacrifici — per mantenerci in forma per la vita. Un ragazzo o una ragazza che giunga alla maturità solo anagrafica ma non di volontà, non è maturo; non sa vivere. È una barca senza timone, un'automobile senza volante. La formazione morale pratica serve perché ognuno di noi sappia padroneggiare la propria vita. Ecco il perché della «lotta» morale: divenire responsabili della propria vita. È solo a forza di vittorie, e malgrado qualche sconfitta, che si diventa padroni di sé; vale a dire che una persona, con l'aiuto della grazia divina, può dirigere la propria vita consapevolmente, senza andare alla deriva in balìa dell'ambiente, delle mode, degli amici, delle passioni, della pigrizia o di qualsiasi altra cosa che non gli appartenga, che non sia lui stesso, i tratti della sua personalità.

Cadute

            I bambini non hanno bisogno solo di sentirsi dire, con insistenza, che la vita è una lotta: occorre anche dir loro di non sorprendersi del fatto che costa sforzo e di non scoraggiarsi se a volte ne escono sconfitti. Affronteranno meglio i loro difetti se avremo insegnato loro, con non minore insistenza, che Dio ci comprende, che ci ama anche con le nostre debolezze e ci vuole aiutare. Dobbiamo quindi avere fiducia illimitata in Lui. I bambini devono abituarsi a chiedergli perdono molte volte al giorno (una pratica che non significa affatto umiliarsi, ma anzi implica costante consapevolezza che la vita vissuta alla presenza di Dio è vissuta alla presenza dell'Amore, e che chiedere perdono è la reazione di una persona innamorata. Chi smette di chiedere perdono ha smesso di amare). Dovrebbero esaminarsi ogni sera: un esame di coscienza semplice e breve. Mi sembra opportuno ricordare qui che tra gli insegnamenti migliori per la buona formazione della coscienza dei figli — ne troppo scrupolosa, ne troppo indulgente — rientra l'abitudine alla confessione frequente fin dall'età (sei o sette anni) in cui sono capaci di comprendere ciò che è offesa e ciò che è perdono.

Sensibilità alla grazia

            Abbiamo detto che è importante sensibilizzare i figli all'idea che la vita è lotta, ma che non siamo soli in questa lotta. Bisogna quindi sensibilizzarli alla grazia: alla grazia santificante, che ci rende figli di Dio; e alla grazia attuale, un aiuto di Dio che da luce alla nostra intelligenza e forza alla nostra volontà per lottare con più grinta e vincere.

            Se padre e madre si confessano e si accostano spesso al sacramento dell'Eucaristia, se pregano, se visitano il Signore nel Tabernacolo, i figli si accorgeranno che i loro genitori, nella lotta, si appoggiano alla grazia divina, e anch'essi impareranno a fare altrettanto.

L'esempio dei genitori

            I genitori devono dare idee chiare ai figli. Se però vogliono non solo che i figli abbiano la coscienza ben formata, ma, soprattutto, che le diano retta, devono dare un esempio altrettanto chiaro. I figli che non vedono i genitori sforzarsi di migliorare, con alti e bassi ma con determinazione e con ottimismo, non riceveranno una buona formazione. Se non vedono, per dirne una, che il padre o la madre stanno lottando per non lasciarsi dominare dai nervi — e che sanno chiedere perdono quando non ci riescono —, trarranno pochi frutti dalla via dell'esempio.

            Una parte considerevole di tale esempio sta nella prontezza dei genitori nell'imporsi rinunce. Ai figli fa bene accorgersi che i loro genitori fanno a meno di cose piacevoli, attraenti; che sanno dire di no — pure a sé stessi — anche quando è difficile. Se una madre, per esempio, vuole formare in sua figlia una forte indipendenza nei confronti delle mode, deve lei stessa, per prima, possedere questa indipendenza. Spesso le madri si lamentano che le figlie al giorno d'oggi si lasciano trascinare dalle mode, dall'ambiente: si sono mai chieste, queste madri, come a loro volta hanno resistito ai dettami dell'ambiente, agli imperativi delle mode?

            Lo stesso vale per i padri (perché la moda influenza anche loro). Se nella scelta di un'automobile più grande e potente a muovere un uomo non è la necessità familiare o professionale, ma semplicemente il fatto che un collega ne possieda una uguale, quanto saranno convincenti le sue argomentazioni quando tenterà di persuadere suo figlio che una motocicletta non è una «necessità» per un ragazzo di sedici anni?

