08. LA LEGGE COME DONO

     L'uomo sarebbe potuto essere una creatura senza legge in un mondo privo leggi; si sarebbe trovato in uno stato ben miserevole: un essere vivente senza meta ne direzione, alla mercé di forze esterne fortuite e tiranneggiato da interni desideri e passioni in conflitto; un essere senza legame o norma — ne di amore ne di giustizia — nelle sue relazioni con gli altri; nient'altro che una lotta senza senso dentro e fuori.

     Dio non ha creato così l'uomo. L'ha posto in un mondo che possiede un ordine strutturale, espresso in leggi fisiche; e ve l'ha messo perché lo sviluppasse ulteriormente. Così facendo, l'uomo avrebbe umanizzato il mondo e sé stesso dando alle realtà creaturali un carattere morale e una finalità che sarebbe stata un riflesso ulteriore della sapienza e bontà di Dio.

     Dio ha creato l'uomo come un essere ragionevole e libero, capace di scoprire il piano divino e le potenzialità della creazione, di modellare liberamente il creato in armonia con quel piano e di realizzare così sé stesso. Dio fece l'uomo per un fine determinato; gli diede il dono della libertà per il controllo delle sue azioni e il dono della legge per guidare la sua libertà. La libertà richiede la legge. La libertà che non sa che cosa scegliere o dove andare è inutile: peggio ancora, è autodistruttiva. La libertà esige delle direttive degne di fiducia: esige la legge.

     La legge è un dono di Dio all'uomo. È un dono mediante il quale Dio indica all'uomo i suoi disegni d'amore.

     Possiamo distinguere tre livelli o stadi di questo dono: la legge di natura, la legge mosaica e la legge di Cristo.

La legge di natura

     È la legge naturale quella che, come dice l'apostolo Paolo, è scritta nel cuore di ogni uomo; realtà — aggiunge — che è attestata dalla coscienza (cfr Rm 2,15). Mediante la riflessione intelligente e l'ascolto della coscienza, l'uomo scopre la legge della propria natura: il modo in cui è tenuto a vivere, la direzione che deve seguire per realizzare le potenzialità della sua natura umana.

     La coscienza è l'eco della legge naturale, il suo primo portavoce. Anche la coscienza è un inestimabile dono di Dio, un sistema di sicurezza divinamente predisposto per guidarci sulla giusta via, per metterci in stato d'allarme innanzi al pericolo di danni morali, per salvaguardarci dall'intraprendere cammini di autofrustrazione e di autodistruzione.

     Bisogna rispettare la coscienza e obbedirle. Se non si obbedisce alla coscienza, se viene sottomessa all'orgoglio o all'egoismo anziché alla verità, se è manipolata, allora si respinge il dono della legge, si pecca contro la luce, si commette un suicidio morale e si resta indifesi contro l'egoismo e tutto quanto il processo di frustrazione dell'uomo.

La legge mosaica

     II piano divino, tuttavia, non fu che l'uomo vivesse solamente a livello di natura. Dio aveva ulteriori e più alti disegni per l'uomo: progetti che, come tali, non erano iscritti nella natura umana, ma dovevano essere rivelati.

     La Rivelazione ebbe inizio con i patriarchi. La legge della prima Alleanza fu data da Dio a Mosè e, tramite questi, alla nazione che Dio aveva scelto. Era la legge che doveva guidare Israele come popolo chiamato a ricevere, a suo tempo, la pienezza delle promesse divine.

     Dalla prospettiva della legge di Cristo, che avrebbe dovuto poi sostituirla, la legge mosaica è imperfetta. Tuttavia, abbiamo ancora molte cose da imparare dall'Antico Testamento: non tanto dalle norme legali in sé, quanto dalle disposizioni del popolo eletto verso la legge.

     Gli Israeliti erano fermamente convinti che la legge, che avevano ricevuto come popolo in cammino nel deserto verso la Terra promessa, fosse un segno e una prova dello speciale favore di Dio verso di loro.

     Il possesso della legge li privilegiava tra le nazioni, come Jahvè stesso aveva loro ricordato: «E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo?» (Dt 4,8). Questa legge era un dono che nessun'altra nazione possedeva, e la sua superiorità sarebbe motivo di invidia per gli altri popoli, "i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente" (Dt 4,6).

