Nulla può essere aggiunto al messaggio di Cristo, ma su di esso può esser fatta più luce. La nostra comprensione può e deve crescere. Molti fattori entrano in questo processo: la meditazione, la preghiera, la speculazione teologica, il dibattito dottrinale... Ma la responsabilità e competenza ultima per definire la dottrina rivelata appartiene al Magistero.
Abbiamo appena fatto uso di una terminologia peculiare, che quasi certamente susciterà reazioni negative in talune persone. «Definire? Si parla ancora di definizione dottrinale? Ma non si tratta di un concetto preconciliare, che la Chiesa ha ormai abbandonato?».
No; non penso proprio che la Chiesa abbia abbandonato l'idea che la dottrina ha bisogno di definizioni, ne che abbia rinunciato alla sua funzione in questo compito. Ma concordo che il tema delle definizioni dottrinali è una "patata bollente" di natura teologica. Comunque, deve essere presa tra le mani. Forse qualche opportuna considerazione può raffreddarla e persino renderla appetitosa. A tal fine, la nostra riflessione dovrà cercare di correggere due erronee opinioni molto diffuse: a) una definizione dogmatica è qualcosa di restrittivo e di negativo; b) se un punto dottrinale non è ancora dogmaticamente definito, si è "liberi" di dissentire, fino a sostenere una posizione diametralmente opposta.
L'esempio delle diapositive
Che cosa implica il concetto di definizione dottrinale? Può esserci d'aiuto un piccolo esempio. Supponiamo di assistere alla proiezione di diapositive. Appare sullo schermo una scena — per esempio, un gruppo familiare riunito in un giardino —, ma è piuttosto stuccata.
Normalmente le persone sono infastidite dalle immagini sfuocate, quando è possibile ottenerle nitide: così in sala qualcuno grida: «Fuoco!». Ed ecco l'operatore regolare la lente, finché appare un'immagine chiara, ben definita.
È quanto fa la definizione dottrinale: rende un'immagine — un'idea, una verità — più nitida, più facile da vedere, da scrutare e da comprendere in tutti i particolari.
Una definizione, pertanto, non è qualcosa che restringe; al contrario, chiarisce. È un servizio. Non limita la libertà mentale, ne la visione ne la comprensione; le rende più agevoli. Ciò che limita è l'offuscamento; ciò che riduce è la confusione delle immagini e dei contorni; ciò che elimina è la sovrapposizione delle figure e delle linee... Proprio quanto è necessario per ottenere la libertà di percepire un'immagine chiara.
Così come un'immagine stuccata o sbiadita restringe la nostra libertà visiva, allo stesso modo un'idea sfuocata o vaga restringe la nostra libertà mentale. La nostra mente vuoi vedere le cose in maniera nitida; altrimenti la comprensione è ostacolata, è meno libera.
Rilevavo che durante la proiezione delle diapositive il pubblico non era contento: gli oggetti mal definiti; le persone difficili da identificare (quel piccolo è un bambino o una bambina?); le relazioni tra oggetti, ambienti e colori sbiadite e incerte. Era, insomma, una visione del tutto insoddisfacente.
Lo stesso può valere quando ciò che contempliamo non è una diapositiva, ma un punto della fede cristiana. Se non si coglie il suo preciso significato, se la relazione tra proposizioni e realtà non è chiaro, non si può avere una retta comprensione. Un'immagine mentale confusa è insoddisfacente al pari di una confusa immagine visiva.
La dottrina dell'Incarnazione può servirci da esempio. Che Gesù Cristo è Dio e uomo è stato sempre il punto centrale della fede cristiana. Ma certe proiezioni di questa dottrina offuscano talmente il reale significato dei termini in cui è espressa, o distorcono così profondamente la relazione tra questi termini, da presentare un'immagine vaga e scarsamente intelligibile, o tale da dare persino un'idea totalmente falsa dell'Incarnazione.
Così, se la dottrina viene presentata in modo da insinuare che Gesù è solamente Dio e la sua umanità mera apparenza..., oppure che è solo un uomo dotato di una speciale relazione con Dio..., o che ha una sola natura o che in lui sono due persone...: tutto ciò, basato su una erronea messa a fuoco di alcune parti dell'immagine o della relazione tra le parti, porge effettivamente una falsa proiezione della dottrina.
Se questo avviene — è accaduto nei primi tre o quattro secoli e in qualche modo accade ancora oggi — il pubblico cristiano protesta: «Fuoco!» e l'operatore — il Magistero — provvede. Ecco allora che abbiamo un'immagine intelligibile, chiaramente definita: Gesù è veramente Dio e possiede veramente la natura divina; è vero uomo e possiede veramente la nostra umana natura; ed entrambe le nature sono congiunte in una sola Persona divina.
