02. SOCIETA SENZA LEGGE?

    Nella società civile contemporanea è sempre più diffusa la tendenza al rifiuto della legge, che si esprime in molteplici modi: alcuni violenti, altri semplicemente immorali. Lo spettacolare aumento della criminalità, la corruzione e la frode accettati come fatti normali, i furti, il mercato nero, l'arbitrarietà nella condotta, l'uso unilaterale della forza, l'inefficacia degli organismi internazionali demandati alla pace e alla giustizia, il terrorismo, la mancanza di seri obiettivi, il teppismo, l'avversione per la polizia... tutto depone per il disprezzo e talvolta per un autentico odio nei confronti della legge e dell'ordine, nonché dell'autorità. Un fenomeno che ha poche analogie nella storia.

    L'uomo moderno secolarizzato è andato ben aldilà di Mr. Bumble, il portiere del collegio parigino nel David Copperfield di Dickens, la cui ponderata opinione era che "la legge è un asino". L'opinione di molti contemporanei sulla legge è ben peggiore: la legge non è solo un asino, una bestia da soma; è una soma da bestie, e pericolosa per giunta. È un nemico: un nemico della libertà e uno strumento di oppressione.

    L'autorità — che si era avvezzi a considerare come la forza morale che sta dietro la legge — non gode di migliore stima. Oggi l'autorità è per lo più identificata con la forza, politica o fisica (cfr cap. 11), così che può essere solo temuta; non è certo rispettata e può addirittura essere odiata; generalmente, viene disprezzata.

    Questa mentalità ostile alla legge e all'autorità pervade la società contemporanea. Si può riconoscere che abusi giuridici passati e presenti ne siano in parte la causa. Essa costituisce indubbiamente anche una reazione alla tendenza dello Stato moderno a esercitare controlli su quasi tutti i settori della vita dei cittadini, con la sensazione da parte di questi di essere soffocati dalla burocrazia e dalle leggi. Nonostante la permissività della legislazione attuale nell'ambito del comportamento sessuale, molte persone avvertono che le loro vite sono imprigionate in una rete sempre più stretta di prescrizioni legali.

    Questa mentalità è spesso congiunta a uno struggente desiderio di "democrazia", intesa non come mero sistema elettorale, ma piuttosto come espressione di una società in cui i cittadini siano investiti delle questioni di merito invece di essere considerati oggetti manipolabili da burocrazie senz'anima; una società fondata meno sulle strutture e più sulle relazioni interpersonali, nella quale vi sia meno legge e autorità o, almeno, dove l'autorità venga esercitata in modo più umano.

    Alcuni vanno oltre. Quanto più impersonali e oppressivi sembrano loro i governi e i sistemi, tanto più sognano una società "ideale" in cui — a loro giudizio — la libertà sussisterebbe senza leggi e sarebbe appunto conseguenza dell'assenza di leggi. Nella democrazia dei loro sogni — una società veramente "popolare" — il giogo dell'autorità scomparirebbe completamente. E, quando si risvegliano dai loro sogni, sospirano: «Se soltanto fossimo liberi da leggi!...».

    Tutto ciò non è altro che illusione. In realtà, una società senza leggi non sarebbe un bel sogno, ma un incubo. La legge, come si cercherà di dimostrare, è assolutamente necessaria per qualunque società in cui il popolo sia investito di responsabilità. Altrettanto dicasi del rispetto per la legge.

    Nessun ente morale o volontario può sopravvivere a una perdita generalizzata del rispetto per la legge da parte dei suoi membri. Se i membri di un'associazione calcistica, per esempio, perdono il rispetto per le leggi del club, essi l'abbandonano; e allora il club o acquisisce dei nuovi membri che le rispettino, oppure si scioglie. Una società politica ovunque nel mondo può sopravvivere alla perdita del rispetto per le leggi e per l'autorità da parte dei suoi cittadini solo diventando uno Stato di polizia. Se i membri di una società non si adeguano volontariamente alle norme, dal momento che non possono lasciare la società, vi saranno sottomessi con la forza.

    Questo movimento antilegge è ancora in fase crescente. Le conseguenze sociali e politiche sono appena all'inizio. Ma è già evidente che l'attuale società civile non è in buone condizioni di salute. Essa può aver sofferto o tuttora soffrire per leggi ingiuste o per un ingiusto esercizio dell'autorità; ma l'atteggiamento ostile all'autorità e alla legge è una malattia ancora più fatale. Le cattive leggi sono una brutta cosa; l'assenza di leggi, il rifiuto di ogni legge, è ancora peggio. L'anarchia, cioè l'assenza di qualsiasi legge e di qualsiasi governo, significa il collasso della società.

