04. LIBERTÀ

I. LIBERTA' SENZA LEGGE?

     Per molte persone l'ideale è oggi uno Stato o una società con libertà illimitata e senza legge. Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di dimostrare che una società senza leggi è un'assurdità: non potrebbe funzionare.

     Quest'idea di società riflette la concezione che non pochi contemporanei hanno dell'individuo. L'uomo è libero, dicono; egli ha il diritto di essere perfettamente libero e tale diritto non dovrebbe essere soggetto a restrizioni o a leggi. Una serena riflessione sull'uomo dimostra che anche questa visione è falsa: l'uomo è certamente chiamato alla libertà, ma non senza legge.

     L'uomo ha il diritto di essere libero, ed è un diritto naturale. Ma poiché i diritti derivano dalla natura e ne dipendono, il diritto a essere libero può venire esercitato solamente in armonia con la sua natura. Se egli cerca di affermare il diritto a essere libero contro la sua natura umana, può autodistruggersi. La libertà dell'uomo è quindi condizionata da leggi: le leggi della propria natura. Un uomo non è libero di mettersi sul percorso di un treno con la pretesa di sopravvivere: la sua natura non lo tollera.

     Se un uomo non conosce la sua umana natura — chi egli è — e non la rispetta, può perdere i suoi diritti umani: il diritto fondamentale di essere uomo e il diritto ancor più fondamentale alla vita. L'uomo che pensa d'esser libero di assumere una illimitata quantità di alcool o di droga, sbaglia: il suo errore può essergli fatale. Ma le leggi che derivano dalla natura dell'uomo e ne condizionano la libertà non sono solo quelle fisiche ed esterne, o meramente corporee; sono anche — e sono le più importanti — quelle interne e spirituali; ed è proprio all'area inferiore della libertà che dobbiamo dedicare una particolare attenzione.

     Abbiamo visto che la libertà sociale riposa sulla legge, sul riconoscimento e sulla protezione giuridica dei diritti umani, nonché sulla presenza effettiva della giustizia nelle relazioni tra le diverse persone e poteri che costituiscono una società. Solamente per questa via ognuno riceverà ciò che gli è dovuto e al tempo stesso apporterà il suo contributo al bene dell'intera società. Vi è una certa analogia con la dipendenza della libertà individuale dalla legge.

     Ogni uomo è una specie di minisocietà: è un essere composito, fatto di corpo e di anima; ha diversi organi, potenze, tendenze, passioni e istinti. La sua vita e la sua libertà dipendono dalla conveniente disposizione di queste molteplici potenze e tendenze: se sono rettamente ordinate — reciprocamente tra di loro e rispetto ai valori più elevati — l'uomo può crescere in autentica libertà. Se invece vi è assenza di leggi in luogo di un retto ordine, la vita dell'uomo può andare in rovina.

     Nessuno potrebbe mai dire che un alcolizzato o un drogato sia un uomo libero: ha perso la libertà perché in lui un appetito non viene più assoggettato a una norma, a una misura di "giustizia" o di rettitudine; pretende più di quanto gli è dovuto, e domina e sfrutta le altre potenze rendendole schiave del proprio capriccio e distruggendo il "bene comune" dell'uomo inteso come una totalità. Non si conosce infatti l'uomo se si ignora che egli possiede entro di sé una serie di tendenze capaci di frustrarlo e persino distruggerlo nel caso in cui non siano rettamente ordinate: avidità, ira, lussuria, paura, irresponsabilità, fuga dalla realtà...

     L'uomo contemporaneo tende ad avere viva coscienza di ciò che, dall'esterno, sembra minacciare la sua libertà, in particolare le ingiustizie degli altri; è invece terribilmente inconsapevole che la sua libertà è minacciata anche da forze interiori: l'indebito dominio di qualche sua tendenza può giungere a "usurpare" il governo della sua vita. È tuttavia verità fondamentale che la più grave minaccia alla libertà proviene dal di dentro; la libertà dell'uomo è conquistata o perduta dall'interno. Persino in condizioni esterne di anarchia, di sfruttamento e di oppressione, un uomo può essere o divenire interiormente libero. Molti sono diventati liberi nei campi di concentramento. È altrettanto vero,   | peraltro, che numerose persone si sono consegnate alla schiavitù nel mondo libero. Persino se vive in condizioni di giustizia, di pace e di prosperità, l'uomo può divenire internamente schiavo; può permettere o forgiare la propria schiavitù inferiore. Consideriamo alcune dinamiche — le leggi — dell'interiore libertà o schiavitù dell'uomo [1].

