Un film di fantascienza di qualche anno fa raccontava la storia di un gruppo di scienziati imbarcati in un sottomarino che — ridotto a dimensioni microscopiche — veniva iniettato nel sistema circolatorio di un genio, con la missione di attraversare il suo cuore ed esplorarne il cervello.
Direi che in questa storia si possa ravvisare una certa analogia col ruolo del teologo. La sua missione è di esplorare la mente di Gesù Cristo. Per questo è importante che navighi nel sangue del Signore — si immerga nella sua vita che pulsa attraverso i secoli —, passi per il suo Cuore e giunga così alla sua Mente.
È particolarmente importante ai fini del suo compito che il teologo si faccia piccolo; o meglio, dato che siamo tutti piccolissimi se paragonati a Cristo, che sia ben cosciente della sua esigua statura in rapporto al compito che si è assunto. Alice — diceva Chesterton — deve farsi piccola se vuole entrare nel Paese delle Meraviglie. Il teologo è Alice, e la rivelazione della mente e del cuore di Cristo è il Paese delle Meraviglie. Il teologo incapace di stupirsi innanzi alle meraviglie che cerca di contemplare non ha l'umiltà essenziale per fare teologia. Anche il teologo più brillante lavora sempre in un campo che supera infinitamente le proprie capacità mentali. Se i suoi talenti — per grandi che siano — devono dar frutto, è necessario che ascolti il divino invito che risuona continuamente alle sue orecchie: «Entra nella mente del tuo Maestro» (cfr Mt 25,21). Dovrebbero risuonargli queste parole non già come premio meritato, ma come urgente appello a un'umile responsabilità.
Pensare con Cristo
Nel capitolo 14 abbiamo ricordato i punti di riferimento infallibili della scienza teologica — la Rivelazione e il Magistero — e lo strumento fallibile col quale bisogna sviluppare il pensiero umano, la mente dell'uomo.
Il teologo che nella Rivelazione e nel Magistero ravvisa delle restrizioni esterne imposte alla sua mente, può combattere molte battaglie a favore del dissenso, scalciando continuamente contro il pungolo, ma renderà un ben misero servizio alla vera teologia cristiana.
Attingerà l'unità della visione teologica e il senso della libertà teologica solamente se, vedendo la Rivelazione e il Magistero dentro la mente di Cristo, anch'egli situerà li la propria mente.
Il pensiero teologico non si sviluppa pensando da soli, ma pensando con Cristo. La visione cattolica della teologia è quella di molte menti che pensano dentro un'unica Mente. Si comprende come i teologi veramente grandi siano stati santi. Per conseguire la santità è infatti necessario che una persona pensi coi pensieri di Cristo. Quanto più è unito a Cristo, tanto più il teologo può dire: «Penso, ma non sono io che penso: è Cristo che pensa in me e attraverso di me, e sono io che penso in Cristo e per suo mezzo» (cfr Gai 2,20).
Compito del teologo non è di adeguare la mente di Cristo alla propria, ma di adeguare il suo pensiero a quello di Cristo. In fin dei conti, la mente di Cristo, nostro Signore e Maestro, è la mente teologica di tutti i tempi. Cristo è necessariamente il teologo "numero uno" della Chiesa: il pensiero cattolico fluisce dalla Tradizione cattolica, da Cristo. Non vi è da scoprire nessuna nuova fonte del pensiero cristiano alla quale non si sia mai attinto; la fonte di tutto il pensiero cristiano è in Cristo e, attraverso di lui, nel Padre. Nessun teologo, pertanto, insegna una dottrina "originale", nel senso di produrre qualcosa di nuovo, non derivato e totalmente suo. Ben più di Cristo, deve dire: «La mia dottrina non è mia...» (Gv 7,16).
Quando il teologo inizia il suo "viaggio fantastico", si accorge che la Mente su cui indaga — infinitamente più ampia e profonda della sua — è inondata di luce. Le aree principali sono intensamente illuminate — per forma, contenuto e definizione cristalline — benché, come è logico, la mente di ogni osservatore possa sempre riflettere questa beltà e verità secondo nuove modalità. Vi sono certamente angoli o recessi di questa Mente pieni di ulteriori ricchezze, pur se non siamo ancora riusciti a vederli con chiarezza; esplorarli è dunque un desiderio ben comprensibile. Il compito del teologo, con l'aiuto della grazia, è di proiettare la luce di Cristo fin nei più nascosti anfratti.
È un punto che merita approfondire. Solo in senso relativo e secondario la teologia cristiana è opera del teologo cristiano; primariamente è opera di Cristo stesso. La teologia è per l'appunto un tentativo di illuminare la Rivelazione divina, di proiettarvi nuova luce; ma questa luce non proviene tanto dalla mente del teologo quanto dalla mente di Cristo. La luce della teologia è realmente il lumen Christi: la luce emana da lui. «Alla tua luce vediamo la luce» (Sai 35,10). Questo significa l'umile, ma glorioso compito del teologo: raccogliere la luce di Cristo in tutte le sue fonti, avvolgersi in essa e rifletterla su altre aree della mente di Cristo al fine di illuminare il popolo di Dio [1].