Consideriamo un altro esempio: la Sacra Eucaristia. Intendere l'Eucaristia semplicemente come il Corpo di Cristo può ingenerare una comprensione confusa se non si ha chiara la relazione tra il pane e il Corpo, se non si chiarisce l'apparente coincidenza delle due realtà, se non si accerta dove "finisce" il pane e dove "comincia" il Corpo.
Se la proiezione della dottrina dell'Eucaristia lascia trasparire che il pane continua a rimanere pane, ma che acquista semplicemente una nuova finalità o significazione, allora la proiezione falsifica la dottrina cattolica; e così pure avviene se insinua che il Corpo è in qualche modo presente nel pane durante la celebrazione eucaristica, ma che, dopo la celebrazione, il Corpo "sparisce" e resta solo il pane; tali errate proiezioni si sono avute in passato e si ripresentano oggi.
Un po' di definizione chiarisce l'immagine, per così dire. Il pane "finisce" e il Corpo "comincia" al momento della consacrazione. Quel che c'era prima della consacrazione sembrava pane, e tale era. Quel che c'è dopo la consacrazione sembra pane, ma non lo è; rimangono le apparenze del pane, ma la realtà sottostante — quello che e lì — è cambiata totalmente: è Gesù Cristo. Ed egli rimane lì anche dopo la celebrazione eucaristica, finché rimangono le apparenze — gli "accidenti" — del pane. Ecco una proiezione nitida del mistero dell'Eucaristia.
Il paragone delle diapositive può aiutarci a illustrare altri aspetti rilevanti del nostro tema.
L'operatore non crea l'immagine che proietta; già esisteva: si limita a presentarla al pubblico perché possa vederla. Quando focalizza meglio, non inventa ne cambia l'immagine: facilita solo una miglior visione dell'immagine esistente, ripresa forse parecchio tempo prima. Suo compito non è di produrre o variare l'immagine, ma semplicemente di proiettarla nella maniera meglio definita e con la massima chiarezza.
Così è per il Magistero in rapporto alla Rivelazione. Il Magistero non origina la Rivelazione; non s'ingerisce in essa ne la cambia. È al servizio della Rivelazione e di coloro che ne sono i beneficiari. Protegge la Rivelazione perché ogni generazione la possa contemplare; e la definisce — o ne definisce particolari aspetti — di modo che possa apparire in tutta chiarezza anche agli occhi più offuscati. Salvaguardare chiarezza e definizione è la funzione propria del Magistero. Il Magistero non ha alcun potere di modificare l'immagine della Rivelazione, trasformandola in un'altra. L'immagine era stata "scattata" — e affidata alla Chiesa perché la proiettasse all'umanità — duemila anni fa. Rimarrà la medesima immagine fino alla fine dei tempi.
Sentirsi "liberi" dall'immagine?
Quanto detto ci può aiutare a cogliere l'erroneo intendimento che si cela dietro un punto sopra richiamato, l'affermazione cioè che se qualche insegnamento della Chiesa non è stato ancora definitivamente o formalmente definito, esso non sia "vincolante"; anzi, si sia "liberi" di sostenere dei punti di vista che se ne discostino radicalmente, anche se quell'insegnamento è stato proposto e ritenuto valido per secoli dalla Chiesa.
Coloro che hanno la sensazione che questo atteggiamento non sia cattolico, che costituisca un approccio minimalistico e legalistico, sono nel giusto. Ma durerebbero fatica a dimostrarne l'insostenibilità se si limitassero (come fanno i loro oppositori) ad argomenti meramente tecnici o legali. L'insostenibilità di questa posizione può essere percepita adeguatamente solo muovendo da una base ecclesiologica.
Se la Chiesa — la Chiesa d'ogni tempo — possiede la mente di Cristo, allora il suo insegnamento riflette quella Mente; e Cristo non cambia di mente. La mente di Cristo non è enigmatica (anche se ha la profondità del mistero); non è ambigua o esitante; non fluttua nel corso dei secoli, negando antiche verità o introducendone di nuove; non si contraddice mai.
Ecco il motivo per cui possiamo avere una relativa, ma reale certezza nella nostra comprensione anche delle aree "non definite" della mente di Cristo. Sarebbe preferibile parlare di aree "meno definite" — anziché "non definite" —, poiché anche la proiezione di queste aree ha sufficiente chiarezza per essere certi del loro contenuto sostanziale — certi di ciò che è questo contenuto e di ciò che non è e non può essere —, ancorché tali aree siano suscettibili di ulteriore definizione o chiarimento. Questo chiarimento sarà di necessità una conferma di quanto è già visibile; ci mostrerà quello che già vediamo, e ce lo mostrerà con maggiore ricchezza di particolari.
L'immagine che già vediamo si risolverà nella stessa immagine, ma più nitidamente percepita. Non si risolverà ne potrebbe risolversi in un'immagine del tutto inattesa o, meno ancora, in un'immagine contraddittoria.
