Trent'anni fa le famiglie numerose costituivano un fenomeno diffuso e tipico della cultura cattolica: oggi invece, in Occidente, tendono a essere piuttosto rare. Il cambio di rotta verso la famiglia di dimensioni minori è iniziato negli anni Sessanta, e da allora si è fatto via via più netto. Si potrebbe avanzare una spiegazione del fenomeno individuandone tre cause fondamentali: il diffondersi della paura di una costante crescita della popolazione mondiale, o «bomba demografica»; l'affermarsi dell'«I-generation» — la generazione dell'Io —, con la sua esasperata accentuazione della realizzazione di sé stessi, particolarmente in ambito professionale; infine, il dilagare della mentalità consumistica, che si manifesta in un'opzione per i valori materiali.
Quanto alla bomba demografica, non si sta prestando la dovuta attenzione al fatto che, almeno in Occidente, essa è stata da tempo disinnescata. Ai tempi del Concilio Vaticano II la pianificazione familiare veniva spesso presentata come una responsabilità sociale urgente: si riteneva che la crescita demografica costituisse una minaccia per la prosperità e perfino per la sopravvivenza stessa della popolazione. Ma oggi, a parte le considerazioni sulla situazione dei Paesi in via di sviluppo, il contenzioso sul rischio dell'esplosione demografica non solo ha perduto di validità, ma nei Paesi occidentali i suoi termini si sono addirittura ribaltati. Oggi sono la diminuzione e l'invecchiamento della popolazione a costituire un problema per quasi tutti i Paesi occidentali, che presentano i sintomi di società tecnologicamente avanzate ma in rapido declino umano.
In questi ultimi trent'anni l'insistenza sui miti dell'autorealizzazione e del comfort materiale è stata accompagnata da una non minore insistenza circa la pianificazione o, meglio, la limitazione della crescita familiare. Si è giunti a considerare i figli (due, o al massimo tre) come degli «extra opzionali» per la vita di una coppia, e non come la realizzazione naturale delle aspirazioni coniugali. Molti credono di trovare nella professione, nel prestigio, nella vita sociale, negli elettrodomestici, nelle vacanze, nel benessere materiale o nelle comodità una fonte di maggiore felicità e di autorealizzazione, piuttosto che nei figli. Ma se si prende come punto di riferimento il numero — sempre in aumento — dei focolari domestici distrutti, bisogna concludere che il minor numero di figli non ha davvero favorito la stabilità dell'istituto matrimoniale.
Ciò nondimeno la mentalità della pianificazione familiare ha influito profondamente anche sulle famiglie cattoliche, e in un modo così penetrante che oggi, nei corsi di preparazione al matrimonio, si presenta il modello di una famiglia «pianificata» quale norma da seguire. Di conseguenza, la grande maggioranza dei giovani che oggi si sposano considera la pianificazione familiare come un aspetto naturale del matrimonio, e molti che non avrebbero avuto affatto la necessità di praticarla stanno sperimentandone gli effetti nella loro vita coniugale.
Tutto ciò ha comportato un cambiamento radicale di tendenza in meno di una generazione; sebbene si tratti di un periodo di tempo relativamente breve, esso è lungo quanto basta per consentirci di trarre alcune conclusioni.
L'amore coniugale & i suoi frutti
Vale la pena di ricordare che la dottrina della Chiesa sulla pianificazione familiare si fonda su due princìpi o requisiti essenziali: bisogna praticarla seguendo i metodi naturali e dev'essere giustificata dalla sussistenza di motivi seri, secondo il chiaro dettato dell'enciclica Humanae vitae, che confermando il Magistero precedente ribadisce con chiarezza che la pianificazione familiare condotta con metodi naturali è lecita solo se esistono «seri motivi» per distanziare le nascite (cfr nn. 10 e 16).
Negli ultimi anni questo secondo requisito è stato però sovente messo in discussione o semplicemente ignorato, quasi che esso costituisse una norma antiquata, derivata da una visione istituzionale del matrimonio che non terrebbe conto delle acquisizioni del personalismo moderno e delle legittime aspirazioni dell'amore coniugale. Ben diversa è la conclusione che emerge invece da un'adeguata considerazione dell'insegnamento del Concilio Vaticano II, secondo cui i figli sono il frutto naturale dell'amore coniugale e il fattore che maggiormente contribuisce alla realizzazione e alla felicità dei genitori. «Il matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono moltissimo al bene degli stessi genitori» (cost. past. Gaudium et spes, n. 50).