La teologia richiede comunione
Immagini come queste — che esprimono profonde verità — possono meglio chiarire perché tanti tentativi teologici contemporanei che propongono una teologia "originale" o "indipendente", ai margini della Tradizione e del Magistero, non sono affatto teologia. La teologia è uno sforzo congiunto, una ricerca in comune, una partecipazione gioiosa. La teologia può esser fatta solo in comunione: in comunione di fede, in unione con la Chiesa, con la mente di Cristo, fruendo della luce di quella Mente così come viene riflessa e riverberata dalle menti di tutti coloro che, durante i secoli, sono stati partecipi della fede.
Alcuni scrittori preferiscono oggi parlare di "teologie" piuttosto che di teologia. Il plurale è ammissibile purché significhi che, nel mentre c'è una sola fede (cfr Ef 4,5) e una sola Rivelazione, possono esservi, parecchi tentativi umani per cercare di comprendere quella fede. Ma tutte le vere teologie sono collegate a un centro comune, e dunque tra di loro. Tutti gli approcci teologici corretti sono come funi che, a modo di tiranti, assicurano l'edificio della verità da diverse direzioni; ma il pilastro centrale intorno al quale è costruito l'edificio — la struttura altissima della Rivelazione — ha supporto proprio e propria forza stabilizzante: la presenza di Cristo nel Magistero.
Nel capitolo precedente abbiamo esaminato criticamente l'atteggiamento di chi afferma che "dopotutto, il cattolico non è vincolato da nessun insegnamento che non sia formalmente definito". Questo atteggiamento di riserva è oggi abbastanza frequente. I molti tentativi per presentarlo come una nobile rivendicazione fatta in nome della dignità e dei diritti personali non può mascherarne il carattere difensivo e negativo, nonché l'essenziale suo individualismo. Ad ogni modo, la critica definitiva di questo atteggiamento deve farsi dal punto di vista ecclesiologico: anche se forse può essere difeso in termini di stretti diritti e doveri giuridici è del tutto indifendibile in termini di communio, il tema centrale del Concilio Vaticano II.
Communio significa partecipazione alla vita di Cristo; non io solo con Cristo, che sarebbe ancora una partecipazione individualistica; ma io, unitamente agli altri, in Cristo, attraverso la sua Chiesa: è questa l'autentica partecipazione cattolica. Comunione nei sacramenti, nella disciplina e nella fede dell'unica Chiesa: quella di tutti i secoli. La mancanza di comunione con le epoche precedenti è mancanza di comunione con Cristo, che "è lo stesso ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8). Se non riesco a condividere la fede di ieri, allora la mia fede di oggi può essere diversa domani, e non è certamente la fede di sempre, quella che ci è stata trasmessa dagli apostoli.
Nei primi capitoli abbiamo visto come lo spirito di communio e lo spirito individualistico siano tra loro opposti e reciprocamente si escludano. Se questo è vero sul terreno sociologico, lo è ancor più nell'ambito del pensiero teologico.
Lo sviluppo e la pienezza della teologia si attingono nella comunione, non nell'isolamento. La ricerca teologica, nello spirito della communio, è una ricerca dei princìpi e delle verità comuni che mi vincolano agli altri in Cristo. Il pensatore solitario che non segue altra direttiva che la propria mente, è portato dal suo pensiero a un isolamento e solitudine maggiori. Il pensatore in sintonia con la mente di Cristo nella Chiesa non è mai solo; è in comunione con Cristo e con tutta la comunità dei fedeli che sono vissuti, hanno pensato e hanno creduto come fratelli fin dai tempi apostolici.
Quanto scarso desiderio di fraternità e di comunione si manifesta nell'atteggiamento di chi dice: «Non sono obbligato a condividere i punti di vista degli altri»! Forse non lo sono effettivamente, ma è un vero peccato che non riesca a farlo, che non sia capace di stabilire almeno un vincolo di reciproca e vitale sopportazione tra i loro punti di vista e i miei. Se le loro opinioni e quelle mie sono cristiane, il legame è allora in Cristo: cerchiamolo e rafforziamolo. In tal maniera pensiamo in comunione, e ci consideriamo entro la comunione. Diversamente, pensiamo fuori della comunione: optiamo per quel processo di "autoscomunica" cui abbiamo accennato in precedenza [2].
Ne segue che una critica seria da muovere a quei teologi contemporanei che "fanno guerra" al Magistero, al Papa e ai vescovi, è quella di superficialità. Non ragionano sulle cose in profondità; non soppesano, o certamente non presentano al pubblico le effettive conclusioni. Siano o no consapevoli, non affrontano il loro vero problema.
Gli appelli alla "libertà" intellettuale o accademica, e le proteste per i procedimenti "inquisitoriali", servono solo da cortina fumogena che nasconde al pubblico, e forse a sé stessi, ciò che realmente è in gioco nella battaglia ingaggiata nelle loro menti e nei loro cuori; una battaglia che minaccia di trasformare la loro fede cattolica e quella degli altri in una terra desolata.
Se pensano di combattere una giusta battaglia contro una mentalità centralistica sorpassata, contro un autoritarismo romano o episcopale, non hanno la chiara percezione di ciò che stanno combattendo: non si tratta di lotta contro una burocrazia, ma di lotta contro la fede di sempre; non combattono contro una mentalità, ma contro la mente di Cristo.