Il fatto che l'immagine della nostra diapositiva non è perfettamente a fuoco, e che ogni particolare non viene visto con la più assoluta precisione, non mi consente, in quanto spettatore, la "libertà" di deformare ciò che rappresenta in qualcosa di mio gradimento! Non sono e non mi devo sentire "libero" di negare che quella diapositiva rappresenta un gruppo riunito in un giardino, affermando invece che molto probabilmente raffigura un tumulto in una piazza della città. Non posso percepire tutti i particolari con la dovuta precisione, ma posso vedere i principali lineamenti con chiarezza sufficiente da esser sicuro di che cosa i particolari, una volta opportunamente focalizzati, possano o non possano rappresentare. Non mi passa neppure per la mente di affermare che quella zona indefinita di blu nell'aiuola possa invero divenire una ben definita zona di rosso. Quelle due figure che si danno la mano sono, è vero, poco chiare; ma sono assolutamente sicuro che in nessun modo un'adeguata messa a fuoco possa risolverle in due schermidori che incrociano le spade. Così come sono altrettanto sicuro che quella figura piuttosto confusa di un uomo in piedi tra un gruppo, per effetto di una migliore focalizzazione, possa sparire nel nulla.
E tuttavia, vedere e interpretare il quadro della dottrina cristiana "come si vuole" è appunto ciò che sembrano pretendere alcuni teologi nella Chiesa. Riconoscono, per esempio, che fino a pochi anni fa la contraccezione è stata considerata dal punto di vista cristiano (sia cattolico che protestante) un grave peccato. Ma sostengono che, siccome quel tema non è stato formalmente definito, si è "liberi" di pensare in altro modo. La qual cosa è come dire che, non essendoci stata una definizione, si è liberi di affermare che il messaggio che Cristo ci ha prospettato è precisamente l'opposto: che l'autentica verità sulla contraccezione è di essere accettabile e persino a lui gradita.
"Poiché non c'è stata nessuna definizione...". È questo il difetto fondamentale dell'argomentazione: «Mai è stato definito l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione». Non è vero assolutamente. È stato per secoli coerentemente prospettato ai fedeli di Cristo in termini chiaramente — anche se non solennemente — definiti. Prima del 1960, il Magistero, i teologi e i fedeli erano perfettamente concordi su come intendere il messaggio giunto loro da Cristo su questo punto. Si trattava di un'area del quadro in bianco e nero. Nessuno ne dubitava o la interpretava in altro modo: all'interno del matrimonio si possono commettere peccati sessuali; la contraccezione ne è uno, ed è un male grave [1].
È importante considerare che la definizione non è solo un atto magisteriale o giuridico. È anche e principalmente questione di come una dottrina viene prospettata e vista. Ecco perché, come abbiamo cercato di illustrare con l'analogia delle diapositive, esistono in realtà gradi di definizione. Una definizione solenne è l'ultimo grado possibile; ed è possibile solamente perché la verità di cui si tratta è stata vista prima con profilo chiaramente distinto. Una definizione, perciò, non ha bisogno di essere solenne perché sia chiara. Non ha bisogno che venga formulata con l'estrema precisione di un solenne documento infallibile perché sia priva di errori e immutabile nel contenuto e nel significato. In breve: benché una dottrina insegnata dal Magistero ordinario e non solenne possa mancare di una definizione ultima e completa, essa non è tanto indistinta e opaca da non poterne riconoscere le linee principali.
Al contrario, sono proprio i lineamenti principali quelli che non possono essere sbagliati. Lo spazio per successivi aggiustamenti o precisazioni attiene solo ai minuti particolari. E anche allora il processo di ulteriore definizione servirà sempre e solamente a sottolineare l'armonia tra quei particolari e l'insieme, il cui profilo era già inconfondibile.
L'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione è dunque infallibile? Poiché infallibile significa insegnamento scevro da errore e quindi sicuramente "vero" — essendo Cristo a garantirne la verità —, non vedo come un cattolico possa evitare di concludere che l'insegnamento tradizionale sulla contraccezione beneficia della divina garanzia di verità, in forza non tanto dell'infallibilità papale [2] quanto dell'infallibilità della Chiesa tutta: del Magistero ordinario e universale, e anche del "sensus fidelium" espresso per secoli fino all'età postconciliare.
Lo stesso Concilio Vaticano II afferma esplicitamente che l'insegnamento del Magistero sul controllo delle nascite deve essere seguito (cfr GS 51). La dissidenza post conciliare in materia, da parte di alcuni teologi, non fa testo contro la Tradizione e il Magistero: sono i dissidenti che devono dimostrare di non essersi allontanati dalla mente di Cristo; o dimostrare come la contraccezione — fino a ieri "male" — possa divenire oggi "bene", senza che ciò significhi che Cristo, oltre ad aver mancato alla promessa di assistere la sua Chiesa, abbia tratto in inganno i suoi seguaci e possieda pertanto una Mente confusa e contraddittoria.