II governo di sé

     Nell'uomo devono esservi legge e autogoverno se si vuole che la sua vita interiore non precipiti nell'anarchia assoluta. Per ognuno di noi il grande interrogativo è: «Chi o che cosa regolerà la mia vita?». Possiamo facilmente rispondere: «Io. Io mi governerò». La risposta è corretta, ma non esaustiva.

     In verità ogni uomo è costantemente sollecitato da numerose forze interne, ciascuna delle quali lotta per essere la forza che governa la sua vita. Egli deve scegliere quale di esse avrà potere nel forgiare la sua esistenza. Nel sistema "politico" interiore dell'uomo, il suo io rappresenta l'elettorato; ma questo deve distribuire il suo voto tra i diversi candidati in lizza per la guida del governo: desiderio di verità, fame di bontà... certamente; ma anche vanità, lussuria, avidità, brama di potere o di popolarità o di possesso... Le sue passioni corporali, destinate a essere ministri di second'ordine nel governo, non si accontentano dei portafogli di minore importanza: vorrebbero essere arbitri della politica come primi ministri.

     Consideriamo alcune possibilità che si presentano. Supponiamo che una persona scelga di sottomettersi al governo dell'avidità o della lussuria, lasciando così che le potenze inferiori del suo essere assumano il governo della vita intera. In simile situazione è libero un uomo? Certamente no: egli ha fatto una libera scelta a favore della schiavitù. Il suo "io" superiore, il suo spirito, si è reso schiavo delle passioni corporali: si è sottomesso alla "legge delle sue membra" (cfr Rm 7,23). È una corsa sfrenata all'egoismo e alla insensatezza; è tutto fuorché autogoverno.

     Naturalmente un uomo può rendersi conto che sta cadendo in schiavitù, che sotto un simile governo finirà presto col perdere la sua vera libertà, e può quindi reagire. Può, con uno sforzo, assoggettare le passioni al governo dell'intelletto e della volontà. Ciò senza dubbio segna un passo avanti. Ma anche questa forma di governo presenta diverse possibilità: la può attuare in modo difettoso se pretende di essere lui (si tratti pure della sua entità spirituale) il centro e il fine della sua vita, nonché la misura e la fonte di tutti i valori. Egli si trova allora sotto un governo ancora peggiore, che lo rende schiavo del suo orgoglio.

     In tal caso, può essere perfettamente consapevole di quell'area inferiore (la legge delle sue membra) dove è riuscito a imporsi; ma caparbiamente distoglie la sua attenzione dall'area più elevata (la legge di Dio) che non è disposto a servire. Poiché egli vuole essere legge a sé stesso, in quanto pone il suo io al di sopra di tutto, rifiuta di guardare sopra di sé. Al pari di Adamo ed Èva, gioca a essere "come dèi" (Gn 3,5); e così rimane: grande e indipendente nella stima di sé, ma di fatto misero prigioniero della sua incapacità di guardare a qualcosa che stia più in alto di lui.

     Un uomo può governare la sua vita nel modo migliore solamente se incentra fermamente in Dio la mente e la volontà. Allora egli si libera dalla presunzione che la sua mente (o il suo pregiudizio) sia la misura della verità delle cose e che la sua volontà (o la sua velleità) ne misuri la bontà. Quando guarda alla verità e al bene come attributi di Dio, scopre allora la legge del suo essere, della sua libertà e della sua realizzazione. Egli solo, in tutto il creato, è capax Dei, capace di possedere Dio. La realizzazione dell'uomo e la sua libertà non consistono nell'essere lui il signore e dio della creazione (che misero dio sarebbe ogni uomo, e come la vita diventerebbe una patetica rivalità tra patetici dèi!), ma nella capacità di conoscere, amare e possedere l'infinita verità e bontà di un Dio infinito.

     È solo sotto il governo delle sue facoltà più elevate che l'uomo troverà la liberazione. Ma deve ricordare che queste facoltà più elevate non sono autonome, non sono legge a sé stesse. Non creano la loro legge, ma sono sotto una legge ancor più elevata. La legge della mente umana è la verità. La legge della volontà è la bontà. La mente, quindi, deve essere governata dalla legge della verità; e la volontà, dalla legge del bene. Se ciò avviene, l'uomo sarà libero. Conoscerà la verità, e la verità lo farà libero (cfr Gv 8,32); amerà il bene, e il bene lo farà libero.