Tutti possiamo essere tentati di lottare contro quella Mente, come fece Giacobbe con l'angelo (cfr Gn 32,26); ma il nostro Avversario — che in realtà sta cercando in ogni modo di essere nostro Alleato, se glielo permettiamo — è più grande e più forte dell'angelo di Giacobbe. Possiamo venir tentati dal desiderio di sopraffare quella Mente e di trarla dalla nostra parte e verso le nostre opinioni, mentre al contrario dovremmo noi esserne attratti. Può accadere di voler condividere quella Mente secondo le nostre condizioni — detto altrimenti, di subordinarla al nostro intelletto — e invece la possiamo condividere solo alle condizioni di Cristo.
Quanto detto, benché riferito in particolare al teologo, si applica ovviamente a tutti i cristiani. Tutti ci troviamo a fronteggiare e a dover vincere la peggiore tentazione: la superbia. E forse questo peccato ha la sua maggior espressione nel rifiuto di aprire la propria mente alla mente della Chiesa, alla mente di Cristo. Il cristiano non troppo superbo, così da pensare con la mente di Cristo, entra nel vasto Paese delle Meraviglie dei credi, dei simboli e dei dogmi con le loro infinite prospettive (il dogma, è stato detto, non è un muro che ci impedisca di vedere, ma una finestra che apre la nostra visione verso l'infinito), dove le verità sono a un tempo certe e grandi.
Coloro che, nella loro umiltà, preferiscono essere sempre incerti sulla verità o sul valore di qualche punto della dottrina cristiana, rimangano pure nella loro umiltà. Nella mia superbia, credo che Cristo mi ha offerto la sua Mente, tramite la sua Chiesa. Sono certo che l'offerta vale la pena, e voglio accettarla. Preferisco la mia superbia e la mia certezza.
Mi rendo ben conto che alcune persone, senza loro colpa, non attingono mai la certezza. Meritano certo compassione, ma preferire l'incertezza è un fatto patologico. Non necessita di compassione, ma di cura. Come Newman, ritengo che "la certezza è uno stato naturale e normale della mente, e non (come talvolta viene obiettato) una delle sue stravaganze" [3].
New York e la teologia
Ho sempre pensato che una visita a New York possa essere una grande esperienza teologica; si vive meglio questa scienza accanto al World Trade Center, con le sue due torri gemelle alte più di 400 metri: fanno venire le vertigini. Non occorre andare sulla sommità e guardare verso il basso; basta stare ai piedi di una delle torri, e guardare in alto: quei 400 metri che s'innalzano in una lunga linea fanno girare la testa.
Orbene, questo piccolo esempio può servire per illustrare in qualche modo l'effetto che la mera idea di Dio dovrebbe suscitare in noi. Dovrebbe darci le vertigini; e finché non succede non possediamo neppure i rudimenti di una visione teologica.
Dio è molto più alto di quattrocento metri o di quattrocento milioni di metri. E tuttavia, a volte pensiamo di averlo misurato, ritratto o impacchettato; in tal caso, naturalmente, non è affatto Dio a occupare i nostri pensieri. «Credo in Dio, fino a un certo punto», mi disse un giorno qualcuno. È impossibile farlo; o se è così, non è in Dio che si crede. Se si crede in Dio, si è allora nel regno dell'infinito, totalmente al di fuori della nostra portata. Chi pensasse che la sua teologia abbia decifrato tutto, penserebbe in termini finiti e non assumerebbe affatto un corretto atteggiamento teologico.
Alcuni teologi sembrano considerare la loro scienza come un territorio che si possa dominare; ma sbagliano: nessuno di noi può mai dominare la teologia. Non siamo alti abbastanza da raggiungere le altezze della mente di Dio. Rispetto a lui siamo tutti nani. In teologia non è sufficiente guardare al proprio limitato tema. Occorre guardare in su, e ben in alto (se per lo sforzo ci fa male il collo, tanto meglio: è segno probabilmente che era molto irrigidito e quel movimento ci giova). Quei teologi hanno appunto urgente bisogno di un corso di aggiornamento teologico fatto essenzialmente di esercizi che addestrino a innalzare la mente: «Non cominciare a scrivere o persino pensare intorno a Dio, alla fede o alla Chiesa finché non avrai guardato in alto. Ecco, va bene, ma ancora più in alto. Cominci ad avere le vertigini? Benissimo. Adesso puoi iniziare a fare teologia».
Il teologo non deve mai assuefarsi al proprio compito. Deve tenersi in esercizio con le vertigini, in modo da non perdere mai di vista l'altezza e la profondità che cerca di esplorare.
Tutte le tematiche teologiche — la Rivelazione, la Chiesa, il papato, i sacramenti... — partecipano in qualche modo dell'infinitezza di Dio, di una sacralità che dovrebbe intimorire la nostra mente. Quando ci avventuriamo sul terreno teologico calpestiamo pur sempre un suolo sacro, e dobbiamo scoprirci il capo e toglierci i calzari perché siamo di continuo alla presenza di Dio (cfr Es 3,5).