            I genitori che vogliono educare i figli a una coscienza sensibile e a una volontà forte dovranno lottare costantemente per acquisire per primi queste qualità.

Decontaminazione morale

            È il momento di trattare più ampiamente di libri, film, e via dicendo.

            Se i cittadini hanno il diritto di aspettarsi che le autorità pongano i mezzi per impedire che la spazzatura si accumuli per le strade, hanno lo stesso diritto — ed esiste un dovere corrispondente da parte dell'autorità pubblica — a non imbattersi in «immondizie morali» per le strade o in qualsiasi luogo pubblico.

            Sarebbe ben triste che in un momento in cui si sensibilizza l'opinione pubblica sulla realtà e sui pericoli della contaminazione ambientale, questa stessa opinione pubblica si lasciasse dominare dalla realtà, infinitamente più nociva, della contaminazione morale del nostro ambiente sociale. Se alcune persone vogliono avvelenarsi, in privato, lo facciano pure. Però non possono pretendere in nome della libertà che si venda veleno a buon mercato (e, a volte, a caro prezzo) a ogni angolo di strada; soprattutto se si tratta di un veleno seducente per le sue apparenti qualità, ma non per questo meno letale.

            In molti luoghi l'autorità pubblica non fa quasi niente per contenere la corruzione morale delle città. Al contempo si cerca di giustificare tale inattività affermando che in fin dei conti non c'è alcun dato scientifico per verificare gli effetti nocivi di questa contaminazione sulla gente. Per conoscere gli effetti nocivi della pornografia non c'è bisogno di aspettare le conquiste della scienza: basta un po' di buon senso. Ciò, temo, solleva più di un dubbio sulla competenza di simili autorità in fatto di governo, dato che il buon senso è il primo requisito per governare. Ma se la ragione di tanta passività davanti alla corruzione è, in fin dei conti, la paura di provocare accuse di puritanesimo e facile censura da parte di poche persone schiamazzanti, allora ciò che manca alle suddette autorità non è tanto il buon senso, ma qualcosa di ancora più importante: coraggio — il coraggio di governare — e una autentica preoccupazione per il bene comune.

            In difesa delle autorità va detto che forse prenderebbero provvedimenti se l'opinione pubblica si schierasse più chiaramente per la decontaminazione morale, per il mantenimento di alcune chiare condizioni di igiene e limpidezza morale nella sfera pubblica. Ma l'opinione pubblica è formata soprattutto dai genitori, e molti di essi sembrano dormire, o, come le autorità, mancare di buon senso e di coraggio. Per quanti non dormono, e che non vogliono addormentarsi, ecco qualche considerazione per respingere la sonnolenza [4].

Autocensura

            Oggi il cinema, la televisione e le letture influenzano fortemente chiunque, specialmente (ma non solo) i giovani. A questo bisogna aggiungere che, attualmente, sono assai pochi i film che non esercitino un'influenza negativa sul pubblico, soprattutto tenendo conto che il danno non è causato semplicemente da alcune scene più o meno scabrose, ma da tutta una filosofia e una concezione di vita che impregnano questi lavori. Si esalta il materialismo. L'edonismo è eretto a regola di vita. La violenza è un valore positivo; il divorzio, un segno di progresso e di civiltà. L'adulterio, il «libero amore», l'omosessualità e consimili pratiche sono presentate come qualcosa di normale e naturale. Neanche i divieti offrono garanzie adeguate. Un film vietato, «per adulti» — come se l'età lo rendesse apprezzabile —, è inadatto a chiunque non voglia offendere Dio. Una persona è matura in questo campo quando è sincera a sufficienza da riconoscere che cos'è degradante, e abbastanza forte da evitarlo.

            Una censura imposta dall'esterno può dare qualche risultato. Può ottenere, nelle case e per la strada, un ambiente limpido, che favorisca un normale sviluppo degli affetti e delle passioni, evitando le patetiche anomalie indotte dall'ossessione.

             Ma l'effetto positivo sarà molto limitato se non vi andrà unito un altro risultato: che i giovani comprendano come, in questo campo, ognuno dev'essere il proprio «censore». Limpidi, felici e liberi (liberi anche di amare): così vogliamo vedere crescere i nostri ragazzi in questo mondo. E non sarà così se non colgono il principio, e se non vivono la pratica, dell'autocensura, che è l'unico mezzo di censura che valga. L'autocensura è una miscela di idee chiare e volontà forte. Significa rendersi conto del danno che può arrecare l'effetto ossessivo di certi film o libri e certi comportamenti; e significa possedere volontà sufficiente per evitare le facili schiavitù e combatterle con la lotta difficile e allegra che è propria di chi difende la propria libertà, la propria capacità di amare e la propria anima.