Secondo la dottrina conciliare l'amore sponsale trova la sua forza e il naturale sostegno nei figli: senza di esso l'amore può crollare. Se due persone si limitano a guardarsi l'una negli occhi dell'altra, i difetti che ciascuna andrà scoprendo nel coniugo potranno alla fine diventare intollerabili. Se invece imparano gradualmente a «guardare insieme» i propri figli, ciascun coniuge continuerà senza dubbio a scoprire i difetti dell'altro, ma avrà anche meno tempo e meno motivi per trovarli insopportabili.
Ma, evidentemente, non possono contemplare insieme quel che non c'è. L'amore che aspira a saziarsi solamente della contemplazione dell'altro, può condurre alla saturazione: per crescere, l'amore coniugale deve poter contemplare altri esseri — e venir contemplato da quegli occhi, da molti occhi — che ne costituiscono il frutto. Se non sfocia nei figli tale amore viene frustrato in ciò che dovrebbe costituire il corso naturale della sua crescita, il suo frutto naturale (altro è il caso, che non esaminiamo in questa sede, delle coppie alle quali Dio non manda figli). I beni materiali, o una comoda vita a due, non appagano le aspirazioni dell'amore coniugale, che tende al sacrificio e di esso si nutre, ne sono una condizione perché esso si conservi e cresca. I figli, invece, lo sono.
Spirito di sacrificio
L'enciclica Gaudium et spes — il principale documento del Concilio Vaticano II sul ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo — sottolinea il fatto che i coniugi che generano una prole numerosa sono testimoni della generosità e magnanimità che deve accompagnare la missione procreatrice del matrimonio cristiano: «I coniugi cristiani, confidando nella divina provvidenza e coltivando lo spirito di sacrificio, glorificano il Creatore e tendono alla perfezione in Cristo quando adempiono alla loro funzione di procreare, con generosa, umana e cristiana responsabilità. Tra i coniugi che in tal modo soddisfano alla missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un gran numero di figli da educare convenientemente» (n. 50).
Il loro sforzo comune profuso per educare una famiglia numerosa contribuisce fortemente allo sviluppo di queste qualità, e ciò crea un clima propizio alla maturazione della stima e dell'ammirazione che deve regnare tra loro. Niente unisce più del sacrificio generosamente condiviso. Come insegna Giovanni Paolo II nell'esortazione apostolica Familiaris consortio, «non si può togliere il sacrificio della vita familiare, anzi lo si deve accettare di cuore, perché l'amore coniugale si approfondisca e diventi fonte di intima gioia» (n. 34).
Nel matrimonio ogni coniuge deve migliorare come persona, se vuole alimentare l'amore dell'altro. È bene pertanto — anzi, è essenziale — che ognuno si sacrifichi per l'altro. Ma è improbabile che un marito o una moglie possa, da solo, muovere con costante efficacia l'altro coniuge alla generosità e alla dimenticanza di sé. I figli, invece, lo possono, e normalmente suscitano nei genitori un grado di sacrificio al quale probabilmente nessuno dei due, da solo, saprebbe condurre l'altro: è più facile che una persona si superi per il proprio figlio. Quello di un padre o di una madre è il tipo di amore più disinteressato che esista. Ciascun coniuge, sacrificandosi per i figli, di fatto migliora e diviene, agli occhi dell'altro coniuge, ancor più meritevole d'amore. «Per i propri figli» — ha scritto Jean Leclercq — «i genitori superano sé stessi e una visione limitata della propria felicità. La statura morale si acquisisce solo se ci si supera, e sono soprattutto i figli che stimolano i genitori a tale grandezza» (Le mariage chrétien).
Per questi motivi non è esatto parlare della pianificazione familiare come di un diritto, ed è un errore considerarla un privilegio. Essa è piuttosto una privazione, ed è prevista in casi eccezionali per quelle coppie che, per motivi gravi — per forza maggiore —, sono obbligate a privarsi della gioia e del valore dei figli: gioia che li realizza e valore che li arricchisce. Quei coniugi che in assenza di questa forza maggiore preferiscono non avere più figli, stanno privando il loro amore coniugale del suo frutto naturale e ne impediscono la crescita.
Essi stanno indebolendo la vicendevole disponibilità al sacrificio, e ciò conduce inesorabilmente a una diminuzione della stima reciproca che li tiene uniti.
I figli & l'autorealizzazione
I rapporti sessuali aperti alla vita sono la naturale espressione dell'amore tra i coniugi, e i soli che realmente soddisfanno l'istinto «coniugale». Consigliare o incoraggiare le persone sposate ad astenersi da tali rapporti quando non esistono seri motivi, significa sottoporre la stabilità della loro vita coniugale a uno stress innecessario e ingiustificato.