     Il riconoscimento della libertà compete alla mente; il raggiungimento, alla volontà. La verità mi farà libero se io decido di accettarla. Ma posso conoscere la verità (o essere in grado di conoscerla) e scegliere di non accettarla; in tal caso non mi rendo libero, ma mi privo della libertà.

     Rottura tra la legge della volontà e quella della niente È legge della volontà che io scelga il bene. Ma posso infrangere questa legge e scegliere il male: un male dal quale una certa "parte" di me — avidità, ambizione, orgoglio — è attratta come fosse un bene. Se scelgo ciò che è male — infrangendo così la legge della volontà — posso aver coscienza di aver fatto una cattiva scelta; oppure posso scegliere di pensare (meglio, sforzarmi di pensare) che sia bene ciò che in realtà è male; posso cioè scegliere di pensare il falso, infrangendo così la legge della mente.

     Come uno può scegliere di dire il falso, nel foro esterno, ingannando gli altri, così può scegliere di pensare il falso, nel foro interno, ingannando sé stesso. Supponiamo che un uomo abbia riscosso il suo stipendio mensile e se ne stia tornando a casa. Passa davanti a una casa da gioco: esita — dedito com'è al gioco —, ma poi entra e perde tutto. Uscendo, può decidere di andare a casa e dire a sua moglie la verità — «Ho avuto un momento di debolezza e ho perso tutto» — sopportandone le conseguenze. Oppure può scegliere di "giustificare" quel che ha fatto, allo scopo di eliminarne le conseguenze: «Perché mai non potrei fare quello che voglio del mio denaro? A lei non piacerà? Bene, che impari a occuparsi dei fatti suoi!».

     Il proposito di "giustificare" un atto che non ha giustificazione è alla radice di ciò che si chiama razionalizzazione, il processo cioè mediante il quale una persona sceglie di prendere in considerazione solo un aspetto di una faccenda con esclusione di altri, cercando delle "ragioni" comunque superficiali, e speciose, che siano verosimilmente d'appoggio a un certo tipo di condotta e ignorando intenzionalmente le argomentazioni più profonde e sostanziali che parlano decisamente contro tale condotta.

     Se scelgo di pensare il falso, di razionalizzare, violo la legge della mia mente. La legge dell'intelletto è che io pensi non ciò che voglio che sia vero, ma ciò che — indipendentemente da ogni sensazione, pregiudizio e preferenza — vedo essere vero.

     In simili casi, la libertà dell'intelletto è ostacolata dall'atteggiamento della volontà. Un uomo che è indebitamente attaccato a un certo modo di pensare o di agire può finire veramente col volere che l'intelletto non consideri (e perciò non "veda") le ragioni per cui quel modo di pensare o di agire è errato. Non che le ragioni non vi siano, o non siano evidenti: è che quell'uomo sceglie di non vederle.

     Per esempio, il fatto che alcune persone non vedano che la contraccezione o l'aborto sono dei gravi errori, trova spesso la sua spiegazione in questo meccanismo psicologico. All'inizio poteva trattarsi semplicemente di mancanza di volontà: non hanno voglia di vederlo; alla fine, spesso, vogliono non vederlo. Il loro pensiero non è libero: non è regolato dalla verità, ma dalla loro volontà, che a sua volta non è libera, essendo condizionata non dalla scelta del bene, ma da una scelta di comodo. Queste persone possono essere peraltro molto intelligenti; ma su certi argomenti, poiché è la volontà e non la verità a governare la loro mente, hanno perso la libertà di ragionare in modo intelligente; quando una riflessione intelligente renderebbe inaccettabile le pretese del loro amor proprio o della loro condotta morale, razionalizzano e non pensano più con mente perspicua.

     Nessun uomo possiede quindi vera libertà di pensiero se attaccamenti e pregiudizi impediscono al suo intelletto di esercitare la funzione che gli è propria: trarre delle conclusioni che siano autoevidenti. La più ampia conferma di questa verità è offerta dal salmista: «Lo stolto pensa: "Non c'è Dio"» (Sai 13,1).