Genitori permissivi (con i figli)

            Di queste cose, come di tutti gli aspetti dell'educazione morale, bisogna offrire una visione positiva. Come ho detto prima, non sempre riesce di far capire ai figli che una restrizione o un divieto possono essere positivi. E facile che la loro reazione sia di protesta o risentimento. Sono molti i genitori che, sotto le pressioni di una società permissiva, cedono, forse perché pensano: «Anche se non cedo, i miei figli non mi obbediranno; in ogni caso faranno quello che vorranno». A questi genitori dico che hanno l'obbligo grave di orientare i figli chiaramente e con fermezza, anche quando credono o sono certi di non essere ascoltati.

            Viviamo momenti difficili per l'anima. Supponiamo che un figlio, o una figlia, abbia genitori «permissivi», cioè, in fin dei conti, deboli. Questo ragazzo, o ragazza, guarda e legge ciò che vuole, va dove gli, o le, pare, fa ciò che desidera. I suoi genitori sono forse preoccupati, e hanno ragione; ne parlano tra loro, ma non osano dire nulla al ragazzo o alla ragazza.

            Quale sarà il prevedibile risultato entro dieci o vent'anni? Una vita distrutta: perdita della fede, matrimonio fallito, isolamento, solitudine. «Ma i miei genitori non sapevano che sarebbe finita così? Perché dunque non hanno fatto di tutto per impedirlo?». E allo sconforto di una vita distrutta si aggiunge l'amara sensazione di essere stati traditi dai genitori, di essere stati vittime della loro mancanza di coraggio e amore.

            Supponiamo invece che lo stesso figlio abbia genitori che si impongono, con amore ma con fermezza; forse il figlio, o la figlia, non li ascolterà ugualmente, e il risultato sarà prevedibilmente lo stesso, ma con una differenza. Nel momento dello sconforto quel figlio penserà: «I miei genitori sapevano quel che poteva succedermi. E hanno fatto tutto il possibile per fermarmi. Io non ho dato retta, ma mi amavano! I miei genitori mi amavano!». Una simile convinzione è sufficiente ad allontanare una persona dalla disperazione definitiva. «I miei genitori mi amavano». Non è una consolazione di poco conto per una persona disperata: può bastare per salvarsi.

Genitori indulgenti (con sé stessi)

            In ogni caso l'esperienza mi suggerisce che se i figli talvolta non obbediscono ai genitori è perché i genitori sono troppo indulgenti; ma non tanto con i figli quanto con sé stessi. Non sono abbastanza disposti a chiedersi o a negarsi alcunché. Sono troppo egoisti.

            Siamo sinceri: il più convincente ragionamento (a volte l'unico efficace) che i genitori possono e devono esporre ai figli nel proibire loro di vedere un dato film o di leggere un certo libro, è che essi stessi — i genitori — non si permettono di farlo.

            Se i genitori non sono disposti a imporsi una censura ogni volta che occorre, i loro sforzi per imperla ai figli saranno deformanti.

            Prima di proseguire prendiamo in esame un aspetto particolare della questione. Esistono indubbiamente alcune opere che, per la complessità o delicatezza dell'argomento, richiedono una maggiore esperienza e un solido criterio per essere digerite. In tali casi alcuni genitori potrebbero a ragione ritenere che, contrariamente a loro stessi, i propri figli non abbiano ancora acquisito questo criterio. (Altri potrebbero vedere in queste opere—soprattutto se televisive — una buona occasione per tenere una conversazione costruttiva con i figli. Così facendo forse i genitori godranno meno dell'opera, ma il criterio dei figli diverrà più completo e maturo).

            Simili opere non presentano particolari problemi. Ma ne esistono parecchie altre intorno a noi, e di tutti i generi, disseminate di scene ai limiti della pornografia. Sono queste le opere davanti alle quali i genitori devono confrontarsi con la necessità dell'autocensura.

            Non dobbiamo prenderci in giro. La pornografia è una rappresentazione degradante della realtà sacra e del dono divino del sesso. E chi tollera la pornografia, nelle sue letture o negli spettacoli che vede, offende gravemente Dio, degrada sé stesso e offre un esempio degradante agli altri. È il caso di chi non è sufficientemente maturo da imporsi la censura nelle occasioni prevedibili e in quelle impreviste. È maturo colui che evita letture e spettacoli di cui può ragionevolmente prevedere un contenuto pornografico. E, qualora la previdenza non sia stata sufficiente, la maturità consiste nell'interrompere immediatamente la lettura di un libro quando ci si imbatte in un passo pornografico, o nell'allontanarsi da uno spettacolo pubblico che, contro ogni previsione, risulti degradante.