Non è mai stata concezione cattolica che il dogma definito rappresenti l'area del necessario assenso, mentre il Magistero ordinario configuri un'area di opinioni spontanee, dove ciascuno è libero di pensare ciò che vuole; al contrario, dogma e Magistero delimitano il terreno della verità e l'uno e l'altro rispecchiano la mente di Cristo [3]. La tesi ecclesiologicamente scorretta che rivendica il diritto di accettare ciò che si vuole di un insegnamento — comunque della Tradizione — che non sia stato formalmente definito è certamente solo il primo passo verso la rivendicazione di interpretare con assoluta libertà una dottrina anche quando sia stata di fatto definita con un atto magisteriale solenne. Un buon numero di teologi contemporanei ha già fatto questo passo. Essi sostengono, in nome del progresso teologico, che è venuto il momento di rivedere tutto il quadro dell'insegnamento cristiano, di maniera che ciò che prima era visto come nero si possa ora vedere come bianco, ciò che prima era percepito quadrato si possa ora far apparire rotondo, ciò che prima era presente si possa dichiarare assente o, almeno, proporre che venga rimosso.
Ogni giorno emergono nuove tesi. Si formulano principalmente in àmbito morale, come s'è visto: la contraccezione, il divorzio o l'aborto, benché in precedenza siano stati presentati come male, possono ora, per occhi contemporanei, esser visti come bene. Ma analoghe tesi aberranti vengono formulate in àmbito dogmatico, in relazione alle dottrine fondamentali della fede: la nascita verginale di Gesù Cristo, la sua risurrezione corporea o la sua presenza reale nell'Eucaristia, benché tramandate di generazione in generazione dai cattolici, che hanno contemplato e inteso queste dottrine secondo il senso proprio suggerito dalle stesse parole in cui vengono formulate, sono ora suscettibili — "grazie al più alto grado di comprensione consentito dai moderni metodi di ricerca teologica" — di non avere più quel significato, ma di essere interpretate come metafore o modalità simboliche che trasmettono un significato totalmente differente; un significato svuotato in realtà di ogni contenuto oggettivo o valore trascendente.
Visuale ristretta
Nell'esaminare i particolari di un quadro si corre sempre il rischio di perdere la visione d'insieme. L'eccessiva concentrazione su una parola o frase di un messaggio può farne dimenticare l'unità.
Per esempio, i metodi storico-critici di indagine biblica sono strumenti per esaminare i particolari. Sono come una lente d'ingrandimento: ingrandiscono il testo, ma così facendo spesso offuscano il contesto [4]. Una lente d'ingrandimento non è comunque lo strumento più idoneo per vedere un quadro nella sua interezza. Non è una critica al teologo affermare che il motivo per cui deve usare degli strumenti per vedere da vicino sta nel fatto che è di vista corta. Tutti siamo miopi per quanto attiene alla Rivelazione. L'esame dei particolari ingranditi può esserci di aiuto non al fine di vederli isolatamente, ma perché, percependoli meglio, la visione dell'intero quadro risulti più agevole. La Tradizione è la migliore lente di ingrandimento per fruire di visione integrale.
Tuttavia, alcuni teologi contemporanei meritano delle critiche non perché sono di vista corta, ma perché hanno visione ristretta. L'angustia di visuale riguardo alla Rivelazione è qualcosa che il cristiano non può permettersi. La nostra prospettiva deve essere tanto ampia da abbracciare l'intero quadro.
Guardando dappresso le cose, non possiamo permetterci di perdere la visione d'insieme. È quanto accade ad alcuni teologi d'oggi. Sono caduti nella trappola dello specialista: «Sapere sempre più meno cose». La loro intelligenza si è concentrata su una piccola area di ricerca — qualche aspetto della dottrina cristiana — e come risultato hanno perso completamente la prospettiva. Inoltre, l'angustia di visione diventa per loro norma. Ciò che è fuori del loro àmbito — la Tradizione, il Magistero, il "sensus fidei"— diventa irrilevante. Giudicano il quadro dal particolare o, meglio, dalla loro visione del particolare; pertanto, ciò che vedono non è più il quadro.
Chi esamina le cose da vicino, nei dettagli, può trovarsi così assorbito nel lavoro da ritenere di non avere ne tempo ne spazio per indietreggiare, per ricuperare una più ampia prospettiva. Allora soprattutto il teologo ha bisogno di umiltà, per riferirsi costantemente alla visione generale che offrono i secoli (la Tradizione, il "sensus fidei") o che da, oggi ancora, lo Spirito Santo attraverso un organo particolare (il Magistero).