È possibile esplorare la mente di Cristo, ma non misurarla ne decifrarla. La mente di Cristo permane in tutta l'estensione, lo splendore e la potenza. Il nostro intelletto limitato è tenuto a penetrare la sua mente infinita e a riempirsi di stupore e di meraviglia. Quanto più ci meravigliamo e apriamo la nostra mente a quella di Cristo, tanto più il Signore si degnerà di consentire alla nostra mente di intravedere qualcosa dei segreti riposti nella sua.
Non dobbiamo forzare l'accesso alla mente di Cristo; dobbiamo entrarvi per la porta dell'umiltà. E dobbiamo disporre della chiave che ci consente di entrare in quel regno, una chiave che è stata affidata al Magistero.
Comunione e potere
La comunione con la mente di Cristo è la condizione per ricevere e trasmettere ad altri la verità di Cristo in tutto il suo potere.
Gli apostoli sono stati consapevoli del potere con cui Cristo li ha mandati a predicare il suo messaggio di salvezza (cfr Mt 28,18). Analogamente, la nostra missione evangelizzatrice può avere oggi il medesimo potere solo se abbiamo coscienza di essere inviati dal Signore a predicare il messaggio cristiano.
«Lo stesso messaggio? Un messaggio che è sempre lo stesso?...-». A certe orecchie moderne queste parole suonano monotone, prive d'efficacia. Qualcosa che permane sempre la medesima è a loro giudizio atrofica e statica.
Come possa atrofizzare la comunione con la verità di Cristo ed essere statica la comunione con la sua Mente e il suo Cuore, non risulta affatto chiaro. Tuttavia, i pregiudizi in tal senso sono così profondamente radicati che è opportuno sviluppare qualche riflessione.
È certamente vero che solo a sentir parlare di verità stabilita o definita alcuni si irritano. Il motivo — dicono — è che ciò implica una ristrettezza o un ristagno tali da paralizzare la mente e soffocare il dinamismo del messaggio cristiano.
Si tratta di una notevole confusione. Il fatto che una verità sia ben definita significa che è nitida per contenuto ed estensione; non indica assolutamente che sia ristretta. Ha dei limiti, ma questi possono essere molto ampi. Il carattere definito e identificabile della verità cristiana riguarda il contenuto, la chiarezza e il potere. Non ha nulla a che vedere con la ristrettezza. Al contrario, il messaggio cristiano è immensamente ampio; è appunto questa combinazione di sorprendente ampiezza e di non meno sorprendente chiarezza a conferirgli tanto potere. Esso sfida la mente del teologo, così come il mondo.
Ma se la nozione di verità stabilita non è angusta, sarà allora di certo statica... È necessario dissipare ogni ambiguità. A che cosa viene riferito il termine "statico": al contenuto del messaggio o alla reazione di coloro che lo ricevono?
È ovvio che il contenuto di ogni messaggio deve rimanere fermo se esso deve avere un qualche valore. Ma la chiarezza uniforme di un messaggio importante — trasmesso ripetutamente sulla stessa lunghezza d'onda — può galvanizzare l'ascoltatore e spingerlo all'azione. Nulla di statico v'è nell'effetto del messaggio.
Un messaggio mal definito e ingarbugliato, senza inizio ne fine, intessuto di contraddizioni, non muove nessuno. Così come non muove un messaggio continuamente cangiante. Se un messaggio deve muovermi — a pensare o a parlare — deve dire qualcosa di concreto. Se può essere interpretato a significare ogni cosa, oppure nulla, perché mai dovrei preoccuparmi di ascoltarlo o di comunicarlo?
Merita tenere a mente queste riflessioni nel valutare le pretese contemporanee di un approccio "aperto" alla teologia, non ostacolato da definizioni e da concetti aprioristici. Tanto più che la moderna teologia aperta risulta essere, a ben guardare, una cassa vuota: se ne guardiamo il fondo, ci accorgiamo che il contenuto è andato perduto; dentro non vi è nulla.
Così, se mi si dice che il concetto di dottrina definita è "statico" — tale da paralizzare il pensiero teologico e l'azione evangelizzatrice —, mentre invece una teologia aperta è lo strumento dinamico di cui abbiamo bisogno per muovere le persone a pensieri e azioni più efficaci ai fini dell'evangelizzazione, respingo decisamente l'asserto: è vero proprio il contrario.
Prendiamo un articolo perenne della fede cattolica: l'oggetto che, sotto le apparenze di pane, sta sull'altare o nel tabernacolo è in realtà Dio. Se questo è vero, si tratta di una verità dinamica quant'altra mai. Irrompe con la vitalità di Dio, con il potere sovrabbondante del suo amore. L'effetto che mi produce è il desiderio di balzare in piedi e correre a predicare questa meraviglia alla gente; è una verità di sommo valore.
Ma se la realtà non fosse così, se Dio non divenisse effettivamente presente, se il pane restasse tale con una significazione spirituale transeunte, allora perché dovrei emozionarmi, smuovermi dalla mia panca o dalla mia inerzia? Qualcuno può, se ritiene, descrivere questo concetto come più dinamico; a me non pare proprio; mi lascia immobile: statico e impietrito.
«Non è questo il punto — si potrebbe obiettare —: è l'idea di Dio "consegnato" nel tabernacolo che è statica...». Ne traggo la conclusione opposta: quella presenza continua e piena di amore diviene per me dinamismo.