L'istinto coniugale che conduce le persone al matrimonio non è una mera pulsione sessuale, ne può essere appagato esclusivamente dalla compagnia dell'amore del coniuge, ma reclama il frutto di questo amore. In altre parole, l'uomo e la donna sono mossi al matrimonio anche da un profondo anelito di paternità e maternità. In una catechesi prematrimoniale ben condotta non è per nulla difficile aiutare i fidanzati a comprendere che l'avere figli non si oppone affatto all'autorealizzazione, ma che è anzi una delle espressioni naturali più basilari del desiderio umano di realizzarsi. Non corriamo forse il pericolo, oggi, di sminuire il privilegio e la dimensione personalistica della paternità? Si ha l'impressione che la pianificazione familiare negli ultimi decenni non sia stata sempre presentata secondo la linea del vero personalismo coniugale evidenziato dall'ultimo Concilio. Molte iniziative assunte per diffondere la pianificazione familiare non hanno praticamente tenuto conto dei «seri motivi» che soli la giustificano e — a un livello più profondo — sembrano essersi dimenticate dell'aspetto privativo che essa implica. Più che come un ricorso straordinario cui sono costretti quei coniugi che si trovano in una situazione particolarmente difficile, la pianificazione viene presentata come una regola da seguire, e addirittura — così parrebbe — come una formula per ottenere la felicità, e persino come un ideale per la coppia cattolica. Ciò costituisce un impoverimento della concezione cristiana del matrimonio e del modo in cui realmente l'unione coniugale «realizza» e rende felici le persone. Sarebbe un grave errore favorire la pianificazione familiare in casi in cui non è necessaria, o dove un senso più sano dei valori vi oppone resistenza. Alcuni anni fa venne a trovarmi una signora per chiedermi informazioni su come pianificare la propria famiglia; aveva trentacinque anni e quattro figli. Le dissi che avrei potuto consigliarle un medico cattolico di buon criterio; notando però il suo aspetto sano, le chiesi se avesse qualche problema medico particolare. «No», mi rispose, «ma tutte le mie amiche mi dicono che quattro figli sono sufficienti».
Notando che era ben vestita, le chiesi informazioni sulla sua situazione economica familiare: non c'erano problemi. Allora le domandai perché avesse tanto desiderio di pianificare la sua famiglia. «Beh», mi disse, «non sono tanto io, quanto le mie amiche...». «Ma lei vuole avere altri figli?». Le brillarono gli occhi. «Oh, sì che li voglio. Ma lei comprende... Le mie amiche...». «Dimentichi le sue amiche», le dissi, «e coraggio! Abbia più figli, se è quello che vuole». Si dimostrò sollevata: finalmente qualcuno le aveva detto che non faceva alcun male a volere altri figli, a seguire il suo istinto naturale verso la maternità, che era anche un istinto di generosità.
Non metto certamente in dubbio la validità della pianificazione familiare naturale, ne l'importanza che quelle coppie che si trovano in una situazione di reale necessità possano conoscerla adeguatamente, ma sono del parere che una campagna volta a presentarla indiscriminatamente come qualcosa di «normale» per la vita coniugale produrrà come unico risultato quello di impedire la naturale crescita dell'amore tra i coniugi, e di creare ostacoli alla loro generosità, alla stima reciproca e al raggiungimento della felicità nel matrimonio.
Il bene dei coniugi
La crisi nella quale versa oggi il matrimonio ha coinciso con la visione dualistica che vorrebbe vedere l'aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità coniugale come connessi solo accidentalmente, di modo che (per esempio con l'uso dei contraccettivi) si possa «separare» —o, meglio, eliminare — dall'unione coniugale fisica il suo aspetto procreativo, senza che ciò intacchi minimamente la capacità dell'atto coniugale di esprimere pienamente l'unione degli sposi.
Più di vent'anni fa la Chiesa respinse esplicitamente questa tesi, ribadendo la «connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (enc. Humanae vitae, n. 12).
Gli sforzi compiuti negli ultimi due decenni, e soprattutto la filosofia personalistica del matrimonio presente nel magistero di Giovanni Paolo II, stanno aiutando a comprendere in modo adeguato e positivo questa dottrina dell'Humanae vitae. È auspicabile che si riesca a evitare un simile dualismo sui fini del matrimonio anche in virtù della riformulazione operata dal nuovo Codice di Diritto Canonico, il quale afferma che la comunità di vita stabilita dal patto matrimoniale è «per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole» (can. 1055).
