01. POPOLO DI DIO SENZA LEGGE?

    "Popolo di Dio": ci siamo tanto abituati a questa definizione della Chiesa da dimenticare come sonasse strana per molti cattolici venticinque anni fa, quando cominciò a entrare nel linguaggio comune. La locuzione ha profonde radici bibliche ed è stata a lungo usata negli scritti teologici. Ma essa divenne popolare dopo che il Concilio Vaticano II l'ebbe scelta — preferendola ad altre espressioni bibliche e tradizionali — come la più adatta a evocare la visione conciliare della Chiesa e a riassumere in un solo e suggestivo concetto un intero programma di rinnovamento.

    Il Concilio è giunto come opera dello Spirito Santo, ma il compito del rinnovamento ecclesiale è posto nelle mani degli uomini. È ovvio che, per avere successo, questo compito deve attenersi fedelmente allo spirito del Concilio e, in primo luogo, poggiare su una corretta comprensione dell'ecclesiologia conciliare. In questo contesto, è importante ricordare che l'espressione "popolo di Dio" non costituisce il fondamento ultimo dell'ecclesiologia del Vaticano II. Il concetto-chiave nel pensiero conciliare sulla Chiesa è piuttosto quello di communio: comunione, unione.

    Il primo paragrafo della Lumen gentium dice che "la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (LG 1). Communio significa quindi essere una sola cosa con Dio in Cristo, nonché una sola cosa con gli altri uomini in Cristo; la Chiesa è il segno di questa comunione e, al tempo stesso, il suo strumento.

    Se communio risulta essere l'espressione teologica più concisa del mistero della Chiesa, altrettanto può dirsi che è la più astratta. Non deve pertanto stupire che il Concilio abbia scelto un termine che, avendo la communio come sfondo, esprima in maniera più concreta la natura e la missione della Chiesa. Così, il Concilio, al momento di svolgere la sua riflessione ecclesiologica, individuerà il mistero della Chiesa (cap. 1 della Lumen gentium) nell'espressione "Popolo di Dio" (cap. 2).

    La locuzione "popolo di Dio" va quindi intesa come un espressivo modo di rappresentare la più profonda realtà racchiusa nel concetto communio, analogamente del resto ad altri termini tradizionali usati per descrivere la Chiesa, specialmente quello di "Corpo di Cristo", cui la Lumen gentium dedica tutta la settima sezione [1].

    Ciò non vuol dire che la scelta dell'espressione "popolo di Dio" non sia significativa, o che ci comunichi un messaggio meno pregnante di quanto non faccia il più ampio termine communio. Al contrario, se il Concilio scelse deliberatamente questa espressione è perché essa è carica di uno speciale significato e apre ampi e precisi orizzonti al rinnovamento ecclesiale.

    "Popolo di Dio" sottolinea la vocazione peregrinante di questo nuovo popolo eletto, il suo destino escatologico nel cammino che attraverso la storia conduce alla Terra promessa. Ricorda la singolare gioia che i membri di questo popolo devono avere per essere stati chiamati e radunati da Dio, così da appartenergli e fruire di un nuovo titolo di giustificazione per invocare il suo amore, la sua guida e la sua misericordia. Riafferma inoltre, chiamando ogni cristiano a partecipare a un'impresa comune, la radicale uguaglianza della dignità cristiana, come pure i diritti e le grazie propri di ciascuno. Gli anni successivi al Concilio sono stati anni di investigazione e di scoperta del ricco contenuto racchiuso in questa particolare raffigurazione della Chiesa di Cristo. È un'operazione in cui siamo ancora impegnati.

    Questa riflessione intende mostrare come vi siano peculiari aspetti della vita ecclesiale e della vita cristiana che, come emerge necessariamente dalla esegesi dell'espressione "Popolo di Dio", nessun serio lavoro di rinnovamento può ignorare. Aspetti, purtroppo, ampiamente trascurati in questi ultimi decenni.

    "Popolo di Dio senza legge": dove mai si rinviene questa espressione? Certamente in nessun documento conciliare. Tuttavia, come concetto e persino come ideale, è stata fatta propria da molti teorici postconciliari con le più diverse motivazioni e finalità.

    Molte delle teorizzazioni postconciliari si sono basate sulla tesi che la legge e l'autorità siano forze oppressive, tali da restringere la libertà, violare la dignità umana e ostacolare il progresso. Secondo questa linea di pensiero, in definitiva, libertà significa non avere legge e, per essere libero, l'uomo deve rifuggire dalla legge.

    Si presume che la tesi trovi fondamento negli insegnamenti del Vaticano II: il Concilio, si afferma, canonizzando una ecclesiologia del Popolo di Dio, ha ratificato e concretamente invocato un modello di Chiesa più libera, meno soggetta alla legge e all'autorità.