Analogamente, se Cristo è veramente risorto, la morte è stata allora sconfitta, ci è stata aperta la strada per un'altra vita; comprendo il dinamismo dell'Apostolo su questa verità e voglio esserne partecipe. Si tratta di una credenza che doveva rivoluzionare il mondo.
Se invece Cristo non fosse veramente risorto, lascerei che gli altri, se vogliono, predichino ciò che ancora possono trovare nel cristianesimo. Per me, come per san Paolo, avrebbe perduto ogni interesse (cfr 1 Cor 15,14).
Certi teologi lamentano l'effetto paralizzante degli interventi del Magistero. Nella pratica, tuttavia, sono molto spesso le loro teorie a ridurre e restringere l'ambito del messaggio cristiano, privandolo delle sue ricchezze, della forza e consolazione che offre a ogni cristiano. Il Magistero combatte senza dubbio dalla parte della fede, ma anche a beneficio dei fedeli: per difendere il messaggio di Cristo contro ogni interpretazione che lo restringe e lo impoverisce, e per difendere il patrimonio di tutto il popolo di Dio, il suo diritto di accedere alle ampie finalità e al ricco contenuto dei doni che Cristo ha largito agli uomini.
La restaurazione della comunione
La rottura della comunione nel secolo XVI fu una gravissima ferita inflitta al Corpo di Cristo; essa rimane ancora aperta, non sanata. Tutti i cristiani sentono il dolore di questa separazione, lo scandalo della profonda divisione, così chiaramente contraria alla volontà e alle intenzioni di Cristo (cfr Gv 11,52).
È ozioso andare in cerca dei "responsabili" per gli avvenimenti di quattro secoli fa. Quello che ora conta — ciò che Dio vuole chiaramente — è che noi vi poniamo riparo (cfr UR 1). Lo sforzo deve tendere a restaurare ciò per cui Cristo pregò: che tutti siano una sola cosa (cfr Gv 17,21); che ci sia un solo gregge e un solo pastore (cfr Gv 10,16). Come si può conseguire questo obiettivo?
L'ecumenismo è inteso superficialmente se si ritiene che l'unità possa raggiungersi mediante un processo di "interscambio" che sfoci in una qualche forma di accordo umano. Se avvenisse per questa via, in seguito potrebbe ancora rompersi per disaccordo o dissenso umano.
La ricerca dell'unità dei cristiani è la ricerca di un centro, non di un consenso. Il centro è Cristo. Non è la mera riunione degli uni e degli altri che occorre ricercare; è la ri-unione con Cristo, la rinnovata comunione con Cristo, dopo averlo riscoperto — come lui è, come parla e che cosa vuole —, dopo averlo nuovamente localizzato ed essere andati da lui.
La riunione dei cristiani significa essere ri-uniti non solo nel cuore di Cristo — nel suo Amore — ma anche nella sua Mente, nella sua Verità. Essere uniti nella carità di Cristo è grande cosa, ma non basta. Dobbiamo essere uniti anche nella sua Mente: «Un cuore solo e un'anima sola», come i primi cristiani (AM,32). Comunione nella carità e comunione nella fede; nella ricchezza della carità e nella ricchezza della fede; ma nella, non fuori.
Lo scandalo della disunione dei cristiani riguarda la divisione non tanto dei cuori quanto delle menti. Unire i cuori è più facile che le menti, poiché gli uomini sentono unanimi più facilmente di quanto non pensino o giudichino allo stesso modo. Ma i sentimenti non durano. Ciò che occorre è una fede comune: la volontà di credere insieme. Una fede comune significa accogliere e credere le medesime cose: Dio e la sua Rivelazione. Significa rendere un comune tributo all'autorità di Cristo, così come egli sceglie di parlarci.
Ecco perché la questione dell'unità dei cristiani ritorna sempre alla questione se Cristo, rivelando la sua verità salvifica e affidandola alla Chiesa, abbia scelto o no di istituire — nella sua Chiesa — un organo divinamente garantito per l'interpretazione fedele di quella verità.
L'unità dei cristiani s'infranse sostanzialmente per un collasso della fede: per non voler credere che Cristo è presente e parla agli uomini nella Chiesa istituzionale e per suo tramite; e decidere, al contrario, di assoggettare la verità di Cristo alla volontà dei singoli credenti perché ne traessero quel che volevano.
L'approccio "democratico" all'ecumenismo consiste, in definitiva, nel trasformare la verità di Cristo in ciò che vogliamo o votiamo che sia. L'approccio della fede accetta la verità così com'è, cioè così come ci giunge attraverso l'autorità del Magistero della Chiesa. Si deve scegliere tra l'uno o l'altro di questi approcci, poiché in realtà tra i due non c'è via di mezzo.
Una comunione cristiana rinnovata dipende dalla nostra capacità di rinnovare la nostra comunione col modo di pensare di Cristo e coi suoi disegni: anche con quel particolare punto della logica divina che assicura stabilità al suo piano di salvarci per mezzo della Rivelazione. La fede in Cristo e l'amore verso di lui possono e devono portarci a vedere che, se la divina Verità deve essere protetta dagli errori umani, è necessario un principio, un organo, per garantirla e definirla. Era richiesto fin dall'inizio; fu di divina istituzione fin dai primordi e — nonostante tutte le deficienze degli uomini — permane ininterrotto. Occorre solo che lo riconosciamo e l'accettiamo. L'unità dei cristiani non può essere costruita intorno ad altro centro.