Il «bene dei coniugi», nella concezione cristiana, non può consistere principalmente nel loro benessere materiale; esso risiede piuttosto essenzialmente nella loro maturazione in Cristo: nella loro «reciproca formazione interiore», secondo le parole dell'enciclica Casti connubii del papa Pio XI; nel loro «impegno costante per aiutarsi reciprocamente nel cammino verso la perfezione» che l'enciclica ha descritto come un motivo principale del matrimonio inteso nel senso personalistico di «comunione di vita». Nella raccolta ufficiale delle fonti del nuovo Codice di Diritto Canonico (Libreria Editrice Vaticana 1989) si segnalano, in riferimento al ricordato canone 1055, la Gaudium et spes e i nn. 11 e 41 della Lumen gentium. Nella Gaudium et spes si parla infatti della crescita umana e soprannaturale dei coniugi: «l'uomo e la donna, che per il patto di amore coniugale "non sono più due ma una sola carne" (Mt 19, 6), prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, esperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la raggiungono. [...] Compiendo in forza di tale sacramento il loro dovere coniugale e familiare [...] tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione» (n. 48). La Lumen gentium, in particolare al n. 11, insiste sull'aspetto soprannaturale di questa realtà: «I coniugi cristiani [...] si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale, nell'accettazione e nell'educazione della prole». Similmente dovrebbe intendersi quel passaggio della Gaudium et spes dove si afferma che i figli «contribuiscono moltissimo al bene degli stessi genitori» (n. 50). I figli arricchiscono la vita dei loro genitori in molti modi, e specialmente con la generosa donazione che stimolano in loro.
Un vincolo di unione
Ho l'impressione che negli ultimi decenni la catechesi sul matrimonio non abbia seguito sempre il vero personalismo espresso dal Concilio Vaticano II. Si è permesso, infatti, che molti coniugi cristiani assorbissero la filosofia laicistica dominante, secondo la quale uno o due figli possono essere un aiuto per la felicità di una coppia, ma tre è già un numero pericoloso, e più di tre quasi sicuramente un attentato a tale felicità.
Questa visione, che in definitiva suppone una contrapposizione tra i figli e il bene degli sposi, tende di fatto a minare la naturale unità tra i differenti aspetti del matrimonio. L'alternativa che essa prospetta implica un contrasto radialmente falso: il matrimonio considerato come o procreativo o personalista. Di conseguenza, le prospettive sarebbero queste: o più figli, e quindi più oneri, più impegni, e pertanto meno amore, meno felicità, meno allegria; oppure meno figli, e meno oneri, e pertanto un amore più forte e una felicità più duratura.
Questa contrapposizione è doppiamente falsa, poiché da un lato presenta la felicità come una meta che può essere raggiunta senza sacrificio, e dall'altro coarta e frustra il desiderio naturale di figli — presente nell'istinto coniugale — che trasforma la mera sessualità in una componente determinante per l'autentica autorealizzazione. Questo falso conflitto può essere rimosso solo se si considera il «bene dei coniugi» in termini non esclusivamente materialistici o economici, ma secondo una scala di valori autenticamente cristiani e quindi realmente umani. Il matrimonio tende al bene degli sposi perché, proiettandoli fuori da sé stessi, avvicina l'uno all'altro ed entrambi i figli. Lo sforzo e il sacrificio che questa autodonazione implica sono prova di amore e nello stesso tempo condizione per la sua effettiva crescita. Il Signore stesso ci dice che è attraverso questo cammino di generosità che si giunge alla pienezza della vita e alla felicità: è più bello dare che ricevere; chi perde la propria vita la troverà.
In ogni figlio i coniugi — co-creatori con Dio — si scambiano reciprocamente il dono singolarissimo dell'amore: carne che nasce dall'unione della loro carne. Nient'altro può cementare così stabilmente un matrimonio. Ciascun figlio rappresenta un vincolo di unione creato dall'amore che i suoi genitori si sono dimostrati, che permane anche quando quell'attrazione sentimentale dei primi tempi sembra essersi dissolta per sempre. Non di rado sono i figli il legame che tiene uniti i genitori, nonostante le contrarietà causate dalle debolezze o dall'egoismo. Ed è l'assenza di figli — o, più esattamente, il rifiuto dei figli — ciò che può separare i coniugi. «Non vogliamo un altro figlio» è lo stesso che dire «non vogliamo un altro vincolo di unione; ne abbiamo già due». Ma due possono essere insufficienti per mantenere l'unione del matrimonio. La pianificazione familiare naturale è stata certo di grande aiuto per quelle coppie che ne hanno reale necessità. Ma trasformarla in norma o in «ideale» per quelle che non ne hanno bisogno contribuisce solo a incrementare il numero di focolari innecessariamente privi di quel «dono supremo» dei figli che, come ricordavamo col magistero del Concilio Vaticano II, con tanto vigore contribuisce al bene dei coniugi, arricchendo le loro vite e rinforzando il loro amore sponsale.