     Per gli Ebrei, i libri della legge contenevano la sapienza divina rivelata agli uomini (cfr S;r 24,23-39). La conoscenza della legge era un privilegio e un pressante dovere. L'osservanza della legge era una fonte di benedizione e segno della libera risposta di ognuno all'alleanza con Dio. Per ogni pio israelita la legge non era un giogo, ma un favore divino e un dono privilegiato da custodire gelosamente: «Essa è il libro dei decreti di Dio, è la legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno. Ritorna, Giacobbe, e accoglila, cammina allo splendore della sua luce. Non dare ad altri la tua gloria, ne i tuoi privilegi a gente straniera. Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato» (Bar 4,1-4).

La legge di Cristo

     La legge di Cristo è il dono supremo, la rivelazione definitiva della sapienza, della bontà e del disegno di Dio; indica all'uomo un nuovo cammino, ne fa un essere nuovo e gli da una nuova vita. Il nuovo popolo di Dio è la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che l'ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce (1 Pt 2,9), per partecipare alla natura divina (2 Pt 1,4), per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8,18-21).

     La legge di Cristo ci rende più liberi per un più grande destino. La legge di Cristo è un dono divino, al pari della legge di Mosè, ma incomparabilmente superiore. Se gli Ebrei, nei loro momenti migliori, furono grati per la legge di Mosè, noi dobbiamo essere ben più grati per la legge di Cristo. Ma la nostra gratitudine deve poggiare proprio sul fatto che la legge di Cristo è una legge, che ci dice che cosa dobbiamo fare o non fare. La legge di Cristo, come ogni altra legge, ha il suo contenuto oggettivo e le sue esigenze: talvolta dure esigenze.

     Alcuni, come abbiamo visto in precedenza, utilizzano la frase di san Giacomo che definisce il Vangelo "la legge perfetta, la legge della libertà" (Gc 1, 25) come se significasse che al cristiano è consentito di fare tutto ciò che gli aggrada: un'opinione totalmente falsa. La legge cristiana della libertà pone esigenze molto esplicite e tutt'altro che facili; per esempio:

     — serbare il cuore libero da ogni avarizia (Lc 12,15; Mt 6,19-21);

     — perdonare gli altri senza mai giudicarli (Mt 6,15; 7,1);

     — evitare gli sguardi e i desideri impuri (Mt 5,28);

     — rispettare l'indissolubilità del matrimonio (Mt 19,6);

     — obbedire a Cristo che ci parla attraverso coloro che hanno autorità nella sua Chiesa (Le 10,16);

     — riceverne il Corpo con le dovute disposizioni (Gv 6,53; 1 Cor 11,27-30).

     I comandamenti sono la via della libertà perché sono la via della verità. Nel Vangelo di san Giovanni ci viene detto che, se conosciamo la verità, la verità ci farà liberi (Gv 8,32); ma a ciò è doveroso aggiungere il chiaro avvertimento della prima lettera di san Giovanni secondo cui la verità non dimora nella persona che non osserva i comandamenti di Dio (1 Gv 2,4).

I privilegi dei cristiani

     Se non osserviamo gli obblighi della legge di Cristo non abbiamo diritto a goderne i privilegi, che sono veramente grandi e sui quali vale la pena insistere, molto più che sugli obblighi.

     I cristiani hanno diritto a tutti i mezzi idonei a renderli figli di Dio (cfr can. 213). Come frutto della loro santificazione personale, hanno il diritto e la missione di esercitare il loro sacerdozio regale, elevando il mondo a Dio (cfr can. 225).

     Il dono e la necessità della legge si rivelano proprio nel fatto che la legge esprime e protegge il nostro cammino verso Cristo. Guarderemo alla legge come a un dono nella misura in cui vogliamo andare a Cristo e possedere ciò che egli ci vuoi dare.

