03. INDIVIDUALISMO E CHIESA

    Anche se non si esprime in rapine e atti di teppismo, la sindrome antilegge è presente e diffusa nella Chiesa. Non solo le leggi ecclesiastiche vengono spesso ignorate e l'autorità della Chiesa è frequentemente screditata, contestata e disobbedita, ma l'atteggiamento antilegge viene difeso in nome della libertà cristiana e della spontaneità. Si afferma inoltre ripetutamente che tutto ciò è in sintonia con lo spirito del Concilio Vaticano II e ne consegue.

    È vero esattamente il contrario. Questo individualismo ostile alla legge non si concilia con la coscienza comunitaria propiziata dal Vaticano II: ciò dovrebbe essere chiaro. Ma, più chiaramente ancora, è del tutto incompatibile con la nozione di popolo di Dio.

    La Lumen gentium è massimamente esplicita: l'individualismo non è il piano voluto da Dio per la salvezza; tale è invece il vincolo con gli altri. Nel paragrafo d'apertura del secondo capitolo, essa dice che "piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo..." (LG 9). Perciò, continua il Concilio, Dio "stabilì una alleanza" — una convenzione legale o accordo — con la progenie eletta di Israele, che era "preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza che doveva concludersi in Cristo" (ivi).

    Subito dopo, la Lumen gentium procede illustrando il grande passo biblico di Geremia sul popolo di Dio, nel quale ci vien detto che è proprio il possesso e la condivisione della legge a separare un popolo e a costituirlo in popolo di Dio: «Ecco verranno giorni — dice il Signore — nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova [...]. Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora saranno il mio popolo» (Ger 31,31-34).

    Un popolo senza legge non è un popolo; non è altro che un'orda o una folla. È il possesso e l'osservanza di una legge comune a trasformare un gruppo di individui in un popolo, partecipe dei medesimi ideali, costumi e destino, dove gli uni gli altri si trattano con giustizia e rispetto sotto un'autorità che considerano garante del bene comune e protettrice dei diritti di tutti.

    Il concetto di un "popolo di Dio senza legge" è pertanto un'assurdità. Lo spirito di opposizione all'autorità è anomalo in un cristiano, anche se oggi lo possiamo rinvenire in non pochi cristiani. Se dovesse diffondersi, determinerebbe un totale arresto del rinnovamento propugnato dal Concilio Vaticano II.

    Ciò risulta ancor più evidente se si considera che, nelle aspettative della maggior parte della gente, una Chiesa rinnovata significa — tra l'altro — una Chiesa dove c'è più rispetto per i diritti dei singoli. Ma, come abbiamo osservato nel capitolo precedente, i diritti non saranno rispettati se la legge non li protegge e se essa stessa non viene rispettata.

    Il Concilio, specialmente nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, "proclama i diritti dell'uomo" (GS 41) e insiste perché questi diritti siano riconosciuti e difesi nella società civile (GS 26.73; cfr AA 11). Sono posti in particolare rilievo il diritto di culto (DH 6), il diritto al matrimonio e ai figli (GS 52), nonché il diritto all'educazione (GÈ 1).

    Ma il Concilio volle sottolineare i diritti personali — e quindi gli obblighi personali — anche all'interno della società ecclesiale. Dopo aver chiarito la comune dignità di tutti i cristiani fondata sulla comune grazia battesimale (LG 9.18.32), pone speciale cura nell'enumerare i diritti dei laici in particolare — per esempio, il diritto di ricevere dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa (LG 37), di avere una loro propria spiritualità (AA 4), di fare apostolato (AA 3), di esprimere le loro opinioni in materie relative al bene della Chiesa (LG 37) — senza ometterne gli obblighi: per esempio, collaborare coi propri pastori (LG 33), seguire l'insegnamento autentico dei vescovi (LG 32; cfr 2.25.27) e altri ancora.

    Questa insistenza su diritti e doveri conferisce maggiore efficacia alla scelta dell'espressione "popolo di Dio". Una ecclesiologia del Corpo di Cristo, per esempio, richiama solo alla lontana questioni di diritti e doveri del fedele; ma tali questioni entrano naturalmente e di necessità in una ecclesiologia del popolo di Dio, che evidenzia logicamente le relazioni interpersonali e sociali, l'uguaglianza di dignità e la diversità di funzioni all'interno di una medesima impresa, gli intenti e il destino comuni.

    Queste riflessioni ci portano a una conclusione di grande significato: il Concilio, scegliendo deliberatamente l'espressione "popolo di Dio" per designare la Chiesa, ci invita esplicitamente a dare rinnovata importanza alla legge nella vita della Chiesa: ci segnala infatti con insistenza che non scopriremo mai la vera strada del rinnovamento se non lo affrontiamo anche da una prospettiva giuridica.

Servizio del clero e diritti del popolo

     In una comunità non tutti svolgono le stesse funzioni. Le persone seguono professioni o vocazioni diverse, ciascuna delle quali possiede diritti e doveri peculiari. Tuttavia, diritti e doveri non hanno pari rilevanza in ogni condizione di vita. Le professioni di servizio — medico, infermiera, insegnante e simili — sono più fortemente caratterizzate dai doveri che dai diritti. La natura d'autentico servizio di queste professioni richiede a coloro che le seguono di rinunciare volontariamente a certi diritti a vantaggio del prossimo. Quando si dedicano alla loro vocazione in spirito di generosità e oblio di sé, essi incoraggiano ed elevano il popolo cui servono e agiscono come lievito di rinnovamento nell'intera società.