Per i diritti e contro la legge?

    Per aiutare l'uomo moderno a sfuggire a questa trama aggrovigliata di pregiudizi e a fargli comprendere la natura positiva della legge, si può trovare un accettabile punto di partenza, una posizione che lo spirito moderno ha poca difficoltà a condividere: può esser trovato, a mio parere, nel movimento a favore dei diritti umani.

    La maggior parte delle persone ama oggi dichiararsi a favore dei diritti umani. È una buona posizione. Ma essa non può conciliarsi con una mentalità antilegge. Una persona che sia a favore dei diritti umani deve essere contro le cattive leggi, ma deve parimenti essere a favore di buone leggi. Una generalizzata mentalità antilegge non ha senso in una persona che sia a favore dei diritti umani per la semplice ragione che i diritti umani, i quali vengono prima delle leggi umane, richiedono nondimeno il riconoscimento e la protezione delle leggi umane.

    La filosofia dei diritti umani rigetta necessariamente la tesi che l'uomo possieda solo quei diritti che gli vengono riconosciuti dallo Stato: i diritti dell'uomo, infatti, non derivano dallo Stato, ma dalla natura umana [1]. È in quanto uomo, e non in quanto mero cittadino, che egli possiede i suoi diritti umani fondamentali; e li possiede sia che la legge civile dello Stato glieli riconosca sia che no. È appunto quando la legge civile non li riconosce che si ha una violazione legalizzata dei diritti umani.

    Le leggi civili ingiuste sono una violazione dei diritti umani; le leggi giuste ne sono la necessaria protezione. Tre considerazioni in particolare dimostrano questa tesi:

    1) se i diritti devono essere protetti, essi devono essere definiti; è compito della legge definire i diritti;

    2) se il diritto di una persona viene violato, occorre un rimedio efficace, una procedura che gli altri devono rispettare; anche questo è compito della legge: dei tribunali e dei giudici, nonché dei mezzi di coercizione legale;

    3) i diritti implicano dei doveri. Se io ho un diritto di proprietà, gli altri hanno l'obbligo di rispettare il mio diritto alla mia proprietà, così come io ho l'obbligo di rispettare il loro diritto alla loro proprietà. E questi doveri — il rispetto dei diritti degli altri — devono anch'essi essere regolati dalla legge.

    La campagna per i diritti umani, dopotutto, è volta ad abolire le leggi ingiuste e a sostituirle con leggi giuste; è volta al riconoscimento dei diritti umani delle persone e alla loro tutela da parte della legge civile. Se i diritti non sono protetti dalla legge, le persone finiscono inevitabilmente sfruttate.

    Il terzo rilievo sopra indicato merita una speciale considerazione. Nessuna filosofia dei diritti (e quindi nessuna protezione giuridica dei medesimi) può escludere il riconoscimento degli obblighi corrispondenti. Se io affermo il mio diritto alla libertà di parola, per esempio, e mi avvalgo sistematicamente di questo diritto per denigrare o ridurre al silenzio gli altri, allora io non difendo i diritti dell'uomo, ma i miei comodi: non accetto l'obbligo di rispettare i diritti degli altri perché le restrizioni che ne deriverebbero mi arrecano disturbo.

    È vero che la legge implica sempre qualche restrizione e che le restrizioni sono fastidiose, almeno a prima vista. Ma solo un approccio superficiale ed egoistico non sa vedere altro che le restrizioni imposte dalla legge. Una visione più profonda e più matura guarda alla legge in termini di reciproci diritti e doveri; e le restrizioni appaiono allora come la necessaria conseguenza dell'interazione tra diritti e doveri [2].I miei giusti diritti limitano quelli degli altri nel senso che essi sono obbligati secondo giustizia a rispettare i miei diritti. E, analogamente, i loro giusti diritti sono per me una limitazione in quanto io sono giustamente obbligato a rispettarli. La tutela dei diritti di tutti pone necessariamente delle restrizioni alla libertà di alcuni: alla mia, alla tua. Ora tocca a me cedere il passo a un incrocio, ora tocca a tè; se nessuno di noi è disposto ad attendere si ha lo scontro e, al limite, l'anarchia nel caso in cui tutti si comportassero allo stesso modo.