Crisi di vocazioni
Al fenomeno della pianificazione familiare è connesso un ulteriore problema, non meno serio: la diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, che è divenuta una delle emergenze più gravi per la Chiesa. Il numero degli operai — in una messe ogni giorno più vasta — è diminuito in maniera drastica, perlomeno nei Paesi occidentali, dove le ordinazioni annuali sono attualmente ridotte a un decimo, o ancora meno, rispetto a quella della scorsa generazione.
Vengono individuati vari fattori per spiegare il fenomeno. Alcuni, per esempio, si richiamano alla «crisi di identità» dei sacerdoti e dei religiosi; secondo questa tesi nella passata generazione la vocazione traeva quasi sempre origine dall'ammirazione dell'adolescente nei confronti di un sacerdote o di una suora la cui vita di dedizione era evidentemente felice e piena di significato. Dal momento che oggi alcuni sacerdoti e religiose non riescono a trasmettere la stessa sensazione di pienezza e di gioia, è logico che i giovani si sentano meno attratti a donare la propria vita al servizio di Dio. Altri attribuiscono l'origine del fenomeno al diffondersi del materialismo e della mentalità consumistica, o al generale declino della pietà tra i fedeli. Quale che sia la verità di tali affermazioni, ritengo che la spiegazione più profonda vada però cercata ancora una volta nell'ambiente familiare dal quale normalmente le vocazioni procedono.
È soprattutto dai genitori, e dal clima di famiglia che essi hanno saputo creare, che i giovani assimilano i valori più profondi. È la famiglia il naturale terreno di coltura delle qualità fondamentali che favoriscono lo sbocciare di una vocazione: la fede, la pietà personale, la fiducia in Dio, la preoccupazione per gli altri, la lealtà, la generosità, la pronta disponibilità al sacrificio. «Prevenuti dall'esempio dei genitori e dalla preghiera in famiglia», insegna ancora la Gaudium et spes, «i figli troveranno più facilmente la strada della formazione umana, della salvezza e della santità» (n. 48). È evidente che nel corso degli ultimi trent'anni si sono verificati molti cambiamenti nella vita familiare: fra i più importanti si segnala l'indebolimento dell'unità della famiglia, che suole essere il primo requisito per la nascita di una vocazione. In questo scorcio di secolo il numero di focolari distrutti dal divorzio e dagli annullamenti è aumentato enormemente, e il fiorire di una vocazione di totale donazione a Dio in una famiglia divisa è un'eccezione. Un vescovo o un superiore religioso tendono a essere poco propensi ad accettare aspiranti al sacerdozio che provengono da famiglie con genitori separati, anche perché l'esperienza ha insegnato che in questi casi è particolarmente difficile vivere la perseveranza.
I cambiamenti della famiglia stabile
Ma la crisi di vocazioni non trova una spiegazione sufficiente nell'odierna diminuzione di famiglie unite: dopotutto, il numero di famiglie relativamente stabili, pur se ridotto alla metà o a un terzo rispetto alla generazione passata, continua a essere considerevole. Come mai non si può contare su una percentuale equivalente di vocazioni? Che cosa è cambiato all'interno delle famiglie stabili?
Da un lato si è affievolito lo spirito di sacrificio verso gli altri. Dall'altro, e soprattutto, è diminuita la fiducia in Dio, come conseguenza logica della pianificazione familiare praticata senza serie ragioni. Ciò che è cambiato, in realtà, è il posto che si da a Dio negli orizzonti e nella vita familiare. Oggi i genitori lavorano altrettanto o forse più di quanto avvenisse trent'anni fa; i loro figli, tuttavia, non traggono un'impressione di generosità e di preoccupazione per gli altri a fronte di tanto sforzo e sacrificio: la motivazione che spesso essi scoprono sembra piuttosto la preoccupazione per la propria immagine e il proprio io. Uno spirito di sacrificio che non sia veramente centrato sugli altri non susciterà disposizioni d'animo generose: la dimenticanza di sé al servizio di qualcosa di più importante di sé — «perdere» la propria vita per il Vangelo — è una disposizione necessaria, se deve sbocciare una vocazione. Se un adolescente non apprende questa generosità nel focolare domestico, è improbabile che lo faccia altrove.
Il terreno adatto per l'assimilazione dei valori cristiani si crea soltanto quando i figli sentono che, agli occhi dei propri genitori, loro sono più importanti del denaro, del riposo, della vita sociale, della carriera e dell'ambizione professionale. Ebbene, ciò che desidero considerare in modo particolare è proprio la possibile connessione tra la presente crisi vocazionale e la scomparsa pressoché totale, in Occidente, della famiglia numerosa.