    Il Concilio Vaticano II volle porre in massima evidenza il concetto di "diaconia" — o servizio — del clero '. Nella vita interna della Chiesa i chierici non sono una classe privilegiata; essi sono "ministri", cioè servitori, del popolo (cfr cap. 11). A imitazione di Cristo, che si fece servo, sono ordinati e consacrati ad amministrare la grazia e la verità del Signore ai loro fratelli. Rispondendo liberamente alla loro speciale chiamata, i chierici hanno scelto anch'essi una vocazione di servizio che, come abbiamo detto, è uno stato di vita caratterizzato più da obblighi che da diritti. Il dovere del celibato (can. 277) li rende più liberi per servire; il dovere di obbedienza (can. 273) significa che possono essere demandati a questa o quella missione di servizio, così come richiede il bene del popolo; l'obbligo di residenza (can. 283) è inteso a far sì che siano disponibili per il popolo; l'obbligo di vestire in modo peculiare (can. 284) ha lo scopo di renderli identificabili in pubblico, di modo che il popolo possa più facilmente ricorrere ai loro servigi, e l'elencazione potrebbe continuare.

    L'insistenza del Concilio sulla diaconia del clero offre una vera chiave per il rinnovamento, ma questa chiave deve essere impugnata nel modo giusto. Rilevando il dovere dei chierici di servire, il Concilio necessariamente evidenzia il diritto del resto dei fedeli a questo servizio. I chierici devono essere prudenti e fedeli servitori, così come il resto dei membri della Chiesa ha uno stretto diritto ecclesiale a questo fedele servizio. Potremmo ora fermarci e chiedere: dimostra il clero una rinnovata consapevolezza del suo dovere di servire? Ha una rinnovata coscienza dei particolari diritti del fedele? Questi diritti vengono assunti come principale punto prospettico da cui valutare gli sforzi per il rinnovamento? Costituiscono le basilari linee direttive per l'azione? Sono sostenuti e difesi nella pratica? È consapevole la gente dei propri diritti?

    Il diritto fondamentale di ogni cristiano è di entrare sempre più in comunione con Cristo, e con gli altri in Cristo, utilizzando le ricchezze spirituali di verità e di grazia che il Signore Gesù ha lasciato alla sua Chiesa. Questo diritto fondamentale è compendiato nel canone 213 con queste parole: «I fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti».

    Molti altri canoni si collegano intimamente con questa fondamentale disposizione del Codice e sono intesi unicamente a garantire l'accesso dei fedeli a queste ricchezze. Per esempio, le principali leggi della Chiesa relative ai sacramenti sono definite per assicurare che questi sette mezzi straordinari di grazia continuino sempre a essere quello che il loro divino Istitutore ha voluto che fossero — azioni di Cristo [2] — e che i fedeli non vengano defraudati col non trovare in ogni sacramento un reale incontro con Cristo. Di qui l'importanza delle leggi che definiscono che cosa è richiesto per la valida amministrazione o ricezione dei sacramenti (se un sacramento è amministrato o ricevuto non validamente si ha una cerimonia estrinseca, ma non certo un incontro vivificante con Cristo).

    La stessa cosa accade per il diritto del popolo a ricevere le ricchezze della parola di Dio, che, come afferma il canone 762, "è del tutto legittimo ricercare dalle labbra dei sacerdoti". A questo diritto del popolo corrisponde il dovere dei predicatori di esercitare il "ministero della parola, che deve fondarsi sulla Sacra Scrittura, la Tradizione, la liturgia, il magistero e la vita della Chiesa" (can. 760). Se la predicazione consistesse nel porgere — come messaggio di salvezza — una parola non fondata sulla Scrittura, sulla Tradizione o sull'insegnamento del Magistero, non si tratterebbe della genuina parola salvifica di Dio e il popolo verrebbe defraudato nelle sue aspettative e nei suoi diritti.

    Orbene, è possibile che questi ultimi paragrafi, con la loro insistenza sul fatto che la legge è necessaria per regolare il culto, o l'amministrazione dei sacramenti o la predicazione della parola di Dio, determinino una reazione negativa in alcuni lettori, specialmente sacerdoti, ritenendo essi che una tale impostazione equivalga a soffocare lo Spirito Santo o a negare la retta spontaneità personale. Al capitolo 9 si cercherà di dimostrare che il più importante mezzo attraverso cui lo Spirito Santo ci parla è proprio la legge, così come il principale modo di manifestare la nostra disponibilità allo Spirito Santo è l'obbedienza alla legge. Per quanto riguarda la spontaneità va detto che, sebbene il diritto alla spontaneità non sia sancito da nessuna norma ecclesiastica, essa può essere legittimamente difesa: vi è certamente molto spazio per la spontaneità all'interno della legge. La spontaneità al di fuori della legge è quasi sempre segno di autoaffermazione individualistica e comporta uno scarso rispetto per i legittimi diritti, preferenze e interessi degli altri che la legge cerca di proteggere. I sacerdoti, vale la pena ripeterlo, sono i servitori del popolo, servitori volontari offertisi spontaneamente di servire. Se si reputano sinceramente servitori del popolo, non avranno difficoltà a considerarsi anche servitori della legge che protegge i diritti del popolo. Un'eccessiva ed egocentrica insistenza sulla spontaneità e sulle opinioni personali dimostra un affievolito senso della communio, così come una perdita dello spirito di servizio, anche se la persona in questione possa non esserne consapevole, soprattutto se abituata all'uso della retorica comunitaria.