Chiarezza nel dialogo
II fine ultimo dell'ecumenismo è che "a poco a poco, superati gli ostacoli che impediscono la perfetta comunione ecclesiastica, tutti i cristiani si riuniscano in quella unità dell'una e unica Chiesa, che Cristo fin dall'inizio donò alla sua Chiesa" (UR 4).
Senza dubbio, alcuni degli ostacoli che bisogna superare erano stati frapposti in passato dagli stessi cattolici con il loro comportamento autoritario, con la loro tendenza a giudicare le persone, dimentichi che il giudizio definitivo è riservato a Dio (cfr 1 Cor 4,4), e a condannare le intenzioni senza nulla concedere alla sincerità soggettiva; ma, in modo particolare, con lo scandalo dei propri peccati. La riflessione e il dialogo ecumenici possono condurre i cattolici a una più chiara coscienza delle loro deplorevoli colpe in proposito.
Comunque, perché si abbia un reale progresso ecumenico, i protestanti devono affrontare i formidabili ostacoli all'unità presenti nel loro campo, soprattutto il principio del libero esame [4], che è in radicale contrasto con l'Incarnazione, i sacramenti e la Scrittura a motivo del rifiuto dell'autorità oggettiva esterna, intesa a preservare e a interpretare la Rivelazione che Cristo volle lasciare in eredità alla sua Chiesa.
Se l'ecumenismo deve costituire un serio impegno per riunire le denominazioni cristiane in un'unica Chiesa, allora gli uni e gli altri, cattolici e protestanti, devono eleggere l'ecclesiologia e non solo la storia, il dogma e la Scrittura, a principale terreno di discussione e di studio.
È possibile obiettare che questa posizione sembra implicare che, dal punto di vista dei cattolici, la speranza ecumenica definitiva è che i protestanti tornino a riunirsi alla Chiesa cattolica.
Naturalmente è così! Saremmo assolutamente falsi non solo di fronte alle nostre credenze, ma anche alla sincerità che deve connotare il dialogo ecumenico, se intendessimo altra cosa. Non solo bisogna che i cattolici non abbiano timore di affermare quella posizione, ma siano altresì sicuri che ogni protestante di intelligenza media non avrebbe nessun rispetto del cattolico che affermasse diversamente: ne trarrebbe la conclusione che una tale persona non è sincera, oppure che non conosce neppure la propria fede.
Lo spirito dell'ecumenismo è la mutua carità; sua meta, una fede comune. Lo spirito dell'ecumenismo impone di trattarsi con stima nonostante le differenze di credo. Non ci tratteremmo onestamente se fingessimo che non esistono differenze, o che le divergenze sono irrilevanti. In tal caso perderemmo il mutuo rispetto — e il rispetto per la verità —, poiché non prenderemmo sul serio le reciproche credenze. Per questa via sarebbe assolutamente impossibile superare le diversità.
Il libero esame e la comunione
Solamente il tempo dirà se la causa dell'unità dei cristiani — l'ecumenismo — abbia fatto progressi o no negli ultimi vent'anni. Ma è ormai ovvio che, all'interno della Chiesa cattolica, l'unità dei cristiani abbia sofferto durante questo periodo. Ci riferiamo non all'auspicabile crescita di diversità entro l'unità cattolica, ma alla relativizzazione del concetto stesso di fede cattolica comune; fino al punto che sono apparsi scrittori, teologi, pubblicazioni e gruppi che hanno sostenuto opinioni contraddittorie su materie fondamentali — come l'infallibilità, la contraccezione, l'aborto, e altre —, presumendo che le proprie vedute esprimessero validamente il cattolicesimo.
Questo non è pluralismo, ma confusione mentale. Pluralismo significa legittima varietà entro la vera comunione. Quello che ci troviamo oggi di fronte in certi settori della Chiesa non è un pluralismo auspicabile, ma la più manifesta disunione: una rottura della comunione ecclesiale altrettanto seria di quella del sedicesimo secolo. Si fa sempre opera di deformazione, mai di riforma, quando viene rotta l'unità fondamentale che Cristo volle per i suoi seguaci.
La perdita del senso dell'identità cattolica non è d'aiuto al dialogo ecumenico. Come possiamo noi cattolici operare per l'unità dei cristiani se noi stessi non viviamo — con posizioni diverse, ma complementari — entro l'ampia unità di una sola fede cattolica chiaramente definibile?
Persone che abbiano posizioni non ben identificate non possono giungere a un reciproco avvicinamento. La chiara esposizione della propria tesi e dei termini di cui si fa uso, è il primo requisito per una discussione ragionevole o un dialogo costruttivo. Si intesse un dialogo per costatare se è possibile per le due parti avvicinare le rispettive posizioni o trovare un terreno comune intermedio. Ma come posso verosimilmente pensare di avvicinarmi alla posizione di un'altra persona se non conosco la mia, se non sono neppure sicuro di dove mi trovo o di che cosa affermo?