C'è da augurarsi che sia ormai definitivamente superata la tendenza a classificare negativamente le famiglie numerose come «incidenti biologici»: nella passata generazione i genitori con molti figli erano perfettamente consapevoli dell'esistenza dei diversi metodi contraccettivi all'epoca conosciuti, e anche della possibilità di ricorrere ai periodi infecondi; il fatto che essi non utilizzassero tali sistemi non costituiva affatto un incidente biologico, ma nasceva dalla libera decisione di avere una famiglia numerosa: quella stessa decisione che Paolo VI, nella Humanae vitae (cfr n. 10), definì «primaria» tra i vari modi di vivere responsabilmente la paternità.
Scuola di generosità
Mi sembra pertanto corretto affermare che fino agli anni Sessanta era questo il modo di intendere il matrimonio, e il modo di affrontarlo proprio dei cattolici. Inoltre — e quasi tutti i parroci potrebbero testimoniarlo — era un'impostazione vissuta con la massima naturalezza da molte coppie che, in fondo, avevano lasciato nelle mani di Dio la pianificazione del loro matrimonio. Il ricorso al metodo Ogino-Knaus era considerato come qualcosa di eccezionale che, in linea con l'insegnamento della Chiesa, era giustificato soltanto in presenza di gravi motivi, normalmente di natura medica o economica.
Non si tratta di una coincidenza fortuita se molte vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa provenivano da famiglie numerose, che costituivano autentiche scuole di generosità. L'atmosfera liberale — del dare e del ricevere — che necessariamente caratterizza la convivenza familiare di molti fratelli, insegna a vivere la generosità e la preoccupazione per gli altri, in un modo che rimane sconosciuto al figlio unico o al ragazzo o ragazza che ha un solo fratello o una sola sorella. L'adolescente di trent'anni fa, crescendo in una famiglia siffatta, si rendeva gradualmente conto dei sacrifici che i genitori avevano fatto per sostenerla. Spesso poteva fare un confronto tra la propria situazione familiare e quella di altre famiglie vicine meno numerose, e comprendere che se la sua famiglia godeva di meno vantaggi materiali rispetto alle altre, ciò era dovuto al fatto che i suoi genitori avevano deliberatamente preferito avere figli piuttosto che comodità. In tale famiglie era inoltre meno probabile che i genitori ponessero ostacoli, sulla base di interessi «economici» familiari, all'idea che uno dei figli «sacrificasse» la vita per Dio. Se i genitori avessero avuto aspirazioni diverse per i propri figli, restavano sempre altri fratelli o sorelle che avrebbero potuto realizzarle. Ma naturalmente i fattori che entravano in gioco erano di solito più profondi. Normalmente i genitori reagivano positivamente alla vocazione di un figlio, e spesso erano loro stessi i primi a incoraggiarla. Essi erano ben disposti all'idea della donazione della vita a Dio, poiché già le loro esistenze erano fermamente messe nelle mani di Dio.
Oggi, a trent'anni da allora, sono rare le famiglie numerose, mentre i metodi naturali di pianificazione familiare si sono diffusi ampiamente tra i fedeli, compresi i «cattolici praticanti». Esiste quindi qualche elemento per stabilire una relazione tra la pianificazione familiare e la diminuzione delle vocazioni? Se c'è, occorre allora esaminarla con serenità.
La pianificazione familiare porta ovviamente a famiglie di minore dimensione, innescando così un «fattore numerico» ostile alle vocazioni. Ma questa è una considerazione che affronta solo superficialmente la questione.
La vera ragione è che la pianificazione familiare naturale praticata quando non esistono seri motivi per farlo agisce potentemente nella linea dei due fattori di cui abbiamo parlato poc'anzi: da un lato è spesso la conseguenza di una mancanza di spirito di sacrificio, o dell'averlo orientato verso la sola autoaffermazione personale o il comfort materiale; dall'altro — ed è questa la considerazione di maggior peso —, tale pianificazione implica un netto atteggiamento di sfiducia nei confronti della provvidenza divina.
I figli & il livello di vita
Durante gli ultimi due decenni la decisione di molte tre figli ha risposto sempre meno al timore di eventuali difficoltà eccezionali — derivanti da una famiglia numerosa —, e sempre più invece al semplice desiderio di evitare le normali difficoltà che essa comporta. Di conseguenza è maturato un cambiamento radicale nel modo di intendere il matrimonio e la famiglia. La concezione autenticamente umana della vita è andata sempre più perdendosi, ed è stata rimpiazzata da una concezione sempre più schiettamente materialistica.