    La complementarità di diritti e doveri non può mai essere dimenticata. È certamente più facile e gradevole proclamare ed esercitare i diritti che non riconoscere e adempiere i doveri. Tuttavia, un vero "fautore dei diritti" dovrà cercare di essere anche un leale "fautore dei doveri". L'egocentrismo, l'eccessivo amore di sé, è la ragione principale per cui si tende a istituire un'opposizione piuttosto che una complementarità tra diritti e doveri; l'altruismo supera questa opposizione. È chiaro che il senso di rispetto per gli altri è la condizione fondamentale per accettare prontamente i propri obblighi verso il prossimo, appunto come espressione di rispetto per i suoi diritti. Questo è vero per tutti; ma il cristiano deve andare più lontano. Se vuole imitare Cristo, il suo atteggiamento verso gli altri non sarà di semplice rispetto, ma di servizio.

    Servire gli altri, a imitazione di Cristo (Mt 20,28), non è solo un obbligo; è un diritto e un privilegio, anche perché in coloro che serve vede Cristo (Mt 25,40).

    Tutti i cristiani possono e devono avere questa visione perfettamente integrata del nesso tra diritti e doveri. Il sacerdote è tenuto ad averla in modo speciale, a motivo della sua peculiare chiamata al ministero. Molte lamentele circa "violazioni" o "misconoscimenti" di diritti svaniscono quando la vita cristiana — e particolarmente la vita sacerdotale — viene intesa e vissuta in questa maniera, quando cioè diritti e doveri sono riguardati nella luce del servizio. Si prenda, per esempio, la controversia sull'ordinazione delle donne: sarebbe da chiedersi se quelle donne che lamentano il misconoscimento dei loro diritti ravvisino nel sacerdozio un'occasione di servizio o uno strumento di potere. Nel secondo caso, hanno del sacerdozio un concetto completamente errato (cfr cap. 11). Nel primo, posto che vogliano realmente servire la Chiesa, perché lamentarsi così amaramente se una particolare modalità di servizio — il sacerdozio ministeriale — non è ad esse aperta? Coloro che vogliono servire non dettano le condizioni del loro servizio: sono felici del servizio specifico cui Dio li chiama. Maria, la più grande tra le creature, era contenta di dichiararsi "ancilla", serva, schiava, del Signore. Man mano che il genuino spirito di servizio cresce, la legge e l'autorità vengono non solo tollerate e rispettate, ma anche venerate e amate.

I diritti di chi sono più minacciati?

    Il reale pericolo per la Chiesa contemporanea non è tanto che la legge possa opprimere i diritti individuali, ma che l'azione individuale (meglio, l'azione individualistica) possa violare i diritti del grande corpo dei fedeli. La legge è volta appunto a difendere i diritti delle persone comuni.

    Il popolo ha diritto a celebrazioni liturgiche che esprimano la finalità vera e lo spirito autentico della liturgia, e non gli umori e le preferenze del celebrante. Ha l'ulteriore diritto — che è un'esigenza derivante dalla dignità cristiana — di non divenire oggetto di sperimentazioni liturgiche. Il sacerdote dedito alle innovazioni e agli sperimenti liturgici può trovare la legge restrittiva; la ragione è che, in tali casi, la legge non è dalla sua parte, ma dalla parte del popolo.

    Analogamente, il parroco che trascura l'amministrazione dei sacramenti o che, per la loro ricezione, impone modalità non richieste dalla legge ecclesiastica, viola i diritti del popolo.

    Il Codice di diritto canonico dice che l'autorità demandata al governo di un'università cattolica deve assicurarsi che gli insegnanti "eccellano per integrità di dottrina" e che, diversamente, "siano rimossi dall'incarico" (can. 810); la norma è intesa a proteggere i diritti degli studenti che frequentano un'università cattolica per ricevervi appunto una formazione cattolica.

    La sollecitudine effettiva per i diritti del popolo è una delle migliori prove del senso comunitario e di servizio. Chi dimostra più sollecitudine per i diritti del popolo: il teologo che reclama la libertà di presentare al popolo — come dottrina cattolica — qualunque cosa gli aggrada, oppure il Magistero quando dice che questa o quella asserzione teologica di Tizio non è insegnamento cattolico, non è compatibile col messaggio di salvezza che Cristo ha affidato alla sua Chiesa? [3].

    Chi manifesta maggiore spirito di diaconia, di servizio, verso il popolo? Chi dimostra di essere consapevole non solo dei suoi diritti personali, ma anche dei suoi doveri, e rivela la disponibilità al loro adempimento? Quel certo teologo reclama il diritto non solo d'insegnare ciò che vuole, ma anche di conferire maggiore autorità al suo insegnamento appiccicandogli l'etichetta "dottrina cattolica". Ma quale dovere — verso Dio o verso il popolo — sta mai adempiendo? È invece il Magistero ad adempiere l'obbligo — impostogli da Cristo e mai tanto oneroso come oggi — di custodire il deposito della verità a vantaggio del popolo; in tal maniera ne protegge i diritti. Quel teologo può dire al Magistero: è in gioco il mio diritto a pensare ciò che voglio. Ma il Magistero può ribattere: tu hai il diritto di pensare quel che vuoi, ma non hai il diritto di denominare cattolico tutto ciò che pensi. In gioco non è solo la verità di Cristo, ma anche il diritto del popolo — la sua libertà — di conoscere quella verità senza confusione.

La Chiesa è una democrazia?