    Questa tesi sarebbe operativa a un duplice livello. A livello individuale, si asserisce che l'accento posto dal Concilio sulla libertà e sui diritti della persona esime in certo senso il cristiano dalla soggezione alla legge. Si sostiene inoltre che i diritti e la libertà dell'uomo non dipendono da alcun ordine oggettivo, ma derivano piuttosto dall'ordine che egli stesso sceglie o pone. La moralità oggettiva soggioga; quella soggettiva libera. Ogni uomo deve liberarsi dal giogo di una legge morale oggettiva che non è stato lui a creare o a scegliere, ma gli è stata imposta. Analogamente, in materia di fede e di dottrina, di interpretazione delle Scritture, e altre questioni ancora, ognuno dovrebbe essere libero di costruirsi il proprio sistema di credenze, accettando o respingendo quelle che vuole, pur continuando a denominare cattoliche tali sue credenze.

    Secondo siffatta tesi, ogni uomo deve essere legge a sé stesso. Ma, come si vedrà nel capitolo successivo, un popolo composto di individui ciascuno dei quali è legge a sé stesso è un popolo senza legge.

    A livello istituzionale o strutturale, si afferma che dove esiste un'autorità (o un potere), essa si trova in mani sbagliate; è in possesso di una minoranza sfruttatrice — la gerarchia — e va rimessa nelle mani dei più: il popolo; il popolo deve essere liberato dal giogo di una gerarchia che non ha scelto.

    Una seconda rivendicazione, manifesta in certe teologie della liberazione, è di più recente comparsa, ma è logicamente connessa al soggettivismo morale e dogmatico che la precede e l'accompagna.

    La semplice considerazione che essere cristiano ha sempre significato essere soggetto — liberamente soggetto — alla legge di Cristo, già segnala che una mentalità antinormativa mal si adatta alla vita e alla società cristiane. Si è o si vive da cristiani, non per liberarsi dalla legge, ma per essere liberati mediante la legge: la legge di Cristo.

    L'atteggiamento antinormativo è in realtà totalmente innaturale per un cristiano. Nella misura in cui è presente nella Chiesa contemporanea, esso è qualcosa di estraneo importatevi dalla circostante cultura secolarizzata [2], dove evidenti ne sono gli effetti corrosivi sugli individui e sulla società. Inoltre — ed è la principale mia argomentazione — tale atteggiamento costituisce un ostacolo assoluto per ogni vero rinnovamento della Chiesa.

    Nei nostri sforzi volti a ricostruire la società ecclesiale dobbiamo fare assegnamento sulla grazia di Dio, ma anche sull'intelligenza umana che dovrebbe consentire d'imparare dagli errori nostri e degli altri. Lo spirito avverso alla legge, all'autorità, è uno dei grandi errori dell'uomo secolarizzato, che sta manifestamente rovinando la sua vita personale e minando la società civile. Dovrà rovinare anche la vita dei cristiani e minare la società ecclesiale? O noi cristiani saremo capaci di rinnovare la nostra comprensione della legge e dell'autorità, rigenerando così la Chiesa e il mondo?

    Argomento del capitolo seguente è il ruolo della legge e dell'autorità nella società umana in generale. Cercheremo di dimostrare come l'una e l'altra garantiscano e difendano i diritti umani. Il terzo capitolo condurrà alla conclusione che l'ecclesiologia del Concilio Vaticano II ci chiama insistentemente a rinnovare la nostra capacità di comprensione della legge e a rinvigorire il nostro amore per essa all'interno della Chiesa: condizione essenziale per un'effettiva e durevole opera di rinnovamento.

 

NOTE

1. È stato obiettato che l'ecclesiologia del Concilio Vaticano II non autorizza più l'espressione "Corpo di Cristo" riferita alla Chiesa: non è assolutamente vero. Un'espressione così pregnante, così profondamente radicata nel pensiero di san Paolo e nella Tradizione, non può "passare di moda". Tutto il n. 7 della Lumen gentium è dedicato ad evidenziarne la pienezza. L'espressione "Corpo di Cristo" o "Corpo mistico di Cristo" compare in numerosi altri passi dei documenti conciliari; per esempio: SC 7; LG 23. 50; CD 12. 16. 33; PO 1. 2. 5. 8; AA 2. 3; AG 7. 9. 16. 19. 38. 39; ed altri ancora.

2 La Dichiarazione sulla libertà religiosa dice che nel mondo moderno "non pochi, sotto il pretesto della libertà, sembrano propensi a respingere ogni dipendenza" (DH 8).