     Dio si offre all'uomo! È questo l'incredibile dono che Cristo rivela e rappresenta: Cristo è Dio che si offre all'uomo nella Chiesa e per suo tramite. La Chiesa vive della vita di Cristo e ce la comunica. La comunione con Cristo si ottiene solo e pienamente nella Chiesa e per suo mezzo. Quanto più piena è la nostra comunione con Cristo in tutti gli aspetti della vita e del culto della Chiesa, tanto più partecipiamo della gloriosa libertà che egli ci ha ottenuto.

     Se siamo affamati del dono che Dio fa di sé, della comunione con Cristo, cercheremo allora questo dono in tutte le sue fonti. Lo cercheremo, pieni di meraviglia e di gratitudine, nella sua Parola, nella Sacra Scrittura. Lo cercheremo, con meraviglia non minore, nei sacramenti; soprattutto — con massima riverenza e gratitudine — nella santa Eucaristia. Cercheremo la comunione con la mente di Cristo, con la sua verità, nell'insegnamento della Chiesa. E cercheremo la comunione con la sua volontà nella legge e nella disciplina della Chiesa.

     Se gli antichi Israeliti si sentivano privilegiati per il fatto di possedere e di seguire la legge data da Dio attraverso Mosè, quanto più privilegiati dobbiamo sentirci noi che possediamo la legge data da Cristo, che ci giunge tramite la sua Chiesa e che, attraverso di essa, ci conduce a Dio.

     Come è possibile che questo senso di privilegio — e, ancor più, di rispettosa meraviglia — sembra oggi venir meno nella Chiesa?

     Non dobbiamo anche noi sentire stupore per essere il popolo scelto da Dio; per avere Dio così vicino a noi; per essere in grado di offrirgli qualcosa di molto più accetto dell'agnello pasquale; per essere alimentati da un cibo infinitamente superiore alla manna; soprattutto, per essere ammaestrati e guidati da Dio attraverso coloro che nella Chiesa insegnano in suo nome e in suo nome esercitano l'autorità?

     Se oggi troppo spesso costatiamo un atteggiamento irrispettoso verso l'Eucaristia, non è segno di un indebolimento della fede nella presenza reale di Cristo in questo sacramento? Molte persone sembrano non rendersi conto che è Cristo che toccano nell'Eucaristia, che è Cristo di cui si nutrono quando ricevono l'Eucaristia.

     Se troppo di frequente ci avviciniamo in modo esitante o restio all'autorità della Chiesa — al Magistero, alla legge ecclesiastica —, non è segno anche questo di un indebolimento della fede nella presenza di Cristo nella sua Chiesa?

     Questa reazione negativa all'autorità della Chiesa è, in definitiva, una perdita della consapevolezza di essere guidati da Cristo o una riluttanza a seguirlo.

     È tutto una questione di fede! La fede consente di scoprire la presenza santificante di Cristo. L'Eucaristia è Cristo: perciò è detto il Santissimo Sacramento. La Bibbia non è Cristo; tuttavia è santa anch'essa, perché Cristo — cioè Dio — ci parla in essa; solo per coloro che la guardano con fede essa è la sacra Bibbia. E realmente, seppure in un ordine diverso, anche la legge della Chiesa è santa: più santa della santa legge di Mosè. La legge della Chiesa è santa; non è ispirata, come è la Scrittura; non è infallibile, come è il Magistero; e tuttavia è santa, perché ci parla con l'autorità di Cristo e dietro ad essa vi è la sua santa volontà. «Chi ascolta voi, ascolta me...; quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo...».

La legge della Croce

     Ma — si può obiettare — sicuramente non s'intende dire che dietro tutte e ciascuna delle leggi e delle disposizioni ecclesiastiche vi sia la presenza di Cristo. No, assolutamente. Se tuttavia vogliamo rispondere correttamente alla obiezione, sono indispensabili alcune precisazioni.

     Ci possono essere oggi (e certamente ci sono state in passato) forme di esercizio dell'autorità ecclesiastica ingiuste e alle quali una persona deve opporsi in coscienza. La resistenza di Giovanna d'Arco all'autorità ecclesiastica che la processava è appunto un caso che dimostra come tale resistenza possa persino essere segno di santità. Ma direi che simili casi sono rari, anzi rarissimi; e che, a prescindere da essi, una condizione essenziale per la vera comunione con Cristo — una condizione anche di efficacia apostolica — è l'accettazione franca e gioiosa dell'autorità della sua Chiesa.