     È giusta la Scrittura con gli atei? Dopotutto vi sono non pochi atei che sembrano essere piuttosto intelligenti. Ma la Bibbia dice che l'ateo è un insensato: perché? Perché non è la sua mente che lo conduce a dire che Dio non esiste, bensì il suo "cuore", cioè i suoi pregiudizi, le sue preferenze, i suoi sentimenti...

     La mente umana, se rettamente impiegata, non concluderà mai che Dio non esiste; al contrario, l'intelletto sano porta naturalmente e direttamente alla conclusione che Dio esiste. Perciò coloro che dicono "Dio non esiste" non usano l'intelligenza in modo corretto; anzi, sul tema dell'esistenza di Dio, sembra che non l'adoperino affatto. "Pensano" col cuore, che non è propriamente l'organo del pensiero. È per questo motivo che gli atei, per quanto possano essere intelligenti in altri àmbiti, sono pazzi e insensati su questo punto capitale. Asseriscono che Dio non esiste, ma non è col pensiero che sono giunti a questa "conclusione", bensì attraverso la mancanza di pensiero.

II. LEGGE CONTRO libertà?

La libertà è per scegliere

     Solo un pensiero confuso può considerare la legge e la libertà in contrasto tra loro. Alcuni ne affermano l'opposizione perché, a loro giudizio, la legge vincola mentre la libertà è senza legami... Ma, in realtà, anche la libertà vincola; se così non fosse, non servirebbe a nulla e non varrebbe la pena averla.

     La libertà non disposta a vincolarsi è inutile. La libertà è in funzione di una scelta; e nello scegliere una cosa, necessariamente se ne escludono altre. Se ho timore di legarmi a ciò che scelgo, è perché ho scarsa capacità di decidere (sono una persona che non sa scegliere) o perché non vedo qualcosa che meriti la mia scelta (ho davanti a me delle alternative di poco conto). In entrambi i casi, la mia libertà, la mia capacità di scelta, è pressoché priva di valore.

     Quanto migliore è l'oggetto della scelta, tanto più vale la pena scegliere e tanto più attenersi alla scelta che si è fatta. Scegliere Dio e perseverare in questa scelta è il miglior uso possibile della libertà. Legarsi a Dio è il più libero degli atti ed è quello che più rende libero l'uomo.

     Persino sul piano umano ciò risulta evidente. Scegliere il matrimonio significa scegliere una cosa buona: una cosa grande, se è un vero matrimonio che si è scelto. Ma scegliere un vero matrimonio significa vincolarsi indissolubilmente per la vita a una persona; scegliere invece un matrimonio dissolubile significa non scegliere affatto un matrimonio. Aver timore di legarsi all'amore significa aver timore di amare, timore di non aver trovato un vero amore, oppure di essere incapaci di vero amore.

     Potremmo illustrare questo punto in modo un po' diverso. Essere libero di sposarsi significa essere libero di vincolarsi. Se una persona si sente incapace di vincolarsi, essa allora non è libera di sposarsi: può dire "sì" nella cerimonia nuziale, ma se ciò che effettivamente vuoi dire è "no" all'idea di accettare un impegno permanente, non sceglie un vero matrimonio ne la felicità che può dare un vero matrimonio scelto con fermezza di propositi. Sceglie solo un legame sessuale limitato nel tempo, e ciò non può mai dare felicità.

     Una legge fondamentale della libertà è: le scelte che valgono la pena devono essere fermamente mantenute. Una persona non è libera se manca di fermezza, se non è abbastanza padrona di sé per continuare a camminare quando farlo, anche se ne vale la pena, diventa difficile. Cambiare, tornare sulle proprie decisioni, è prova non tanto di libertà quanto di debolezza.

libertà, legge e restrizione

     Per alcune persone libertà significa assenza di restrizione; legge, invece, presenza. Concludono così che legge e libertà sono in contrasto.

     Porre l'essenza della libertà nella mancanza di limite o di restrizione è cadere in una falsa idea di libertà, almeno per come è applicabile all'uomo nella sua condizione presente. La libertà deve esser vista in funzione della natura, e la natura umana è costituzionalmente soggetta a molte limitazioni. Volere la libertà di non essere soggetto a limitazioni — per esempio, la libertà di non mangiare o respirare — significa volere la libertà di non essere uomo. Per quanto riguarda la legge e le relative limitazioni, ripetiamo ciò che s'è detto nel secondo capitolo: in un certo senso, la legge comporta sempre delle restrizioni, necessarie proprio allo scopo di preservare la libertà per me e per gli altri. Quanto alla mia persona, la legge mi allontana dalle azioni che sono contrarie alla mia natura, che mi possono frustrare e togliere la mia libertà di essere uomo, di intraprendere una via di sviluppo veramente umana. Quanto agli altri, la legge mi allontana dalle azioni che comportano una qualche violazione delle loro libertà fondamentali di sviluppare umanamente la loro vita.