    La Chiesa non è un'istituzione umana; non è stata fondata da uomini, ma da Gesù Cristo. È stato Cristo a darle la sua costituzione fondamentale (cfr cap. 10), che non è quella di una democrazia, nel senso di una società governata dal popolo mediante delegati che il popolo sceglie liberamente e può liberamente rimuovere dal loro ufficio. La Chiesa non è una società democratica, ma è in realtà una "società gerarchicamente ordinata" (LG 20), governata da persone nominate dall'alto. Questa è la dottrina del Vaticano II, che conferma un insegnamento plurisecolare. È significativo che il capitolo II della Lumen gentium, "II popolo di Dio", sia immediatamente seguito da un capitolo intitolato "La costituzione gerarchica della Chiesa". Nel primo paragrafo questo capitolo dichiara che "Cristo Signore [...] ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri [...]. I ministri, che sono dotati di sacra potestà, sono a servizio dei loro fratelli"; e continua con ancora maggior vigore: «Questo sacrosanto Sinodo, seguendo le orme del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, Pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli come egli stesso era stato mandato dal Padre, e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero fino alla fine dei tempi pastori nella sua Chiesa. Affinché lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell'unità della fede e della comunione» (LG 18). Che la Chiesa non sia una democrazia può urtare la sensibilità dell'uomo contemporaneo; in realtà, ciò che qui importa non è la volontà degli uomini, ma la volontà di Dio. Il dibattito sulla questione se la Chiesa "debba" essere una democrazia è privo di significato dal momento che il suo divino Fondatore pensò diversamente; la campagna condotta per democratizzare la costituzione della Chiesa è una campagna per una forma di Chiesa che non sarebbe più la Chiesa fondata da Gesù Cristo. Comunque, affermando che nel Concilio Vaticano II non vi sono motivi per asserire che la Chiesa sia una democrazia o possa diventarlo, non intendiamo dire che il Concilio non abbia significato una rottura con l'idea di esercizio autocratico del potere o che non si sia preoccupato di mettere in guardia dall'arbitrio nel governare: certamente l'ha fatto. Inoltre, esso ha sottolineato dei concetti — come collegialità, corresponsabilità, partecipazione — che hanno un'evidente affinità con quello che in senso lato si può definire un "processo democratico". Il nuovo Codice di diritto canonico fornisce ampia dimostrazione di come questo processo collegiale o partecipativo deve essere presente nel lavoro d'amministrazione della Chiesa. Il Sinodo dei vescovi (cann. 334.342-348) da particolare espressione allo spirito di collegialità a livello universale. Le sue conclusioni o raccomandazioni hanno evidentemente il massimo peso nelle decisioni di governo della Chiesa. Sarebbe difficile per il Romano Pontefice ignorarle, anche se vi fosse propenso. A livello diocesano la legge canonica (can. 495) istituisce un consiglio presbiterale, che opera come il senato del vescovo; un vescovo agirebbe illegalmente se non provvedesse a istituire il consiglio presbiterale o non lo consultasse sui problemi principali (cfr cann. 461. 515. 536. 1263). Deve esserci altresì un collegio di consultori (can. 502); e vi sono determinati casi in cui il vescovo non può agire senza l'approvazione di questo collegio (cfr, per esempio, cann. 272. 485. 1277. 1291. 1292) o del consiglio per gli affari economici diocesano (cann. 1277. 1291. 1292). Inoltre, in ogni diocesi dovrà essere attivo un consiglio pastorale (cann. 511-514); analogamente, a livello parrocchiale, il Codice dispone che vi sia un consiglio per gli affari economici (can. 537) e raccomanda la costituzione di un consiglio pastorale (can. 536). Comunque, piuttosto che passare in rassegna le modalità secondo cui lo spirito collegiale o partecipativo può applicarsi alla vita della Chiesa, è preferibile richiamare l'attenzione su due idee che sembrano frullare in capo a coloro che anelano a una Chiesa "democratica".

La Chiesa è una società libera?

    Alcune persone trovano faticoso accettare l'affermazione che la Chiesa non è una democrazia, poiché a loro giudizio ciò implica che la Chiesa non è una società libera. Ma forse la libertà esiste solo in una democrazia, o la democrazia è l'unica salvaguardia della libertà?

    Basta pensare alle sedicenti "democrazie popolari" dei Paesi comunisti per rendersi conto che chi invoca la magica parola "democrazia" non sempre manifesta sollecitudine per la vera libertà o ne promuove l'attuazione. È altrettanto vero che in diverse democrazie occidentali la libertà è in pericolo o in declino; ne esiste chiaramente meno che qualche decennio fa. Il crescente interventismo dei governi e delle burocrazie, l'ingiustizia di non pochi provvedimenti legislativi, la manipolazione dell'opinione pubblica da parte dei mezzi di comunicazione sociale, lo sfruttamento perpetrato da tante imprese, l'individualismo dei privati..., tutto tende alla violazione dei diritti umani e all'erosione della libertà.

    Il fatto è che la condizione essenziale per la libertà non è la democrazia, ma la giustizia: l'effettiva protezione fornita alla libertà dall'esistenza di giuste leggi e dalla loro adeguata applicazione. È una verità perenne che in nessuna società vi può essere vera e durevole libertà se non sotto la legge. La Chiesa quindi, benché non sia una democrazia, è una società libera, non solamente perché le si appartiene per libera scelta, ma — cosa ancor più importante — perché è costruita sulla conoscenza e sul possesso della verità di Cristo, la cui accettazione rende l'uomo libero (cfr Gv 8,32). Perciò le norme fondamentali della Chiesa, che derivano da quella verità, costituiscono "la legge perfetta, la legge della libertà" (Gc 1,25). San Giacomo, come si può notare, non dice "libertà dalla legge" o "libertà senza legge", ma "la legge della libertà": detto altrimenti, è nella legge di Cristo che troviamo la libertà.