     Dietro l'insegnamento della Chiesa sta la verità di Cristo, così come dietro l'autorità della Chiesa si rinviene la volontà di Cristo. La verità di Cristo non può indurre gli uomini all'errore: ne abbiamo la garanzia. Ma non siamo garantiti che la volontà di Cristo non possa sottoporre gli uomini a prove e avversità: anche quella di essere chiamati a obbedire in qualcosa che trovano non ragionevole e torse personalmente anche ripugnante. Cristo stesso ha percorso questa strada: si fece obbediente fino alla morte (FU 2,8), anche se ciò gli ripugnava in sommo grado (Me 14,33-36). Il Vaticano II dice che la Chiesa, e perciò ogni cristiano, "deve procedere per la stessa strada seguita da Cristo, la strada cioè della povertà, dell'obbedienza, del servizio e del sacrificio di sé stesso fino alla morte" (AG 5).

     Cristo imparò a obbedire, e gli costò. Anche noi dobbiamo imparare l'obbedienza. È difficile certamente, ma diventa più facile se contempliamo l'esempio di Cristo e riflettiamo sul grande valore che egli attribuisce all'obbedienza. Diversamente, diviene estremamente difficile se non vediamo nessuna ragione per obbedire, se l'obbedienza costituisce per noi un'imposizione o limitazione.

     Cristo non ha mai promesso che la sua Chiesa sarebbe stata sempre governata con prudenza e saggezza, almeno per chi giudica umanamente.

     Ai miei occhi, una legge ecclesiastica può facilmente apparire poco saggia o imprudente; forse che questa impressione mi da il diritto di pensare che non si trovi Dio dietro quella legge, o che voglia che io la ignori e le disobbedisca? Non potrebbe darsi che non abbia ancora imparato che Dio ha vie pazze — pazze per il nostro giudizio — che sono più sagge dell'umana sapienza (cfr 1 Cor 1,18-25)?

     Solo la certa e assoluta convinzione che una legge ecclesiastica sia ingiusta, e che il suo adempimento dispiacerebbe a Dio poiché sarebbe causa di reale ingiustizia (non di mera difficoltà) agli altri, potrebbe legittimare o imporre la disobbedienza.

     Chi ritiene di trovarsi innanzi a una legge di tal genere, farebbe bene a riflettere e a domandarsi se la difficoltà che ravvisa — per sé o per altri — non possa essere semplicemente il fardello della Croce — naturale per il cristiano — che Cristo vuole che tutti gli uomini portino e che salva. «Di null'altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore [...] per mezzo del quale siamo stati salvati e liberati» [1]. La legge di Cristo — la legge della libertà — è anche la legge della Croce.

     È qui la chiave di tante difficoltà. Non abbiamo avuto nessuna garanzia da Cristo (non ne abbiamo bisogno) che ogni singola legge della sua Chiesa sarebbe stata opportuna, saggia e prudente. Abbiamo però garanzia che non solo non sbaglieremo nell'obbedire alle leggi della Chiesa, ma che, obbedendo, faremo qualcosa di molto buono e gradito agli occhi di Dio.

     «Chi ascolta voi, ascolta me». Parole divine, che potremmo ben parafrasare così: «Se hai un superiore che comanda qualcosa di irragionevole, oneroso, stupido mettendoti così alla prova, non ti ho forse dato sufficienti motivi, nel Vangelo e col mio esempio, per farti supporre che quel comando, col suo evidente aspetto di una croce, promani da me e che io voglia che tu lo accetti?».

     È sempre facile per un subordinato (che necessariamente possiede una visione parziale delle cose) ravvisare un difetto di giudizio in una decisione del superiore. È verità che se il superiore — il Papa, il vescovo o chicchessia — è colpevole di imprudenza o di ingiustizia nel promulgare o nell'applicare una legge, dovrà risponderne di fronte a Dio. È tuttavia anche verità, per tornare ancora una volta su quel pregnante passo di san Paolo, che Dio si serve delle cose insensate di questo mondo per i suoi divini disegni.