Ci si sacrifica per quelle cose per le quali si è convinti che valga la pena: il problema è che sembrano esserci sempre meno coppie che considerano i figli — più di uno o al massimo due — come qualcosa che valga veramente la pena. Le automobili, la casa in campagna, le vacanze all'estero...; tutto questo determina oggi il livello di vita e vale la pena di sacrificarsi per ottenerlo; i figli, invece, non hanno parte nel livello di vita; una famiglia non è considerata più «agiata» se ha più figli. È evidente che quanti ragionano in questo modo 10 fanno sulla base di criteri materialistici, e non cristiani.
Nella passata generazione la maggioranza dei cattolici non avrebbe avuto difficoltà a comprendere la profonda verità umana contenuta nelle parole che il Papa rivolse ai genitori, a Washington, nell'ottobre del 1979: «E minor male negare ai propri figli certe comodità e vantaggi materiali che privarli della presenza di fratelli e sorelle che potrebbero aiutarli a sviluppare la loro umanità e realizzare la bellezza della vita in ogni sua fase e in tutta la sua varietà» (Giovanni Paolo II, omelia al Capitol Mall, 7-10-1979). Oggi, invece, le coppie sposate sembrano avere difficoltà a rendersi conto che ogni figlio costituisce un valore tale, veramente unico, che privare sé stessi di altri figli e i propri figli di altri fratelli comporta una seria limitazione e un abbassamento del proprio livello di vita; e che, inoltre, lo sforzo e il sacrificio umano si svalutano, se si lavora soltanto per il comfort, per il prestigio o per possedere beni, piuttosto che per avere figli.
Una famiglia tutta preoccupata dal mero benessere materiale non costituisce certamente il miglior terreno per la nascita di una vocazione. Nei giovani è insito un naturale idealismo, che non viene favorito se vengono educati in un ambiente familiare superficiale: è quasi impossibile che un adolescente apprenda lo spirito di sacrificio se non proviene da una famiglia in cui esso sia stato presente, il che avviene solo se i genitori l'hanno vissuto per primi, per poi trasmetterlo ai figli. La mentalità consumistica che enfatizza tanto il possesso dei beni, il denaro, il calcolo utilitaristico, non favorisce le vocazioni. Dove la povertà in spirito è meno presente, i cuori sono meno attratti verso il servizio al Regno di Dio.
Fiducia in Dio
«Si sposano in tre»: era una descrizione adeguata del modo di concepire il matrimonio proprio di molti cattolici della scorsa generazione, per i quali esso consisteva in un'avventura i cui orizzonti erano determinati, in definitiva, da Dio. Felicità coniugale e volontà di Dio erano inseparabilmente connesse: la volontà di Dio presiedeva tutto, compreso il numero dei figli. È l'idea di essere cooperatore o «collaboratore di Dio» (cfr 1 Cor 3, 9) che da al cristiano la coscienza del significato fondamentale e della dignità dell'esistenza. I coniugi permeati di tale spirito sanno di essere «amministratori dei misteri divini» (1 Cor 4, 1), e che ciò implica non soltanto una responsabilità, ma anche un onore. Essi collaborano così a un disegno che trascende ogni dimensione e valutazione umana. Quando questo spirito è presente nei genitori, i figli lo apprendono quasi per osmosi, mentre quando questo viene meno è poco probabile che si sentano coinvolti personalmente dall'idea di imbarcarsi in un'avventura di fede e di generosità.
Senza dubbio vi sono altri fattori che hanno concorso a minare il senso soprannaturale della vita, ma la pianificazione familiare ha agito in un modo molto peculiare. Quando si pratica la pianificazione familiare non si accetta più incondizionatamente il piano divino sul matrimonio. Dio e la sua volontà vengono tenuti a debita distanza. L'idea «si sposano in tre» non è più presa sul serio. I cristiani iniziano ad adottare parametri propri del mondo secolarizzato, per cui il matrimonio tende a ridursi a una «faccenda a due». Pertanto non si considera e non si accetta più Dio, fin dall'inizio, come il «socio» più importante, e per giunta di maggiore esperienza.
Molte delle persone che si sposano oggigiorno hanno ancora la speranza di vedere il proprio matrimonio benedetto dalla felicità, ma sembrano non saper chiaramente come e da chi potrà venire questa benedizione. E se aspettano che venga da Dio, hanno molte riserve rispetto alle possibilità che egli voglia benedirli come figli. Desiderano essere loro, e non Dio, a decidere fino a che punto i figli possono essere considerati una benedizione.
Questa impostazione da luogo a un ambiente familiare piuttosto singolare rispetto all'ottica cristiana poiché, in definitiva, manifesta uno scetticismo radicale riguardo al principio secondo cui la vita va meglio se la mettiamo nelle mani di Dio, che è un'idea ormai rara tra le persone sposate. Così si finisce col programmare il proprio matrimonio nello stesso modo in cui si programmano le vacanze. In fin dei conti, quali sono i genitori che incoraggiano di più i propri figli ad avere fiducia in Dio: quelli che praticano una pianificazione familiare banalizzata ed egoistica, o quelli che accolgono con gratitudine i figli che Dio voglia donar loro?