    Le restrizioni possono essere quindi fastidiose, ma sono indispensabili per difendere la mia libertà e quella degli altri. Se è vero che una legge reca sempre disturbo a qualcuno, è altrettanto vero che, se la legge in questione è giusta, quel disturbo è una buona cosa: esso costituisce lo scotto richiesto ai singoli a vantaggio degli altri o del bene comune. La maggior parte delle persone, se riflette su questo punto, è in grado di apprezzarlo. La loro risposta alla legge non deve pertanto essere di mera sottomissione o di obbedienza riluttante: può e dovrebbe essere una risposta gradita a quella che va riguardata come un'ammirevole disposizione di giustizia.

    Perciò la tesi secondo cui la rilevanza accordata ai diritti individuali significa una devalorizzazione della legge è completamente falsa. Evidenziare i diritti significa evidenziare anche i doveri, e dunque sottolineare che la legge è mezzo per la protezione dei diritti e il rafforzamento dei doveri.

    Le Dichiarazioni dei diritti sono state frequenti nella storia e hanno riscosso generale consenso, mentre molto meno numerose sono state le Dichiarazioni dei doveri che non riscuoterebbero lo stesso favore pur essendo ugualmente necessarie. Una generale e volontaria accettazione dei doveri è un test realistico di buona salute sociale, nonché un segno infallibile del rispetto di ciascun membro di una comunità per i suoi simili [3].

    Se siamo sinceramente a favore dei diritti umani dobbiamo amare e difendere i nostri diritti; ma dobbiamo parimenti amare e adempiere i nostri obblighi, perché questo significa amare i diritti degli altri: è il test per chi ama veramente i diritti umani. Se io amo solamente i miei diritti, allora posso facilmente giungere ad amare i torti agli altri, cioè i torti che, nell'affermazione di me stesso, quasi certamente farei loro.

    L'effettiva presenza della giustizia in una società dipende sempre dalla coscienza che la gente ha dei propri obblighi e dalla sollecitudine con cui li adempie. Questo è vero per le persone come è vero per le classi sociali, ricche e povere. La classe che è consapevole solo dei suoi diritti e non anche dei suoi doveri è facilmente indotta a difendere i suoi diritti agendo con ingiustizia.

Interesse personale o bene comune?

    A questo punto, possiamo vedere quanto sia grande la differenza tra una società i cui membri abbiano un genuino spirito di partecipazione e una società i cui membri siano imbevuti di individualismo.

    Una società può veramente essere definita "partecipativa" quando la maggior parte dei suoi membri condivide la preoccupazione per il bene comune; è disposta a porre le esigenze al di sopra degli interessi personali di ciascuno; è fiera che il principio della giustizia valga per tutti ed ha coscienza della comune responsabilità di rispettare le leggi che applicano quel principio alla vita sociale.

    Una società in cui predomini l'individualismo manifesta tendenze opposte: la nozione di bene comune è oscurata o dimenticata; l'interesse personale diventa norma suprema; vengono messi in risalto i diritti, ma non i doveri; la giustizia è buona quando è "giustizia per me", ma non altrettanto buona quando significa "giustizia per tè"; la permissività, in luogo della giustizia, diventa il principio-guida della legge. (Il fatto che le leggi permissive, anche quando sono ben accette e se ne fruisce, non sono mai oggetto di ammirazione, dimostra come la gente percepisca che tali leggi sono prive di reale giustizia).

    Spesso le leggi permissive consentono semplicemente che la gente violi i propri obblighi verso gli altri. Una persona sposata che eserciti il "diritto" al divorzio, viola il diritto dell'altro coniuge alla fedeltà (che il più delle volte è ciò che questi vuole) e, specialmente, viola il diritto dei loro figli a una famiglia unita, un bene che i figli vogliono sempre.

    La teoria della permissività vuole che ogni uomo abbia il diritto di essere legge a sé stesso, almeno nella vita personale e privata. Ma la vita pubblica è costruita sulle vite e i valori degli individui; e così la mentalità permissiva genera uno spirito di insofferenza alla legge anche nella vita pubblica e sociale, un fenomeno che, come si può costatare, diviene sempre più pervasivo.