    Altro concetto erroneo, tale da rendere nebuloso il nostro giudizio, è l'idea che in una società partecipativa o collegiale la legge sia meno vincolante: ciò è completamente falso. Questa idea riflette l'erronea credenza, già vista in precedenza, secondo cui il processo di "popolarizzazione" o di "democratizzazione" allenti i vincoli dell'autorità ed esima il popolo dal rispetto verso di essa. È errato pensare che il rilievo dato alla collegialità significhi sminuire l'autorità. La collegialità, al pari della sussidiartela, si riferisce a modi o processi per mezzo dei quali è possibile esercitare l'autorità in un corpo sociale. Si riferisce, specialmente, al modo attraverso cui si arriva a certe decisioni dell'autorità. Non può e non deve significare che esista meno autorità o che a ognuno sia consentito di disprezzare l'autorità, di ignorare le decisioni o le leggi legittimamente emanate e di fare ciò che vuole.

    Oggi alcuni sacerdoti e alcuni fedeli laici hanno assimilato buona dose del moderno spirito secolaristico, che ritiene particolarmente incresciosa la sottomissione all'autorità. Questo è certamente un problema; ma dovrebbe rimanere il loro problema. Quando parlano, scrivono e si agitano come se la maggior parte del popolo di Dio ritenesse oppressivo il giogo dell'autorità e preferisse essere sotto nessuna autorità, essi in sostanza estrapolano il loro problema e cercano di contagiare ad altri la propria inquietudine. Ritengo che tutti i cristiani d'oggi, così come quelli dei tempi passati, trovino difficile la legge di Cristo; tale è sempre stata. Ma i fedeli, nella stragrande maggioranza, non sono inclini a risentirsi con l'autorità ecclesiastica o a ribellarsi contro di essa. Nessuno, dopotutto, li costringe a essere cattolici o li obbliga, con gli inevitabili alti e bassi, a cercare di vivere da cattolici: sono cattolici perché lo vogliono essere. E sono essi che scelgono di ricorrere ai loro pastori per il ministero dei sacramenti, per la guida dottrinale, per la conduzione e il governo delle diocesi e delle parrocchie, e così via.

    Che alcuni individui, al di fuori della Chiesa, cerchino di creare uno stato di frizione tra pastori e popolo può essere deplorevole, ma abbastanza comprensibile. È anche comprensibile che alcuni sacerdoti, oppressi da inquietudini, giudichino il loro fardello una croce eccessiva (se lo portassero nella giusta maniera — il che significa anche in silenzio — potrebbe diventare una croce che salva e santifica). Ciò che non è altrettanto comprensibile è che alcuni di essi ravvisino il loro fardello — e, peggio ancora, cerchino di trasferirlo — nell'animo dei fedeli affidati alla loro cura pastorale. È dovere dei pastori portare in spalla la pecorella angustiata, non divenire pastori che suscitano angosce.

    Viene qui a proposito una breve, ma importante considerazione. Chi non rispetta l'autorità quando vi è soggetto, non è adatto a esercitarla; chi non ha mai obbedito alla legge difficilmente potrà amministrarla con giustizia. Molti possibili candidati all'episcopato sono senza dubbio privi di titoli da questo punto di vista.

    Qualche parola anche sull'esclusione dalla comunità. Uno può — forse — appartenere a "sé stesso" in modo proprio, ma non può appartenere a un popolo o a una comunità come gli aggrada; vi può appartenere solamente secondo una modalità comune. È la comune accettazione di fini, leggi e governo a definire un popolo.

    A un popolo si può appartenere solo in termini costituzionalmente sanciti. Un popolo deve avere una comune costituzione, scritta o no. Nel caso della Chiesa, il popolo di Dio, la costituzione comune le è stata data da Gesù Cristo. Quei cristiani che pretendono d'essere liberi di ridefinire o di riscrivere la costituzione a modo proprio, si separano dal popolo con un processo di autoemarginazione, per loro scelta.

    Una persona può venire esclusa dalla comunità — in altre parole, può essere scomunicata — con provvedimento di coloro che nella comunità sono investiti di autorità. Il pericolo oggi è piuttosto che una persona, rifiutando di accettare la legge comune, la comune eredità, il patrimonio del popolo di Dio, 51 scomunichi da sé (cfr cap. 16).

Rivendicazione dei propri diritti

    Abbiamo sottolineato l'obbligo per i membri di una comunità di accettare le giuste decisioni di coloro che hanno autorità. Ma che cosa accade se quelle decisioni sono ingiuste o dubbiamente giuste?

    Naturalmente, se una parte interessata ritiene che una decisione o azione sia lesiva del bene comune, o dei diritti degli altri oppure dei propri [4], a rigore di giustizia deve esserle allora possibile fare ricorso attraverso le opportune vie d'appello.

    Il titolo I del secondo libro del Codice di diritto canonico, che enumera i doveri e i diritti di tutti i fedeli cristiani, dice che "compete ai fedeli rivendicare e difendere legittimamente i diritti di cui godono nella Chiesa presso il foro ecclesiastico competente a norma del diritto" (can. 221§1); questo include il diritto di appello. Ogni fedele può quindi legittimamente ricorrere a un'autorità ecclesiastica più elevata se ha l'impressione che non gli sia stata fatta giustizia a livello inferiore. I canoni 1628 e seguenti trattano dell'appello contro i giudizi ecclesiastici, mentre i canoni 1732 e ss. del ricorso contro gli atti amministrativi.

    Col rilievo dato oggi ai diritti e ai doveri, è molto importante che tutti i fedeli, tanto laici quanto chierici, siano edotti dei loro doveri e dei loro diritti, nonché delle vie attraverso le quali, se necessario, essi possono tutelare i loro diritti contro atti abusivi od omissioni. I vescovi diocesani hanno la particolare responsabilità di rispettare il diritto dei fedeli ad appellare le decisioni dei tribunali diocesani presso i tribunali metropolitani o di superiore istanza (cann. 1438-1439). Impedirlo sarebbe un grave abuso di autorità e una violazione della giustizia.