     La libertà di ciascuno di noi è quindi destinata a essere condizionata, a subire restrizione dalla libertà degli altri. Chi ama veramente la libertà se ne rende conto ed è disposto — volontariamente disposto — a limitarsi per riguardo agli altri, a limitare cioè la sua libertà quando occorre perché gli altri, senza ostacoli e legittimamente, possano esercitare la propria. La persona che ama la sua libertà, ma non quella degli altri, non è un autentico amante della libertà: non ama veramente la libertà in quanto tale.

     libertà non è il potere di fare ciò che si vuole: è la facoltà e il potere di fare il bene. Quest'affermazione, che potrebbe provocare un'istintiva contestazione da parte di numerose persone, esprime tuttavia un'evidente verità.

     Forse che libertà significa esser liberi di rubare, frodare, sfruttare, rapire, assassinare, anche se è questo che uno vorrebbe fare? Fa certamente bene l'uomo a reclamare la libertà come un diritto; ma la libertà cui egli ha diritto è la retta libertà di fare il bene, non la falsa libertà di fare il male. Ha il potere, ma non il diritto, di adoperare la libertà per fare il male; è capace, ma non autorizzato, a compiere il male. «Quella libertà cui i nostri contemporanei tanto tengono [...] spesso la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male» (GS 17).

     libertà, diritti e doveri sono strettamente collegati. Un uomo veramente libero non è libero solo di esercitare i suoi diritti; è libero anche di compiere i suoi doveri: e li compie. libertà e responsabilità, libertà e dovere, libertà e adempimento sono inseparabili.

Fermare chi sbaglia?

     Nessuno ha il diritto di agire male. Inoltre, nessuno ha il diritto di sbagliare, sia pure nell'intimo o inconsapevolmente. Abbiamo la capacità di sbagliare, ma non il diritto.

     Se nessun uomo ha il diritto di sbagliare, vuoi dire che possiamo impedirglielo? Possiamo fermare un uomo impazzito o ubriaco che vuoi buttarsi da una finestra del quinto piano? Possiamo certamente tentare. Possiamo allora fermare un uomo che vuoi commettere un suicidio spirituale o morale, dedicandosi per esempio a letture o a pensieri che possono minare e distruggere la sua fede o la sua vita morale?

     La risposta impone delle distinzioni. È chiaro che non possiamo esercitare una coercizione fisica sulla coscienza di una persona. Certamente non abbiamo alcun diritto (e, invero, neppure la possibilità) a trattenere fisicamente una persona che sbaglia nelle sue idee. La coscienza non può essere coartata. Ma abbiamo ogni diritto e dovere di cercar di fermare moralmente una persona che erra; cercare cioè di convincere una persona dell'erroneità delle sue scelte e di farle vedere ciò che è giusto, persuadendola ad aderirvi.

     Se una persona che ha idee sbagliate induce anche altri in errore, allora occorre fare un passo in più. Quando un uomo con idee erronee comincia a propagandarle, non si muove più nell'ambito meramente personale della coscienza (dove risponde solo davanti a Dio): egli entra in area sociale e le sue azioni sono soggette alle leggi che regolano il bene comune della società.

     Pertanto, quando una persona che professa idee e valori erronei comincia a divulgarli — se, per esempio, favorisce lo spaccio di droga, diffonde pornografia, predica la discriminazione razziale, promuove l'odio di classe o la violenza sociale —, allora coloro che detengono l'autorità hanno il dovere di impedirle di propagandare quelle idee. Un uomo che raduni un gruppo di giovani per predicar loro la piacevolezza e la libertà delle droghe, della pornografia o della promiscuità sessuale può e dovrebbe essere trattenuto da questa condotta sbagliata. Pensare in modo sbagliato rimane una possibilità, anche se non è un diritto; non può mai essere fisicamente impedito dall'esterno. Agire erroneamente non è del pari un diritto e dovrebbe sempre essere fisicamente impedito.