    Il filosofo permissivista può asserire che la legge è nemica della vita e che l'abolizione della legge favorisce la vera crescita e la sana spontaneità: ma non è affatto così. La vita organica, la vita corporea o intellettuale di un individuo, e in modo singolarissimo la vita sociale di una comunità, si sviluppano sanamente solo se seguono certe leggi di salute e di crescita. Il mancato adeguamento a queste leggi da luogo nel migliore dei casi a un arresto nella crescita e, nel peggiore, alla distruzione. Un corpo può crescere solamente se le cellule e i tessuti rispettano le leggi di crescita che sono loro peculiari, nonché le appropriate relazioni reciproche; una cellula "senza legge" è una cellula cancerosa e la sua crescita spontanea può condurre a morte l'intero corpo. Questo vale anche per il corpo sociale.

    Una società individualista è una struttura imperfetta. Avendo perduto le forze spirituali interne che la tengono insieme — spirito comunitario, senso della giustizia, amore per il bene comune — essa tende all'arbitrio e alla disgregazione.

La forza della legge

    Essere ostile alla legge significa essere antisociale, contro gli altri; significa, nel senso più proprio, essere antidemocratici. La mentalità antilegge non favorisce ne tutela le libertà popolari: promuove la libertà per pochi — il potente, il furbo, chi è privo di scrupoli — di sfruttare il popolo, consapevole d'altronde che, quanto più cresce la mentalità antinormativa, tanto più viene erosa la capacità della legge di proteggere i diritti dei cittadini.

    La società ha bisogno della forza della legge. È tuttavia da rilevare che non si può certo dire che la legge sia forte quando viene temuta e rispettate per paura; se la forza fosse dovuta semplicemente al fatto che poggia su un potere coercitivo, allora forte non sarebbe la legge, ma il potere che vi è dietro. La legge deve esser forte in sé stessa, e ciò avviene unicamente in virtù della sua giustizia.

    Sia i governi sia i cittadini devono rendersi conto che l'autorità della legge non deriva, in definitiva, dal fatto che essa sia espressione della volontà di un partito o del popolo. La sua forza vincolante non scaturisce dal consenso popolare (come non viene inficiata dal dissenso popolare): promana dalla giustizia. Una legge non possiede maggiore autorità quando sia approvata da molti, e minore quando sia promulgata da pochi o persino da uno solo. Un provvedimento giusto deve essere osservato — è cioè fornito di autorità — anche se si tratta di una decisione presa da una minoranza; così come a un provvedimento ingiusto bisogna resistere — manca di autorità — anche se è sottoscritto da una schiacciante maggioranza. Una legge giusta è vincolante sia in uno Stato democratico che in uno Stato totalitario; una legge ingiusta non obbliga in nessuno dei due.

    L'eccesso di produzione normativa è indubbiamente una delle calamità del ventesimo secolo. Le società contemporanee potrebbero certo funzionare con un numero più esiguo di leggi, ma nessuna società potrebbe operare con minor giustizia o meno rispetto per essa. Una "democrazia" in cui il popolo si senta libero di non rispettare la legge non è una società di popolo, ne le libertà popolari sopravviveranno a lungo.

    Il concetto positivistico o volontaristico della legge — e cioè che la forza della legge derivi semplicemente dalla volontà del legislatore umano — non potrà mai assicurare l'armonia in una società (oltretutto, perché una minoranza dovrebbe rispettare la volontà della maggioranza?).

Inchinarsi all'autorità?

    Gli anarchici rifiutano per principio ogni legge. La maggior parte delle persone, anche se imbevute di mentalità antilegge, non giunge a tanto: accettano alcune leggi come male necessario. Tuttavia queste medesime persone serbano spesso un'inflessibile ostilità verso ogni forma di autorità, poiché ravvisano in essa un indebito privilegio esercitato da alcuni individui su altri. Dicono di non esser disposte a inchinarsi dinanzi all'autorità; questo comportamento sembra loro degradante in quanto implica che alcuni uomini si ritengono superiori agli altri e siano riconosciuti tali.

    In certo senso, a meno di non essere molto orgogliosi, dovremmo essere sempre pronti a inchinarci innanzi a ogni persona per il fatto che essa è immagine di Dio. Ai fini del presente lavoro possiamo comunque sorvolare su questo particolare aspetto e dire semplicemente che ciò che viene sottinteso nel rispetto dimostrato all'autorità non riguarda tanto le persone quanto la relazione tra le persone; è la coscienza del carattere sacro della giustizia — la volontà di dare a ciascuno quel che gli è dovuto —, e dunque la disposizione a venerare la giustizia, che ci induce a chinare il capo di fronte ad essa come valore fondamentale dell'umana società.