    Attualmente si ha nella Chiesa una situazione in cui i chierici tendono a essere estremamente consapevoli dei loro diritti, ma forse non hanno un'analoga consapevolezza dei propri obblighi. I laici cristiani, per contro, sono piuttosto ignari sia dei propri diritti che dei propri obblighi; sanno poco del rilievo che il Concilio ha dato alla diaconia o servizio del clero e, di conseguenza, hanno scarsa conoscenza della natura del servizio che il clero è tenuto a fornire al laicato e al quale quindi essi, membri del laicato, hanno diritto.

    Abbastanza di frequente la stampa riferisce casi di chierici che si lamentano perché i loro diritti non sono sufficientemente rispettati da parte dei vescovi o della Santa Sede, ma ben raramente riporta analoghe lamentele di laici contro il vescovo o il parroco. Il contrasto è spiegabile in diversi modi. Può essere che i sacerdoti siano più rispettosi dei diritti dei laici di quanto non siano i vescovi e la Santa Sede verso i diritti dei sacerdoti. Oppure è possibile che i sacerdoti siano più attenti ai propri diritti di quanto non siano i laici nei confronti dei loro. O, ancora, può darsi che il laicato sia semplicemente ignaro dei propri diritti, e quindi inconsapevole delle eventuali violazioni di quei diritti commesse dai chierici.

    Consideriamo un chiaro esempio cui ci siamo già richiamati. I fedeli laici hanno diritto al servizio dei sacerdoti e di poter identificare le persone che sono incaricate di tale servizio. Il canone 284 prescrive che "i chierici portino un abito ecclesiastico decoroso". Buona parte dei chierici ravvisa un fastidioso onere in questa prescrizione; abbastanza comprensibilmente, trovano che gli abiti dei laici siano più comodi da indossare. Alcuni chierici sostengono che indossare abiti secolari li "avvicini" maggiormente ai laici, senza forse rendersi conto che molti laici disapprovano la mancanza di schiettezza percepibile in questa pratica. Altri, andando oltre, criticano aspramente l'uso dell'abito talare come se denotasse la ricerca di uno status sociale o la difesa di un sistema di "caste" sorpassato. A ogni modo, è un fatto che oggi pochi sacerdoti indossano regolarmente per strada un abito distintivo della loro condizione di chierici [5], e che i laici spesso si lamentano di non poter identificare i sacerdoti in pubblico. È difficile cogliere quali elementi di "rinnovamento" possano essere sottesi a questo fenomeno.

    Non è forse lecito dire che la questione dell'abito ecclesiastico è un argomento che i sacerdoti tendono a considerare da un punto di vista piuttosto ristretto e soggettivo — quello della propria comodità — e non nella prospettiva dei diritti dei fedeli?

    L'intento della legge è proprio che il sacerdote debba essere separato e distinguibile (cfr PO 3), non certo come un uomo che sia titolare di privilegi o che li reclami, ma come uno che è pronto in ogni momento a servire; l'evidente finalità della disposizione è che il popolo possa sempre identificare i propri ministri e servitori.

    Ben più grave della mancata osservanza della legge sarebbe perciò l'incomprensione di essa: non capire, cioè, che la norma intende ribadire una particolare espressione del servizio sacerdotale, nonché proteggere un importante diritto del fedele.

    Il canone 284 è un ulteriore esempio di come una legge indirizzata a coloro che servono è destinata a rimanere lettera morta se lo spirito di servizio non è abbastanza compreso o non abbastanza vissuto.

    Il generale ripristino dell'abito sacerdotale e religioso potrà ottenersi solo quando i chierici arriveranno a comprendere e ad amare la legge relativa all'abito ecclesiastico che è il segno della loro interiore disponibilità al servizio.

    Il processo potrà essere più veloce se i laici desiderosi di vedere i loro sacerdoti vestiti da sacerdoti (la grande maggioranza dei laici) ricorderanno a costoro che vi è una legge in tal senso e che questa legge conferisce al laicato un diritto e un'aspettativa che i sacerdoti non devono misconoscere. Ma, alla fine, sarà solo un rinnovato senso di servizio da parte dei sacerdoti che porterà a rinnovare il desiderio di essere disponibili e identificabili in ogni momento per la prestazione di quel servizio.

II nuovo Codice: una chiave per il rinnovamento

    Le considerazioni fin qui svolte indicano l'eccezionale importanza del nuovo Codice di diritto canonico promulgato nel 1983. Frutto di vent'anni di studi e di consultazioni tra Roma e i vescovi e periti di tutto il mondo, è stato ben definito "l'ultimo documento del Concilio Vaticano II". In effetti, esso cerca di dare espressione giuridica alla visione ecclesiale e allo spirito pastorale del Concilio, così che si potrebbe ben dire il Codice del Vaticano II o "la legge del popolo di Dio".

    Si tratta di una legge fondamentale di rinnovamento: se non si conosce, non si osserva e non si ama questa legge, non è possibile alcun rinnovamento del popolo di Dio.

    Sono perfettamente consapevole che quest'ultima affermazione può essere accolta in certi ambienti con corruccio o con ilarità; se tuttavia ciò accade, è segno di quanta confusione sia subentrata nel pensiero ecclesiologico e nel senso sociale di alcune persone. Tutti i nostri sforzi di rinnovamento saranno inefficaci e porteranno solo all'abuso, allo sconforto e al decadimento, finché non ci renderemo conto che l'amore di Dio e l'amore per il suo popolo implicano necessariamente l'amore per la giustizia e l'amore per la legge. I diritti non saranno rispettati, non si adempiranno i doveri, non si troveranno rimedi per gli abusi, il ministero non si manifesterà realmente come un servizio che comporta il sacrificio di sé, il popolo di Dio non vivrà nella vera armonia che deve connotare un popolo ne potrà "servire Dio in santità" (LG 9), se il rinnovato diritto comune del popolo — il Codice — non sarà conosciuto, rispettato e applicato.