     Forse ciò che più frequentemente rende vani i disegni divini non è tanto la possibile insensatezza del superiore, quanto la poca fede e il poco amore del subordinato.

     Fede e amore: sono queste le prime virtù che la disciplina ecclesiastica deve suscitare in coloro che le sono soggetti. La ragione ultima per cui la legge della Chiesa costituisce un dono è che essa ci rende facile dimostrare la nostra fede e il nostro amore al Signore. Ci fornisce l'opportunità di esercitare la fede e di percepire l'autorità di Cristo dietro le decisioni umane, nonché di corrispondere alla sua volontà col nostro amore. «Le opere sono amore» [2]: l'amore si dimostra facendo la volontà della persona amata. Se vogliamo dimostrare a Dio il nostro amore, l'autorità ecclesiastica non è mai di ostacolo: al contrario. Se siamo veramente desiderosi di amare Cristo, allora l'obbedienza alla sua Chiesa diventa facile. Se invece troviamo difficile obbedire alla Chiesa, quasi sempre ciò deriva da uno scarso desiderio di amare il Signore.

Gioia ed evangelizzazione

     Questo ci richiama un punto che avremo occasione di approfondire (cfr cap. 13): i cristiani che contestano non evangelizzeranno mai il mondo. Come potrebbe qualcuno essere attratto da una Chiesa i cui membri si mostrano in permanenza scontenti e continuamente protestano verso i loro propri capi? È questo il maggiore ostacolo all'evangelizzazione: i cristiani sembrano incapaci di dare al mondo la prova della loro gioia nel servizio, nell'obbedienza, nella mortificazione di sé, al modo di Cristo che trovò la sua gioia nel servire, nell'obbedire e nel negare sé stesso.

     Se il Vangelo si diffuse come fuoco impetuoso nei primi secoli fu anche perché i cristiani delle origini davano l'impressione di essere portatori di una buona novella: i seguaci pieni di gioia di colui che aveva portato la Croce per amore, che imparò l'obbedienza attraverso la sofferenza (Eb 5,8) e in tal maniera ci salvò.

     I primi cristiani erano un popolo gioioso in un mondo triste; e la loro gioia scaturiva dalla libera obbedienza alla legge esigente di Cristo, così come egli aveva liberamente obbedito all'esigente volontà del Padre.

     «Dio ama chi dona con gioia». È alla luce di questa verità che Paolo loda i Corinzi per la loro generosità verso i cristiani di Gerusalemme: «A causa della bella prova di questo servizio, essi ringrazieranno Dio per la vostra obbedienza e accettazione del Vangelo di Cristo [...] e manifesteranno il loro affetto a causa della straordinaria grazia di Dio effusa sopra di voi. Grazie a Dio per questo suo ineffabile dono!» (2 Cor 9, 13-15); il dono della gioia nell'adempimento della legge di Cristo.

     La legge di Mosè è stata superata. All'uomo è lasciata la "lex naturae", la legge naturale, sulla quale viene edificata la "lex gratiae", la legge della grazia, cioè la legge di Cristo.

     Nonostante l'apparente resistenza dei nostri contemporanei alla legge naturale, non è azzardato affermare che è questo il momento favorevole (o sta per arrivare) a un forte risveglio del desiderio della legge naturale.

     Man mano che si estenderà il convincimento che tutto ciò che maggiormente importa alla persona — l'ordine, la lealtà, il rispetto, l'onestà, l'integrità, l'amore, il matrimonio, l'amicizia, il senso comunitario — sta barcollando, gli uomini si metteranno alla ricerca di una solida base comune sulla quale ricostruire i veri valori umani e una coerente vita sociale.

     Così come non è forse avventato dire che la restaurazione dell'ordine naturale, della "lex naturae", può essere intrapresa solamente da coloro che aderiscono più fermamente alla "lex gratiae". È una verità di sempre, ma possiede particolare vigore oggi, che una vita pienamente umana può essere vissuta solo con l'aiuto della grazia divina.

 

NOTE

[1] Antifona d'entrata del Giovedì Santo; cfr Gal 6,14.

[2] Josemaria Escriva, Cammino, n. 933.