    Essere "contro il governo" è un'espressione usuale dell'atteggiamento ostile all'autorità. Molta gente tende abitualmente ad essere troppo sospettosa nei confronti di qualunque governo. Anche quando non è strumento di reale oppressione, un governo implica sempre governanti e sudditi, e sembra perciò richiamare idee di superiorità e inferiorità. Non è degradante essere "sotto" un'autorità?

    L'autorità pone certamente una relazione tra coloro che la esercitano e coloro che le sono soggetti. Ma essa non è necessariamente una relazione di potere; non dovrebbe essere basata sulla forza ne sull'abilità di ridurre altri in soggezione. In una società sana si tratta di una relazione di libere volontà, debitamente ordinate alla giustizia e al bene comune. Per sua natura, quindi, essa implica ragione e libertà sia in chi esercita l'autorità sia in chi l'accetta. Una serena riflessione ci dice che dove l'autorità viene rettamente esercitata nell'applicazione di leggi giuste, essa non si oppone alla libertà personale che, anzi, promuove e serve.

    All'uomo riflessivo l'autorità legittima appare allora come un bene positivo. Il principio di autorità ha per lui una certa sacralità, poiché manifesta la presenza della giustizia nella società. L'accettazione dell'autorità è un atto ragionevole. L'obbedienza all'autorità diviene un atto di libertà e un segno di maturità. Dietro la legittima autorità sta la volontà di Dio (cfr Rm 13,1); questa la ragione più profonda della sua sacralità. L'accettazione dell'autorità è perciò un vero atto religioso, come tale è l'esercizio dell'autorità. Chi esercita l'autorità è consapevole che il potere morale di cui è investito proviene dall'alto (cfr Gv 19,11), e che dovrà rispondere di ogni mancanza se non esercita l'autorità nello spirito della giustizia divina.

    Queste considerazioni dovrebbero anche aiutarci a comprendere quanto sia falsa la tesi secondo cui la "democratizzazione" di una società significa che le leggi sono meno vincolanti e che l'autorità deve essere meno rispettata; se mai, è vero esattamente il contrario.

    Se per democratizzazione intendiamo che la gente è più partecipe e responsabile degli affari che interessano la comunità, allora essa — ciascuno — dovrebbe essere maggiormente consapevole del bene comune, dei diritti degli altri, nonché della forza vincolante della legge e del rispetto dovuto all'autorità. La libera adesione a questi valori attesta il senso "democratico" e la maturità delle persone.

    In una società veramente partecipativa ogni cittadino condivide la generale sollecitudine per il bene comune. Una società di individualisti non può mai essere una società realmente democratica o partecipativa. Infatti, una società o una comunità di individualisti è una contraddizione in termini; un popolo di individualisti non è un popolo.

    Ogni società ha bisogno di un'autorità che governi; solo gli anarchici lo negano. Una società può soffrire per l'uso ingiusto dell'autorità, ma soffrirà anche se la giusta autorità non è rispettata. Una società è in buona salute ed è forte quando le leggi sono giuste, l'autorità viene esercitata con fermezza, senza parzialità e secondo la legge, e i membri della società sono obbedienti al dettato normativo e rispettosi dell'autorità.

    Il movimento per i diritti umani sollecita urgentemente l'uomo moderno a ritornare alla vera filosofia del diritto. Le filosofie positivistiche o volontaristiche — causa fondamentale se per molti l'accoglimento della legge è divenuto sinonimo di servilismo — devono essere abbandonate. Occorre ristabilire una filosofia del diritto basata sulla legge naturale.

    Non è possibile alcuna forma di società se ogni uomo è legge a sé stesso. L'uomo senza legge si pone al di sopra o al di fuori della legge; diviene fuorilegge: un nemico della società, una minaccia per i diritti degli altri, per gli interessi di tutti, per il bene comune.

    Una società richiede pertanto una legge comune, cioè una legge applicabile a tutti con eguale giustizia, vincolante per tutti e accettata da tutti. Questa legge comune a tutti gli uomini è la legge naturale. Negare l'esistenza di una legge naturale significa negare l'esistenza di una natura umana universale, di una comune umanità che vincola tutti gli uomini. Renderebbe priva di significato ogni filosofia dei diritti umani e dissolverebbe la società umana. Oltre, e al di sopra della legge naturale, i cristiani hanno la loro legge comune nella legge di Cristo. Questa legge è loro legame e guida, regola i reciproci diritti e doveri, è la base della vita e della libertà in comunione con Cristo e tra loro.