    Il momento presente è infatti caratterizzato da un grave paradosso, dato che abbiamo un ottimo mezzo per il rinnovamento e poca voglia di usarlo. Abbiamo acquisito una legge eccellente, ma serbiamo un ben povero concetto del diritto.

    Il nuovo Codice giunge in un buon momento, quando sono in atto gli sforzi postconciliari di rinnovamento; ma anche in un cattivo momento. Giunge in un buon momento, perché ne abbiamo veramente bisogno; in un brutto momento, perché non vi siamo preparati. L'entrata in vigore del Codice del 1983 significa necessariamente mettere a prova la sincerità dei tentativi di rinnovamento.

    Il nuovo Codice avrebbe dovuto essere oggetto di trepida aspettativa, soprattutto da parte di coloro che sono chiamati a servire; invece, era temuto da molti. Quando fu promulgato, avrebbe dovuto essere accolto con gioia e messo in pratica con zelo; in realtà, corre il rischio di essere ignorato e di rimanere lettera morta. Se così fosse, noi cattolici potremmo diventare un popolo sempre più individualista e senza legge; e un popolo senza legge è non populus meus, "non è mio popolo", secondo le parole del Signore (cfr Os 1,9).

    Il nuovo Codice di diritto canonico, che esprime in forma giuridica l'ecclesiologia e lo spirito del Concilio Vaticano II, può giustamente essere indicato come lo strumento legale del rinnovamento.

    Si potrebbe però obiettare: è possibile attuare una riforma o un rinnovamento semplicemente mediante leggi o provvedimenti giuridici? Evidentemente no, almeno in una società volontaria come la Chiesa, se i membri stessi della società non appoggiano attivamente la legislazione.

    Tuttavia ribadiamo che, sebbene la legislazione di per sé non possa portare a una riforma, essa rimane condizione essenziale per la riforma stessa. Nessuna riforma spontanea è durevole e giusta se non diviene legge. Vale qui la pena richiamare ciò che è ovvio. Il Vaticano II, considerato come movimento o fenomeno di rinnovamento, non fu qualcosa di spontaneo ne ebbe inizio a livello di base; cominciò dall'alto, con Papa Giovanni XXIII, e il suo messaggio di rinnovamento ci è stato trasmesso attraverso la legislazione conciliare e postconciliare. È appunto questa legislazione che deve essere applicata a livello di base. Le misure di rinnovamento hanno bisogno di espressione, applicazione e protezione giuridica; diversamente, non diverranno effettive e non entreranno nella vita della gente, conferendo un rinnovato spirito cristiano al clero e al laicato.

    Abbiamo una legge rinnovata; ci occorre ora una visione rinnovata della legge, in modo da non metterla disinvoltamente da parte ne interpretarla soggettivamente. Il soggettivismo e l'individualismo rompono l'unità; nessuna comunità può costruirsi su individui ognuno dei quali sia legge a sé stesso. Una legge "comune" subordinata all'interpretazione soggettiva di ciascun membro di una comunità non è ovviamente una legge comune. Quando un popolo non si considera più soggetto alla legge, ma invece la sottomette a sé, allora la legge non è capace più di tenere unite le persone come un popolo; il popolo diviene un popolo senza legge e si frammenta.

Il popolo di Dio ha bisogno di una legge comune

    È questa la tesi della prima parte delle nostre riflessioni: se dobbiamo essere un popolo — e non una serie incoerente di gruppi o di individui — abbiamo bisogno di una legge comune; non possiamo divenire un popolo rinnovato senza di essa.

    Nonostante i numerosi risultati conseguiti negli ultimi venticinque anni, la questione del rinnovamento ecclesiale resta un grande punto interrogativo. La ragione principale è che molti fedeli in genere, e membri del clero in particolare, non avendo colto le più profonde implicazioni delle idee fondamentali del Concilio — communio, popolo, diaconia — non hanno neppure inteso che l'individualismo prevalente nel mondo laicizzato è agli antipodi di quei princìpi-chiave del Concilio e che la sua presenza nella Chiesa rappresenta un effettivo blocco al rinnovamento. Una fede individualistica è incompatibile con una vera partecipazione alla vita di un popolo.

    Individualismo è l'opposto di communio, di servizio, di ogni senso di appartenenza a un popolo o di ogni effettiva preoccupazione per il bene del popolo. Individualismo significa egocentrismo ed è affatto opposto a diaconici, communio, popolo di Dio, tutte espressioni che richiamano la centralità dell'altro.

    Questo è stato, e continua ad essere, il nostro problema: pensare che il rinnovamento sia compatibile con una mentalità ostile alla legge; cercare di coniugare communio e individualismo, altruismo ed egocentrismo, la preoccupazione per i diritti e il disprezzo per l'autorità.

    Il rinnovamento nella Chiesa non è mai stato opera di individualisti, come sono stati scismi ed eresie. Il rinnovamento è sempre stato portato avanti da persone radicate nella comunità, imbevute di spirito di servizio e dimentiche dei propri diritti personali.