Gli strumenti umani del teologo — sistemi filosofici, esegesi critica, e altri — sono utili a condizione di essere usati come strumenti e allo scopo di fare teologia. La teologia non è tale se il suo punto di riferimento o di verificazione è lo strumento di cui ci si avvale. Il punto di riferimento della teologia è la fede, la Rivelazione (l'intero quadro, già presente e chiaro), il Magistero. Se lo strumento assurge a punto di autoverificazione, allora l'interezza del quadro svanisce; diventa un'immagine nella mente dell'osservatore, modificabile secondo le variazioni del suo pensiero o della sua fantasia, ma senza alcun contenuto oggettivo.
Il credente che possiede ampia visuale, che vede l'intero quadro della Rivelazione, anche senza grande profondità analitica, fa teologia meglio del teologo dallo sguardo angusto, che vede solo taluni aspetti del messaggio cristiano avulsi dall'insieme della Rivelazione [5]. Il quadro della Rivelazione è nitido, ma solo agli occhi della fede. Gli occhi dell'intelligenza umana abbandonata a sé stessa sono offuscati e rendono opaco il quadro.
Pluralismo
L'immagine delle diapositive suggerisce ulteriori considerazioni. Per esempio, possiamo affermare che il quadro della Rivelazione è "tridimensionale"; risalta per il fatto che realmente è pieno di vita e di movimento: può essere perciò guardato da diverse persone sotto molteplici angolazioni. Un uomo è sempre tale, sia visto da dietro che di fronte; a seconda dell'angolazione, appare più o meno diverso, ma sempre viene percepito come uomo. Se non è visto come uomo, ma come altra cosa, non è allora l'angolo prospettico a essere sbagliato, ma l'occhio dello spettatore: la sua visione è difettosa.
Ciò può servirci per illustrare la realtà e i limiti del pluralismo teologico, il fatto cioè che possano venir proposte spiegazioni teologiche diverse per i medesimi punti della dottrina della fede. Il pluralismo in teologia corrisponde a questa "tridimensionalità" della verità. Differenti modi di guardare a una dottrina sono pienamente legittimi, purché sia l'angolo di visuale a cambiare, mentre l'oggetto visto — la dottrina vera — rimane la stessa.
L'Eucaristia — contemplata in senso cattolico, come il vero Corpo di Cristo — può essere vista da una molteplicità di angolazioni: come Sacrificio, come Banchetto, come Presenza o, ancora, dalla prospettiva dei suoi effetti sull'individuo o sulla comunità, e così via. Ma è sempre la medesima Eucaristia che viene contemplata da tutte queste angolazioni.
Orbene, se una persona afferma: «Io nell'Eucaristia non vedo il Corpo di Cristo, il suo vero Corpo...» allora questa non è una prospettiva in più tra tante altre; non si contempla lo stesso oggetto da una diversa angolazione: si vede un oggetto differente. Non è più il pluralismo di quanti ragionano in modo diverso entro la medesima fede; è argomentare fuori della fede. Nel pluralismo teologico si contempla la Rivelazione come essa è, da diverse angolazioni; se si comincia a vedere la Rivelazione come essa non è, questo non è pluralismo: è interferire nella mente di Cristo, cercando di trame le cose che ci sono o di aggiungerne delle altre che non hanno lì posto. E in tal caso Cristo dichiara la sua Mente attraverso il Magistero: «Questi non sono pensieri miei. Non vedi nitidamente la mia Rivelazione. Rendi chiara la tua vista e il tuo angolo di visione; lascia che sia io a chiarirli: questo è ciò che intendo dire; questa è la mia Rivelazione. Prendila o lasciala, ma non distorcerla ne adulterarla». Pluralismo significa contrasto di punti di vista, ma non contraddizione. Significa diversità di approcci alla medesima fede, complementarità di visioni della stessa verità, modalità di comprensione differenti ma tra loro congiunte. Dovremmo rallegrarci per un tale pluralismo; è motivo di gioia perché è segno della ricchezza e varietà del cattolicesimo (cfr cap. 17).
Proseguendo nella nostra analogia, potremmo paragonare il "sensus fidelium" alla "reazione degli spettatori", di quegli innumerevoli pubblici che hanno contemplato il quadro della Rivelazione attraverso i secoli. Di generazione in generazione, hanno dimostrato il loro apprezzamento in maniera tale da essere normativo per l'interpretazione autentica di quanto Cristo ha operato. La loro appassionata risposta a Cristo nei suoi misteri — Cristo nel presepio, Cristo sulla Croce, Cristo risorto, Cristo nell'Eucaristia — non è mai stata una reazione meramente poetica a "miti suggestivi" o a "storie edificanti", ma un'adesione del cuore e dell'anima a eventi che effettivamente accaddero, che, nonostante i secoli, continuavano a interessare le loro vite e ai quali potevano partecipare coi più profondi risultati.