L'esecuzione della legge

    La legge non configura una teoria o un'astrazione, ma deve servire come norma pratica d'azione. Se la legge si limita a enunciare o a definire dei diritti, essa può certo essere ottima ma è inutile; deve proteggere quei diritti contro eventuali trasgressori e deve predisporre rimedi nel caso in cui siano violati.

    Che cosa accade se chi viola dei diritti è a conoscenza della legge, ma non vuole adempierne gli obblighi o vi rifugge? Come imporre il rispetto della legge e riequilibrare la bilancia della giustizia in una situazione di tal genere?

    Nello Stato l'esecuzione della legge è normalmente compito della polizia, dotata di mezzi fisici adeguati a imporre l'osservanza di una decisione legale. In tale evenienza l'effettivo conseguimento della giustizia dipende dalla forza, ma anche dall'integrità di coloro che sono incaricati di far rispettare la legge. Se la polizia è negligente o debole, ma soprattutto se è corrotta (per esempio, può essere subornata da una parte interessata), accadrà facilmente che il giudizio del tribunale che ha ristabilito nei suoi diritti un cittadino rimanga lettera morta: questi non può ottenere il risarcimento del danno inflittogli o rientrare nel possesso del bene che gli era stato arbitrariamente sottratto.

    In un'istituzione morale e volontaria come è la Chiesa non vi è forza di polizia; non vi è alcun mezzo per costringere fisicamente una persona a obbedire alla legge e ad adempierne gli obblighi volontariamente assunti.

    La difesa dei diritti e la forza coercitiva della legge deve allora seguire una strada diversa: quella di un processo morale in cui l'effettiva solidarietà della società è messa alla prova. In questa situazione le persone libere e responsabili devono avere piena consapevolezza del proprio compito e agire di conseguenza, se si vuole che la giustizia trionfi.

    Una volta che un debito processo abbia stabilito che qualcuno ha violato determinati diritti del bene comune, chi è investito di autorità deve indirizzare a tale persona un'intimazione morale: «Rispetta questa legge; accetta questa decisione; obbedisci». A sua volta, la persona così sollecitata è tenuta a rispondere in libertà: «Rispetterò la legge; obbedirò; farò ciò che mi si chiede». È una sfida morale, nel senso che la persona viene sollecitata a essere leale verso gli impegni liberamente assunti mediante la scelta di appartenere a quell'istituzione volontaria. Uno dei principali impegni è la prontezza nell'accettare le decisioni della legittima autorità che governa la comunità.

    Un individuo appartiene veramente a un "popolo" quando vuole non solo il proprio bene — quantunque possa costare al popolo —, ma anche il bene del popolo, anche se possa essere costoso per lui. Questa lealtà al bene comune stimola la responsabilità negli individui membri di una comunità — nel senso di obbedire al giusto esercizio dell'autorità, senza lamentarsi o compiangersi —, così come stimola la responsabilità in coloro che governano la comunità, per un giusto esercizio dell'autorità senza timori o debolezze.

    Il giocatore di calcio che rifiuta di accettare il cartellino giallo che gli venga giustamente mostrato, è irresponsabile e inidoneo al calcio, al pari dell'arbitro che non esibisce il cartellino giallo quando le regole del gioco — il bene del gioco — lo richiedono. Sarebbe puerile la pretesa di appartenere a un'istituzione volontaria senza accettare l'autorità ad essa inerente; puerile come l'atteggiamento di chi volesse partecipare a un gioco, ma solo a condizione di non dover obbedire all'arbitro o di poter giocare secondo le "regole" che egli stesso inventasse momento per momento.

 

NOTE

[1] Una coerente filosofia dei diritti umani implica necessariamente che si creda a una comune legge della natura umana, cioè alla legge naturale.

[2] «Nell'esercitare i propri diritti i singoli uomini e i gruppi sociali in virtù della legge morale sono tenuti a tener conto tanto dei diritti altrui quanto dei propri doveri verso gli altri e verso il bene comune di tutti» (DH 7).

[3] II Codice di diritto canonico del 1983 elenca nei particolari i doveri e i diritti dei cristiani: dei fedeli in generale (cann. 208-223), dei laici (224-231) e dei chierici (273-289). E interessante notare, come indicato dal titolo di ogni sezione, che gli obblighi sono specificati altrettanto bene quanto i diritti: non solo, ma prima di essi.