    Liturgie "d'avanguardia", sermoni alla moda, sperimentazioni pastorali, non sono necessariamente una dimostrazione d'amore o di spirito di servizio per gli altri, mentre è tale la preoccupazione per i loro diritti. È questa la svolta decisiva cui dobbiamo giungere; quando sarà abituale per i sacerdoti domandarsi: «Quali sono i diritti dei fedeli? Quale servizio hanno diritto di attendersi da me? Che cosa devo loro?», allora i ministri saranno davvero servitori della comunità e costruttori della medesima; allora ci saremo avviati sulla strada del rinnovamento.

    Il Concilio, dimostrando una speciale preferenza per l'espressione "popolo di Dio", ha aperto prospettive giuridiche cui dobbiamo conformarci nella pratica. Una rinnovata ecclesiologia risulterà impossibile se non andrà di pari passo con un completo rinnovamento della scienza del diritto, nell'esatta comprensione della vera natura vivificante e liberatrice della legge e dell'autorità.

    Se vogliamo un concetto più positivo della legge, esso si rinviene nel fatto che la legge è la difesa della libertà, la carta in cui i diritti umani sono proclamati ed esibiti innanzi a tutti. Così come se vogliamo un concetto meno impersonale dell'autorità, lo troviamo nel fatto che dietro l'autorità della Chiesa sta Cristo, con la sua chiamata personale a trovarlo e a rispondergli: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Le 10,16).

    Non vi è dubbio che il Codice del 1983 sia possibile di migliorie nei suoi elementi umani. Ma il rinnovamento ecclesiale non può attendere un nuovo riassetto della legge; dipende dal definitivo rinnovamento della nostra posizione verso la legge. Ciò implicherà sia uno sforzo intellettuale, per comprendere il valore positivo della legge come protezione dei diritti, sia uno sforzo morale, per conformarci alla legge e adempiere i nostri doveri almeno con la stessa prontezza con cui difendiamo i nostri diritti.

    Sarà necessaria una serena e profonda riflessione, nonché un buon numero di rettifiche mentali, se vogliamo ben comprendere questi punti-chiave e agire di conseguenza.

    L'antico popolo eletto incominciò a essere un popolo — il popolo di Dio — quando gli fu data una legge. Si rigenerava, prosperava e adempiva la sua missione quando osservava quella legge; si avviò invece al declino spirituale, al decadimento sociale e alla servitù, quando se ne allontanò. Nessuno vorrebbe una legge tanto particolareggiata quale la caparbietà del popolo giudeo sembrava richiedere; abbiamo però bisogno di una legge sufficientemente specifica per garantirci che il nuovo popolo di Dio abbia accesso alla verità e alla grazia di Cristo, di maniera che la direzione che segue e il dinamismo di cui beneficia e che comunica vengano da lui.

    Solo un rinnovato popolo di Dio rigenererà il mondo. Dovrebbe essere facile interpretare i segni dei tempi. Il nostro mondo individualista ha bisogno della testimonianza di cristiani che abbiano superato l'individualismo e che amino i vincoli e i doveri comunitari che li legano e li tengono uniti. Il nostro mondo egoista ha bisogno della testimonianza di cristiani che vivano lo spirito di servizio e che amino quindi tutto ciò che promuove il bene del prossimo. Il nostro mondo senza legge ha bisogno della testimonianza di cristiani che amino liberamente la legge — la legge liberatrice — e che guardino all'autorità come custode dei diritti individuali e delle comuni libertà.

    Solo una Chiesa che sia veramente un popolo unito — unito negli ideali, nell'amore per le leggi, nel rispetto dei diritti, nell'accettazione dell'autorità — può essere quel popolo messianico che "costituisce per tutta l'umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza" (LG 9).

    Concluse queste considerazioni introduttive, passiamo ora a trattare argomenti più specificamente connessi alla libertà e all'autorità nella Chiesa. Comunque, un altro punto dovrebbe essere chiarito: l'atteggiamento antilegge nella Chiesa non si esprime solo contro l'autorità, ma anche contro l'istituzione; esso è, o tende a divenire, ostile all'intero concetto di religione istituzionale o di Chiesa istituzionale, che giudica un ostacolo alla libertà dello spirito, alla libertà di Cristo.

    Questo atteggiamento di sfiducia verso la Chiesa istituzionale, oggi così diffuso, è conseguenza non tanto di possibili abusi passati nel governo della Chiesa, quanto piuttosto dell'attuale affievolimento della fede nel modo in cui Cristo vive e opera nella Chiesa visibile,

    Pertanto, benché le nostre riflessioni abbiano preso avvio da talune nozioni giuridiche — legge, diritti, doveri —, ci muoveremo gradualmente, passando per i temi personalistici di libertà e di coscienza, verso prospettive ecclesiologiche, cercando di giungere a una comprensione della Chiesa vista non come istituzione meramente giuridica o autoritaria, ma come l'organo o lo strumento per mezzo del quale Cristo vivente continua a essere presente tra noi col suo potere e con la sua verità salvifici.

    In ultima analisi, non è l'aspetto meramente istituzionale della Chiesa che deve accendere il nostro amore, ma l'aspetto sacramentale: il mistero della Chiesa come "segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (LG 1).

NOTE

1 I riferimenti alla missione di servizio dei chierici permeano i documenti del Vaticano II. Cfr, per esempio: LG 21.24.27.28.32; CD 5.9.16.28; PO 3.13.16; GS 3.40.42.76.89.93; AA 3.8.10; e altri ancora.

2 Cfr can. 840 e SC 7.

3 Naturalmente, v'è in radice la questione teologica di chi è legittimato — per carisma conferito da Dio — a giudicare e sapere qual è l'autentico insegnamento di Cristo; una questione che studieremo nel capitolo 14.

4 Si spera che, se è un sacerdote, sia più sensibile ai diritti degli altri che ai propri.

5 Un contrassegno non è.ovviamente un abito.