La doppia morale

            Se in questo campo i genitori si riservano certe «libertà» che negano ai figli, è logico che i figli reclamino per sé quelle «libertà» e che le cerchino in aperta ribellione o alle spalle dei genitori.

            La conclusione è ovvia e inevitabile. C'è un solo modo in cui gli adolescenti possono comprendere qual è l'autentica libertà, come la si vive e difende: osservando l'esempio degli adulti, ovvero, in primo luogo, quello dei propri genitori.

            I genitori che in tale materia non sono disposti a vivere l'autocensura sono colpevoli di appellarsi a una doppia morale. Essi ammettono due tipi di morale: una per i figli e un'altra per sé stessi. In questo modo stanno giustificando — agli occhi dei figli — l'accusa di ipocrisia che tante volte i giovani muovono agli adulti. Così facendo certo non otterranno dai figli ne il rispetto ne l'obbedienza.

            Le cose stanno proprio così: alcune realtà non sono meno vere perché sono amare. I genitori non possono sperare che i figli li seguano sulla strada giusta, se insistono a percorrere quella sbagliata. Non possono aspettarsi che i figli siano onesti, se essi praticano con convinzione l'inganno, soprattutto l'auto-inganno. Non possono pretendere che i figli siano forti, se essi sono deboli; specie se si tratta del tipo di debolezza che va proliferando nella nostra società e che non consiste tanto nel sentirsi attratti dalla corruzione—cosa che a tutti può accadere, ma a cui abbiamo il potere di resistere —, ma che è, al contrario, una innaturale debolezza mentale e morale consistente nel negare che si tratti di corruzione. Dunque, dal momento che l'atteggiamento che si riscontra in buona parte del mondo «adulto» di oggi non merita altro appellativo che ipocrisia, possiamo aggiungere che i giovani non hanno tutti i torti nelle loro accuse. Solo un ipocrita invoca la doppia morale: permissiva per sé, più esigente per i propri figli. È ipocrita colui che si crede incorruttibile, giacché nega di avere in sé tendenze egoistiche da combattere. Solo l'ipocrita afferma di amare i suoi figli mentre, con il suo esempio, li rovina.

            Lo stesso mondo dei giovani — che in modo simile tendono a porsi come incorruttibili, come se non esistessero i peccati e l'egoismo, le proteste della coscienza e la necessità di pentirsi e confessarsi — non è libero da questa ipocrisia. Anche nel loro caso non la si può chiamare diversamente; ed è una debole scusa, per l'ipocrita, il fatto di avere imparato dai suoi genitori.

La sincerità dei genitori

            Se i genitori non sono sinceri, neanche i figli lo saranno. E senza la sincerità la lotta morale non ha senso. La sincerità è un fattore essenziale nella corretta formazione della coscienza (e ne è una buona garanzia di salute). È molto importante perché significa riconoscere la verità, «camminare nella verità», anche se talvolta la verità non è quella che si vorrebbe. Chi riconosce di non essersi comportato come avrebbe voluto, finirà — con l'aiuto della grazia divina — per ottenere ciò a cui aspira. Solo il viaggiatore che riconosce di essere sulla strada sbagliata ha qualche possibilità di ritornare su quella giusta.

            È grave che i genitori non ottengano che i figli siano sinceri con essi e riconoscano le mancanze commesse. È grave che i figli mentano ai propri genitori. Ma se dovesse succedere, come si può rimediare? Essendo sempre sinceri con i figli; non mentendo mai.

            A volte bisogna rimproverare con decisione i figli, ma ciò va fatto senza ira, senza eccessi. I genitori hanno l'obbligo (di giustizia e carità) di correggere i piccoli, ma con misura. Pertanto infuriarsi eccessivamente significa infuriarsi ingiustamente. Se, però, un genitore si arrabbia ingiustamente e non lo riconosce chiedendo scusa, è non solo ingiusto ma anche insincero. Si rende conto di avere sbagliato ma non vuole ammetterlo, il che equivale a mentire.