Questo è sempre stato il problema dei protestanti. Essi sono stati relativamente uniti nell'opporsi, cioè nel protestare, contro certe cose: l'autorità della Chiesa, il primato del Papa, la Tradizione, la definizione della dottrina, la presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, e così via. Ma non sono mai stati uniti in ciò che sostengono, ad eccezione del principio del libero esame, che è principio essenzialmente di divisione e di totale opposizione alla communio. La progressiva frammentazione del protestantesimo è semplicemente la logica conseguenza di questo principio.
Quello che i cattolici sostengono era, fino a poco tempo fa, chiaro a tutti: la comunione con Cristo nella fede, nei sacramenti e nella disciplina nella Chiesa, che ha fondato, protegge e nella quale vive e parla. Alcuni cattolici di oggi non possono ormai più identificarsi in questa chiara idea di comunione cattolica. Asseriscono di essere cattolici, ma al tempo stesso non sanno dire che cosa significa essere cattolici. Professano un cattolicesimo non identificabile. La loro posizione, tuttavia, può venire identificata, non però nell'ambito del cattolicesimo.
A proposito di ecumenismo merita fare due precisazioni circa quei cattolici che hanno assimilato un atteggiamento non cattolico verso la fede apostolica, i sacramenti, l'interpretazione della Scrittura, e così via: a) non stanno assolutamente facendo un vero lavoro ecumenico. Senza dubbio essi si sono avvicinati al protestantesimo, ma al tempo stesso si sono allontanati dal cattolicesimo. Non ne hanno accorciato la distanza: sono semplicemente passati dall'altra parte. Ma la distanza continua ad essere ampia come sempre.
Il problema ecumenico sembra loro facilmente risolvibile. Ma la soluzione che prospettano consiste non nella communio di un'unica fede, ma in una sorta di pax oecumenica, un'ampia tolleranza che raggruppi visioni contraddittorie del messaggio di Cristo sotto una sola bandiera cristiana. Tale soluzione appare loro accettabile; ma lo è per Cristo? Questa meta che essi perseguono è perseguita anche da lui?
Cristo non ha mai parlato di una federazione di pecore o di una coalizione di greggi, ma di un solo ovile. È questo l'obiettivo, e deve rimanere non negoziabile se l'ecumenismo deve continuare a essere un impegno serio. La soluzione ecumenica da loro proposta non fa che dislocare nella Chiesa tutti i gravi e secolari problemi di disunione propri dei protestanti. È un passo non verso l'unità dei cristiani, ma nella direzione opposta, tale da ostacolare l'accettazione di un'autorità oggettiva che costituisce l'unico centro e l'unica base per l'unità; quella posizione rimane infatti ancorata al principio del libero esame, che non unisce ne sarebbe capace di farlo.
b) Non affrontano il loro problema ecumenico, il loro problema di comunione: non cercano un centro, non cercano l'unità. Non vogliono essere partecipi della fede che ci è pervenuta dagli apostoli, la fede di sempre. Si allontanano dal campo visivo dei secoli. Non ascoltano la voce di Cristo nella Tradizione, nei Padri, nei Concili, nei Papi; non trovano il suo amore nelle vite dei santi o nella pietà popolare del presente e del passato; non percepiscono la sua volontà nella disciplina della Chiesa. Per essi Cristo visse la sua vita duemila anni fa; non ha continuato a viverla in questi venti secoli e non continua a viverla oggi. Che comunione si può avere con un uomo che è morto e non è più con noi?
È una situazione incresciosa, una volontaria rescissione dei legami con Cristo, con Cristo risorto e vivente, che ha promesso di rimanere sempre con noi. È un triste processo che può essere sintetizzato in una sola parola: "ex-communio", intesa non come atto giuridico o dichiarazione canonica, ma come una situazione di fatto volontariamente scelta. L'isolamento manifesto di alcuni cattolici di oggi — teologi, sacerdoti, vescovi, fedeli — è la squallida conseguenza della loro incapacità di trovare Cristo, secondo le esigenze poste dal Signore, nella Chiesa e nella fede dove egli ha voluto rivelarsi e comunicarsi agli uomini.
Se si propongono di ri-definire il cattolicesimo in termini desunti dal protestantesimo. Cristo li respingerà di continuo, perché l'immagine che presentano non è la sua Chiesa. Non possono imporre un'immagine diversa nella mente di Cristo; o rettificano la loro visione distorta, oppure essa li condurrà necessariamente aldilà dei limiti della comunione col Signore.