Fu questa risposta a originare tante espressioni popolari di fede e di pietà: devozioni familiari e pubbliche, sacre rappresentazioni della Passione, immagini... Ignorare o non apprezzare la profondità e l'efficacia di tali reazioni popolari significa restringere la propria comprensione. È in certo senso rinunciare a imparare da Cristo che contempla sé stesso. Infatti solo Cristo può comprendere la propria Mente in tutta la sua profondità, e vedersi da tutte le possibili angolazioni. Lo sviluppo della dottrina potrebbe perciò essere descritto come il processo per mezzo del quale Cristo, nelle sue membra, riflette su sé medesimo; processo che continuerà fin quando il Corpo di Cristo avrà raggiunto la pienezza della comprensione che il Capo comunica alle sue membra.
Il pubblico di ogni epoca (così come ogni spettatore), benché vedesse l'intero quadro, ha forse reagito con entusiasmo più grande innanzi ad alcuni particolari piuttosto che ad altri. È possibile che il pubblico di una generazione successiva — o tu o io in quanto spettatori — non sia tanto attratto da questo o quel determinato particolare; se si tratta di particolari accidentali, è una nostra libertà; ma può anche accadere che ci impoveriamo. Quanto più si vede e si apprezza non solo l'insieme del quadro della Rivelazione, ma anche ogni suo particolare, e quanto più si apprezzano i bagliori o i guizzi di fede e di semplice devozione suscitati o riflessi dai singoli particolari, cioè dai cristiani di ogni epoca, tanto più ricca è la propria risposta all'universalità della mente e del cuore di Cristo.
Di fatto, non c'è nulla nella storia dell'autentico sviluppo della dottrina che sia privo di importanza ai fini della piena comprensione del messaggio tramandateci dagli apostoli.
Il cristiano che contempla la Rivelazione, ma specialmente il teologo, ha bisogno di questo costante riferimento al passato se vuole avere una visione più chiara e non correre il rischio di cambiare l'oggetto della sua osservazione. Le prospettive dei Padri, dei santi e dei secoli lo aiuteranno a focalizzare la vista, a dare acutezza allo sguardo, a vedere in profondità nella giusta direzione — cioè verso il medesimo oggetto — quale che sia la sua posizione e il suo angolo visuale. Alcuni teologi contemporanei sembrano aver perduto la capacità di vedere con gli occhi dei secoli, o la consapevolezza che la loro prospettiva ha bisogno di conservare l'armonia della visione globale, fonte di sviluppo.
Un quesito fondamentale per il pensatore cristiano è se i suoi personali punti di vista, le nuove intuizioni che percorrono il suo pensiero, concordano con le visioni degli spettatori del passato. Se non è così, deve esserci la disponibilità a modificarli. Quanto più chiaramente gli uomini del passato videro ciò che io non riesco a vedere, o quanto più io vedo qualcosa di radicalmente diverso da ciò che essi videro, tanto più è evidente che devo essere io a correggere la mia visione. Si ha l'impressione che parecchi teologi moderni non pensino ne agiscano in tal maniera; anzi, se mai considerano le reazioni degli spettatori del passato, è solo per snobbarle giudicandole visuali ristrette e ingenue di gente retrograda, che non sarebbe mai stata capace di apprezzare il quadro della Rivelazione scientificamente corretto e ridisegnato secondo i criteri del XX secolo.
La Rivelazione è opera di Dio e patrimonio del popolo. E tuttavia alcuni moderni esperti l'hanno presa nelle loro mani per tagliare, rattoppare e riverniciare, come se ne avessero i diritti d'autore e come se il valore dipendesse dalla loro autenticazione. Sembrerebbe che i loro sforzi si caratterizzino tanto per la presunzione, quanto per la mancanza di percezione psicologica degli effetti sui fedeli.
Qual è stata infatti la reazione suscitata dalle moderne teologie della secolarizzazione e demitizzazione del Vangelo? Il plauso di gruppi di specialisti o di consorterie clericali, e la noia del grande pubblico, dei cristiani comuni. Perché mai dovrebbe interessare un Cristo che non è Dio, che non è risorto, che non è presente nell'Eucaristia?
Gli esperti sono sempre tentati di ridurre il valore di un capolavoro al livello della propria capacità di apprezzamento, o di pensare che la sua fama sia dovuta ad essi e non al suo valore intrinseco.
Rembrandt o Raffaello o Velàzquez vennero considerati geni non anzitutto o principalmente perché alcuni esperti li abbiano giudicati tali, ma perché suscitarono una profonda risposta nell'uomo comune. Il generale e spontaneo giudizio sulla bellezza delle loro opere è infatti un più grande indizio di valore artistico che non la particolareggiata analisi degli esperti. Vi sono critici d'arte moderna entusiasti dei lavori di alcuni pittori contemporanei, e tuttavia i loro quadri sono motivo di riso o di noia tra la gente comune. Chi può dire quale giudizio sia più fondato?