Un giusto orgoglio
La vocazione al sacerdozio o alla vita religiosa esige una risposta generosa e totale a quello che appare come un disegno divino sulla nostra vita. Essa implica la libera scelta di un cammino difficile che rappresenta una sfida, ma anche un onore. Tempo addietro, quelle famiglie profondamente cattoliche alle quali facevamo prima riferimento erano consapevoli del grande privilegio che la vocazione di un figlio comporta. Ed era ciò che, in un caso concreto che ricordo, mosse una madre a protestare con i propri figli, quando apprese che un giovane di una famiglia vicina si era deciso a farsi sacerdote: «Nessuno di voi mi darà lo stesso motivo di orgoglio?». Un tale commento — pur nella sua connotazione troppo umana — rivela chiaramente una visione cristiana della vita che sovrasta quella materialistica o secolarizzata: esso esprime cioè la convinzione di una madre che il senso della vita è dato dalla provvidenza di Dio, e non dalla prudenza o dalla pianificazione umana delle cose.
Se una famiglia si permette che la fiducia nella provvidenza divenga meno, allora, tra le altre conseguenze, si smarrisce la capacità di vedere la volontà di Dio nelle difficoltà e nelle prove, vale a dire di leggerle come qualcosa di buono e positivo. Proprio questa capacità influisce molto sulla perseveranza di sacerdoti e seminaristi; non sono pochi, per esempio, quei sacerdoti che hanno maturato un'idea molto singolare rispetto a quello che il servizio di Dio e il servizio al suo popolo dovrebbero significare, e si sentono pertanto frustrati e scoraggiati se la realtà risulta diversa. Molto probabilmente essi sarebbero più forti interiormente se fossero stati educati in una famiglia disposta ad aspettare tutto dalle mani di Dio.
Il Terzo Mondo
Potremmo aggiungere un commento su come le considerazioni che abbiamo svolto si applichino alla realtà del Terzo Mondo. Non è facile stabilire il rapporto tra economia, demografia e felicità umana; alcuni economisti attribuiscono i mali economici dei Paesi in via di sviluppo all'esplosione demografica, mentre altri sostengono che una popolazione in forte crescita agisce come un fattore notevolmente a favore del progresso economico. Questa disputa, ancora aperta, interessa solo marginalmente la presente esposizione; vorrei piuttosto fare due considerazioni. Nel Terzo Mondo le famiglie sono normalmente più numerose, più povere, ma anche più felici di quelle occidentali.
Per la mentalità occidentale è difficile capire fino a che punto i popoli in via di sviluppo, e in modo particolare quelli africani, siano fermamente convinti che i figli costituiscono una benedizione. Per questo essi dimostrano un naturale rifiuto della pianificazione familiare. In secondo luogo, le vocazioni che in Occidente scarseggiano, abbondano invece nel Terzo Mondo. Tuttavia anche nei Paesi in via di sviluppo diversi organismi o enti ecclesiastici stanno promuovendo indiscriminatamente la pianificazione familiare, fomentando in tal modo quello stile di vita familiare che è connesso con la crisi di vocazioni in cui versa l'Occidente.
So per lunga esperienza come gli africani restano sorpresi quando personalità e organismi ecclesiastici (e non solamente istituzioni secolari) li incoraggiano in modo indiscriminato a praticare la pianificazione familiare. Risulta loro difficile conciliare la propria convinzione naturale secondo cui i figli sono la prima benedizione cui può aspirare una coppia sposata, con l'esortazione opposta che giunge loro accompagnata perfino dalla pretesa di essere fondata sul Vangelo. Tale esortazione causa a questa gente delle tensioni considerevoli per la loro fede e per la loro vita matrimoniale.
La realizzazione dell'ideale cristiano nel matrimonio, così come nel sacerdozio o nella vita religiosa, dipende dalla fede, dalla fiducia in quell'attenzione patema di Dio verso di noi, e dall'amorosa accettazione della sua volontà.
Quando gli sposi consultano un sacerdote o un religioso per avere un orientamento su questo tema, dovrebbe essere normale che si sentano incoraggiati a percorrere cammini di generosità; e in fondo è questo che essi si aspettano. Non è di alcun aiuto per la solidità e la felicità della loro vita familiare che essi vengano consigliati, senza seri motivi, a frustrare il desiderio naturale dei figli, affievolendo così la loro naturale disposizione alla generosità e al sacrificio. E ciò non promette bene neppure per la soluzione della crisi delle vocazioni.