            I figli conoscono bene i loro genitori. Ne conoscono sia le virtù che i difetti. Questa consapevolezza è normale e inevitabile, semplice conseguenza dell'aver condiviso lo stesso focolare domestico per tanti anni. Quindi ogni tentativo, da parte di una madre o di un padre, di nascondere i propri difetti ai figli è destinato al fallimento. Poniamo il caso di un bambino di cinque anni il cui padre è irascibile, non si sforza di controllarsi e nemmeno ha la sincerità di riconoscere questo suo difetto. Può darsi che il bambino non sappia neanche che si tratti di un difetto, soprattutto se, come capita spesso, nessuno in famiglia si azzarda a definirlo tale. L'unica cosa che capirà è che si tratta di una caratteristica del padre i cui sgradevoli effetti a volte giungono fino a lui sotto forma di grida e manrovesci.

            In un'ambiente del genere — dal momento che il malumore è contagioso — probabilmente il bambino svilupperà un pessimo carattere, senza saperlo controllare (o forse senza sapere che può essere controllato) perché nessuno glielo sta insegnando. All'età di quindici anni saprà che il brutto carattere è un difetto, anche se, avendo preso l'esempio dal padre, non vorrà riconoscerlo nel suo caso (c'è sempre qualche giustificazione). Risultato finale: non solo avrà acquisito lo stesso difetto del padre, ma con ogni probabilità non lo amerà ne lo rispetterà più.

I difetti dei genitori come fattore formativo

            C'è un particolare, nell'esempio descritto, che non deve sfuggirci. La ragione fondamentale della deformazione del figlio (e della sua conseguente perdita d'amore nei confronti del padre) non è stata il difetto del padre, ma il fatto che il padre non abbia lottato e, soprattutto, che non sia stato sincero sulla innegabile realtà di quel difetto.

            Ciò che è causa di deformazione (e quindi di scandalo) per un figlio, non è il fatto che i genitori abbiano difetti (cosa inevitabile), ma che siano bugiardi e ipocriti: genitori che non riconoscono i propri difetti e cercano sempre di giustificarli o nasconderli dietro un manto di bugie, con esplosioni d'ira, abusando della loro autorità; perché, in fondo, semplicemente non sono disposti a combatterli.

            I difetti dei genitori non devono essere motivo di scandalo per i figli, e neanche un motivo di minore rispetto o amore. Non avverrà se i figli si accorgono che i genitori riconoscono tali difetti e li combattono; per di più i figli ne ricaveranno un meraviglioso esempio e l'incoraggiamento a comportarsi allo stesso modo. I bambini, in maniera abbastanza peculiare, acquistano una maggiore comprensione dei genitori quando li vedono lottare contro i loro difetti; così i difetti dei genitori aiutano i figli a rispettarli e amarli di più.

            In conclusione, il modo in cui i genitori affrontano i propri difetti è il fattore umano più determinante nella formazione morale — di coscienza, di carattere — dei figli.

            I genitori non devono essere esperti psicologi o insigni sapienti per formare bene i figli; basta che li amino davvero, di un amore che combina sacrificio, affetto e fortezza. Non c'è bisogno che siano santi, anche se devono tenere viva la speranza di diventarlo, un giorno, con l'aiuto di Dio. Ciò che devono fare è lottare per vivere una vita cristiana sincera, e questo si deve notare nella loro condotta di ogni giorno. Con le parole di Josemaria Escrivà: «I genitori educano soprattutto con la loro condotta. Quello che i figli e le figlie cercano nel padre e nella madre non è soltanto un'esperienza più vasta della loro, o consigli più o meno giusti, ma qualcosa di più importante: una testimonianza sul valore e sul senso della vita, una testimonianza incarnata in un'esistenza concreta, convalidata nelle diverse circostanze e situazioni che si avvicendano lungo l'arco degli anni.

            «Se dovessi dare un consiglio ai genitori, direi soprattutto questo: fate che i vostri figli — che fin da bambini, non illudetevi, notano e giudicano tutto — vedano che voi cercate di vivere con coerenza la vostra fede, che Dio non è solo sulle vostre labbra, ma è presente nelle vostre opere, che vi sforzate di essere sinceri e leali, che vi amate e li amate veramente.

            «Così contribuirete efficacemente a fare di loro dei veri cristiani, uomini e donne integri, capaci di affrontare con spirito aperto le diverse situazioni della vita» [5].

 

NOTE

[1] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 114.

[2] Forse nessuno ha insistito come Josemaria Escrivà sulla necessità di coniugare questi due concetti: «libertà individuale con la corrispondente responsabilità personale» (cfr ibidem, n. 184).

[3] Colloqui con Mons. Escrivá, n. 100.

[4] Cfr anche pp. 177 ss.

[5] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 28.