L'ecclesiologia, area di crisi
Nei primi secoli dopo Cristo, cioè durante le fasi iniziali della proiezione del messaggio cristiano, deve essere stato relativamente facile, anche per persone sincere e dotate di buona volontà, interpretare erroneamente il quadro dottrinale, ossia deviare dalla fede e cadere nell'eresia. Ad alcuni accadde e, proprio perché avevano buona volontà, tornarono indietro. Altri, invece, persistettero nelle loro opinioni e persero così la comunione della fede. Le controversie cristologiche del quarto e del quinto secolo ne offrono abbondanti esempi. Questo oggi non dovrebbe risultare tanto facile, dopo venti secoli, durante i quali il messaggio della Rivelazione è stato pensato e presentato senza soluzione di continuità, mentre settori particolari o dettagli di esso sono stati di continuo messi a fuoco e definiti, talché il quadro emerge al presente nella chiarezza cristallina del suo insieme e nell'armonica relazione tra le parti. E tuttavia, vi sono spettatori contemporanei della Rivelazione che cercano ancora di offuscare il quadro. Proprio ora, in questi ultimi anni del ventesimo secolo, alcuni cattolici — persone peraltro pie e zelanti — stanno cedendo a interrogativi e dubbi su verità fondamentali della fede cattolica: il carattere storico dei racconti evangelici, i poteri singolari connessi al ministero sacerdotale, la funzione privilegiata del Magistero, eccetera. Non sono più sicuri di credere in dottrine che sempre hanno fatto parte del patrimonio comune della fede, condivise e tramandate dai loro fratelli attraverso i secoli. Non hanno più la certezza di appartenere alla comunità degli apostoli. Nelle loro vite si è prodotta una progressiva rottura della comunione, che minaccia di abbandonarli a una permanente deriva in un mare ribollente di dubbi, dilemmi e dissensi.
L'ecclesiologia è oggi un'area di crisi. La fede nel messaggio di Cristo si affievolisce se non vi è fede anche nel modo in cui il suo messaggio ci perviene, nei mezzi che egli usa per trasmettercelo. Cristo — la sua parola, la sua grazia, il suo amore — ci giunge attraverso la Chiesa. Un indebolimento o un collasso della comunione è la necessaria conseguenza dell'incapacità di comprendere e accettare il mistero della Chiesa: in concreto, quell'aspetto del mistero che vede la Chiesa come fedele custode e interprete del messaggio di Cristo, come la "Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità" (1 Tm 3,15).
La grande maggioranza sia dei protestanti che dei cattolici è certamente d'accordo nel ritenere che cristiano è chi crede che Cristo Gesù è Dio. Se qualcuno si permette dubbi cristologici, "forse Cristo non è Dio", allora cessa di essere cristiano.
Orbene, se la prima questione è cristologica — Cristo è Dio? —, la seconda è ecclesiologica: il Signore Gesù fondò una Chiesa per diffondere la sua parola e la sua opera? Ha fondato una Chiesa e se n'è poi andato? Oppure rimane nella sua Chiesa, così che ascoltando la Chiesa ascoltiamo lui, stando in comunione con la Chiesa siamo in comunione con lui, rompendo questa comunione rompiamo con lui? Sono queste le domande essenziali che bisogna porre e che abbiamo cercato di esaminare.
Se Cristo non è Dio, la sua pretesa di essere la verità (cfr Gv 14,6) è di una mostruosa arroganza. Se la Chiesa non è stata fondata e non è assistita da Cristo, allora la sua pretesa di possedere e di insegnare la verità è parimenti arrogante e intollerabile. Se invece Cristo è Dio e ha fondato la Chiesa, nessuna di quelle pretese è arrogante; sono piuttosto la garanzia della nostra gioiosa certezza e del nostro senso di libertà: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Quando un noto teologo inglese, perito del Concilio Vaticano II, abbandonò la Chiesa poco dopo la chiusura delle assise conciliari, alcuni dei suoi colleghi d'un tempo lo rimproverarono per essersene andato invece di rimanere con loro a lavorare per la riforma della Chiesa dal suo interno. Egli rispose che aveva lasciato la Chiesa semplicemente perché non credeva più nell'infallibilità della Chiesa cattolica; e gli pareva che non toccasse a lui giustificare la propria posizione, ma a coloro che, pur condividendo le sue idee, continuavano a rimanere nella Chiesa. (La preghiera che si può elevare è che costoro non cerchino di giustificare la loro posizione, bensì di modificarla).
Consapevolmente o no, la posizione di molti cattolici rappresenta oggi un progressivo rigetto della comunione: «Me ne vado per la mia strada, non voglio condividere quella degli altri. Ho il mio pensiero, rifiuto di condividere quello di Cristo».
Gli atteggiamenti mentali che conducono a questo genere di autoscomunica hanno radici molto profonde. La riflessione onesta, l'umiltà e, soprattutto, la preghiera sono gli unici mezzi che possono indurre una persona a distaccarsi dai propri atteggiamenti, a rivederli e a individuare dove sono manchevoli, ad avviare il difficile processo di riplasmarli e modificarli. Se non si consegue questo obiettivo, la perdita della comunione diverrà inevitabilmente completa.
NOTE
[1] Questo ci ricorda ancora una volta che la mente di Cristo non è una realtà del passato, nella quale occorra immettere nuove idee. È la Verità sempre presente, che richiede solamente nuova luce per mostrarsi in tutti i suoi aspetti reconditi.
[2] Cfr capitolo 7.
[3] John Henry Newman, Grammatica dell'assenso, cap. 6.
[4] La regola del libero esame nell'interpretare il messaggio di Cristo è alla pari col soggettivismo morale o positivismo giuridico: non esiste una verità oggettiva, o non è attingibile; il singolo pone la sua norma soggettiva riguardo a ogni realtà; la verità diviene materia opinabile; l'opinione è la misura della verità, e dunque ci sono tante "verità" quante sono le opinioni.