L'autentico esperto può certo aiutare il pubblico a raggiungere una più profonda comprensione della bellezza di un capolavoro, ma la bellezza precede il suo giudizio. Il tempo ne addita il valore più sicuramente di quanto non faccia l'opinione personale. Tal genere di conformisti sono andati tradizionalmente contro il giudizio del tempo, ma questo, alla fine, ha imposto la sua valutazione contro di loro.
E vero che esiste un'altra funzione che richiede indubbiamente l'intervento dell'esperto: decidere, per esempio, se un quadro presentato come un Rembrandt autentico, sia veramente tale o no. Se applichiamo l'analogia al nostro tema, l'esperto è, in ultima istanza, il Magistero.
Certi scrittori hanno di recente criticato la rivendicazione della Chiesa all'infallibilità quasi fosse una specie di "strozzatura del pensiero"; come se, per il fatto di dire che la verità giunge "fin qui e non oltre", la Chiesa cercasse di limitare il progresso nel sapere teologico. Alcuni critici aggiungono una più esplicita accusa di superbia, come se un Magistero infallibile pretendesse di avere l'esclusivo possesso del sapere, o persino di possedere tutto il sapere, arrogandosi così una qualità divina.
La confusione è qui elementare, ma merita segnalarla. L'infallibilità non si riferisce all'estensione nella scienza o nella comprensione, ma semplicemente alla libertà dall'errore in sede di conoscenza. Si riferisce alla certezza della verità e alla esattezza di quanto viene insegnato e creduto.
L'infallibilità non comporta la pretesa che la dottrina in questione non possa essere ulteriormente compresa o meglio definita; una tale pretesa escluderebbe ogni possibilità di sviluppo della dottrina. Ciò che l'infallibilità implica non è che la dottrina insegnata sia esaurientemente espressa, ma che è espressa nella verità. L'infallibilità, pertanto, lascia la strada ampiamente aperta allo sviluppo della dottrina. Ciò che viene evidentemente escluso è ogni "sviluppo" che contraddica ciò che è già insegnato in modo infallibile. È proprio di un elementare senso teologico essere capaci, come precisa Newman, di distinguere tra ciò che è sviluppo e ciò che è "corruzione".
Una ancor più profonda ignoranza della natura dell'infallibilità è dimostrata dalla tesi che la Chiesa, nella sua pretesa di infallibilità, sia colpevole di "arroganza": la superbia smisurata di pretendere di possedere la pienezza della divina conoscenza. È vero che la Chiesa partecipa della divina scienza, nella misura in cui Dio l'ha rivelata; ma è il dono della Rivelazione, che non deve essere confuso con quello dell'infallibilità. La Rivelazione comunica un sapere divino — un messaggio divino — alla Chiesa. L'infallibilità rende la Chiesa capace di serbare e insegnare quella conoscenza senza errore: di non falsare il messaggio. E pertanto ciò che è stato dato alla Chiesa nel dono divino dell'infallibilità non è la conoscenza, ma la certezza: la certezza che quanto la Chiesa crede è vero, perché Cristo è presente a garantire quella verità [6].
Altra tesi avanzata da certi teologi è che l'infallibilità della Chiesa sia limitata ai dogmi di fede: ciò che dobbiamo credere. A loro giudizio, la Chiesa non ha alcun potere di trasmettere un insegnamento infallibile nel campo della morale: ciò che dobbiamo fare.
Questa tesi potrebbe poggiarsi solo su una di queste due supposizioni: a) che il messaggio del Salvatore non abbia nulla a che vedere con la prassi, ma si riferisca unicamente alla teoria (sola fides!); b) che, sebbene la prassi sia importante, noi non abbiamo modo di sapere con certezza come dobbiamo comportarci in questioni concrete (contraccezione, aborto, eccetera), poiché al riguardo non abbiamo accesso alla mente di Cristo. Entrambe le supposizioni sono false.
Cristo non ha mai predicato la salvezza mediante la sola fede. Diede delle norme morali (cfr Mt 5,21-22; 5,27-28; 7,1; Me 7,21-23; Le 12,15; Gv 13,34; e altri passi); insisté sul fatto che osservare i suoi comandamenti è prova di amore per lui (cfr Gv 14,21; Mt 7,21); e inviò i suoi apostoli a tutte le nazioni dicendo: «Andate... ammaestrate... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).
I contemporanei di Cristo andarono da lui per chiedere la sua opinione su questioni morali: è lecito il divorzio oppure no? (cfr Mt 19,3); è legale pagare le tasse a Cesare oppure no? (cfr Me 12,14). E Cristo diede il suo parere. Dovremmo credere che non abbia un'opinione — non abbia nulla da dirci — sulla contraccezione, sull'aborto o sulla condotta omosessuale? L'ipotesi di un Cristo che declina ogni commento o se ne stia in silenzio è senza senso per chiunque ricordi quelle promesse: «Sono con voi sempre... Chi ascolta voi ascolta me...».
Ma — si obietta talvolta — la Chiesa di fatto non ha mai definito questioni morali. Non è assolutamente vero. Definizioni di carattere morale si sono avute sia attraverso il Magistero solenne [7], sia e soprattutto attraverso il Magistero ordinario e universale (che, ripetiamo, è anch'esso infallibile). Nel corso dei secoli il Magistero ordinario della Chiesa ha definito tutto un programma di vita cristiana, con tale cristallina chiarezza che nessuno può avere il minimo dubbio sulla mente di Cristo circa materie come la frode, il ricatto, la calunnia, la sessualità extramatrimoniale, la contraccezione, l'omosessualità... La Chiesa, in linea con le forti parole della Sacra Scrittura (cfr 1 Cor 6,9-10; Gal 5,19-21) ha sempre insegnato che tali condotte rompono la comunione con Cristo e, se deliberatamente perseguite, escludono dal regno di Dio.
NOTE
[1] L'accordo su questo punto della dottrina era ecclesialmente unanime. Con la medesima chiarezza lo insegnava il Magistero, lo credevano i fedeli e vi riflettevano i teologi; non un solo teologo che si rispettasse poneva in dubbio questa dottrina prima del 1960.
[2] Benché, a mio avviso, sia coinvolta anche l'infallibilità papale. Tutti i Papi dei tempi moderni (specialmente da Pio XI in poi), nell'indirizzarsi appunto come maestri di tutti i fedeli in materie importanti di morale, hanno esplicitamente e ripetutamente insegnato che la contraccezione è un grave peccato contro la legge di Dio e il significato e la dignità della sessualità nel matrimonio. La tesi secondo cui l'insegnamento di Pio XI e di Paolo VI è contenuto solamente in encicliche (la Casti connubii e la Humanae vitae), e l'enciclica non è normalmente usata per proclamare dottrine infallibili, non regge assolutamente. Il Papa è infallibile non quando si avvale di un particolare tipo di documento per il suo magistero, ma quando, in forza del suo ufficio, insegna che una dottrina di fede o di morale deve essere creduta da tutti i fedeli. È quanto Paolo VI fece esplicitamente nella Humanae vitae. Occorre ben ponderare la forza e la solennità delle parole con le quali egli presenta la sua decisione. Nonostante le moderne argomentazioni addotte a favore della contraccezione, il giudizio morale in materia rimane immutato: «Noi, in virtù del mandato affidateci da Cristo, intendiamo dare la nostra risposta a tutta una serie di gravi questioni» (HV 6).
[3] La Lumen gentium, n. 25, insegna che tanto il Magistero ordinario universale quanto il Magistero solenne sono infallibili.
[4] II contesto è qui storico nel senso vero della parola. È l'evento dell'Incarnazione e tutto ciò che ne consegue (Rivelazione, sacramenti. Chiesa, eccetera). Se uno studioso non lavora entro questo contesto storico, non lavora da cristiano. Gli altri punti di riferimento storici o letterari sono totalmente subordinati all'evento del Dio-uomo e della sua Rivelazione. Per l'esegeta, così come per ogni teologo, le prime e più fondamentali questioni sono: Credo che Gesù Cristo è Dio e Salvatore di tutti gli uomini? Accetto la sua divinità — e la sua Rivelazione — come punto di partenza e di riferimento? Accetto che la sua Mente e la sua Volontà mi giungono tramite il Magistero della Chiesa?
[5] Già nel II secolo, sant'Ireneo si rallegrava nel contemplare l'unità della Chiesa che crede le verità di fede così come tramandate dagli apostoli. «La Chiesa crede queste verità come se avesse una sola anima e lo stesso cuore, le predica e le trasmette come se avesse una sola bocca. Benché vi siano molte e diverse lingue nel mondo, tuttavia la potenza della Tradizione è unica e identica. La Chiesa fondata in Germania crede e tramanda esattamente le stesse cose che le Chiese spagnola e celtica, dell'Oriente, d'Egitto e di Libia e di Gerusalemme, il centro del mondo. Come il sole, creatura di Dio, è in tutto il mondo uno solo e il medesimo, così la luce spirituale, il messaggio della verità risplende dappertutto e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità» (Contro le eresie, 1,10,2).
[6] La dottrina della Santissima Trinità potrebbe servire a illustrare questo punto. La Chiesa afferma di insegnare questa dottrina in modo infallibile; detto altrimenti, afferma che la dottrina che vi sono tre Persone in un solo Dio è certamente vera. La Chiesa non ha mai preteso di comprendere o spiegare pienamente questa dottrina: chi potrebbe comprendere in modo adeguato quella verità al di fuori di Dio stesso?
[7] Per esempio, il Concilio di Trento ha insegnato solennemente che la poligamia è proibita dalla legge divina (DS 1802/972), e che il matrimonio sacramentale consumato è indissolubile (DS 1807/977).