     Il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione sulla libertà religiosa, insegna che vi è un diritto all'immunità da coercizione "anche in coloro che non soddisfanno all'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato il giusto ordine pubblico, non può essere impedito" [2].

      Le esigenze dell'ordine pubblico sono naturalmente determinate dal diritto naturale e, nella società ecclesiale, dal diritto positivo della Chiesa. Se non vengono rispettate, la libertà di una persona a diffondere le sue idee può e deve subire restrizioni.

Obbedire liberamente

     Poiché non vi è alcuna forza fisica che possa costringerci a obbedire alla legge di Cristo o alla legge della Chiesa, è chiaro che, se obbediamo, lo facciamo liberamente. Molti cristiani danno ancora l'impressione di obbedire alla legge con riluttanza, con senso di costrizione, con scarso o nessun senso di libertà.

     Una legge — o la chiamata a obbedirvi — deve sempre toglierci il nostro senso di libertà? È possibile obbedire con pieno senso di libertà? Certamente sì! Si obbedisce con assoluto senso di libertà se si sceglie liberamente e personalmente di obbedire, se si obbedisce volentieri e, soprattutto, se si obbedisce per amore.

     Amore: è questa la grande motivazione che dobbiamo porre nella nostra obbedienza. È l'amore che rende la nostra obbedienza pienamente libera. Per la persona che vuoi seguire Cristo, la legge non è mai un peso; diventa tale solamente nella misura in cui nella legge non si percepisce la chiamata di Cristo, o non si è desiderosi di seguirla. Perciò, se talvolta la legge ci sembra onerosa, è probabile che non sia la legge ad aver bisogno di correzione, ma il nostro desiderio di seguire Cristo.

     «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). È per questo motivo che voglio, Signore, obbedire a tè e alla tua Chiesa; non perché io veda, in primo luogo, la ragionevolezza di ciò che è comandato (benché la ragionevolezza sia spesso ben evidente); no: principalmente perché voglio amarti e dimostrarti il mio amore. E anche perché sono convinto che i tuoi comandamenti sono frutto di amore e mi rendono libero: «Sarò sicuro nel mio cammino, perché ho ricercato i tuoi voleri. [...] Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» (Sai 118,45.32).

Immaturità dell'obbedienza?

     Alcuni sostengono che è irragionevole, o segno d'immaturità e persino d'irresponsabilità, obbedire se non si vedono le ragioni che giustificano le prescrizioni o il comando dato.

     Sarebbe certamente irragionevole, e in effetti erroneo, obbedire a una legge che una persona vedesse sbagliata e chiaramente contraria alla volontà di Dio. Ma supponiamo che non sia questo il caso: supponiamo che non si tratti di vedere che la legge è sbagliata, ma semplicemente di non vedere che è giusta. In tal caso — nel quale non comprendiamo le ragioni che giustificano la legge o il comando di un superiore — è ragionevole obbedire? Se ci atteniamo all'analisi appena fatta — dove è l'amore a ispirare l'obbedienza — la risposta è ancora sì: è ragionevole obbedire a una legge di cui ci sfuggono le ragioni, purché si abbia ragione di credere al discernimento o all'autorità di chi pone la legge.

     È ragionevole per un bambino obbedire alle indicazioni di suo padre, anche se non ne comprende le ragioni: è segno d'amore. È ragionevole per un ricercatore che assiste un Premio Nobel per la fisica seguire le indicazioni del suo professore, anche se non ne vede le ragioni: è segno di fiducia. È ragionevole per un soldato obbedire agli ordini del suo comandante pur senza capirne le ragioni: è segno di maturità e di responsabilità. Il bambino che non obbedisce perché non comprende, non ama. Il soldato che non obbedisce perché non comprende, non è maturo ne responsabile.

     Così è ragionevole per un cristiano accogliere la parola di Cristo quando insegna che Dio è uno e trino; noi non comprendiamo il mistero della Santissima Trinità, ma abbiamo ragione di credere alla parola di Cristo. La ragione, in ultima analisi, è l'amore. È parimenti ragionevole accogliere non solo l'insegnamento morale e dogmatico della Chiesa, ma anche le sue leggi disciplinari e le indicazioni dei legittimi superiori, si comprendano o no le ragioni che vi sono sottese. Abbiamo ragione di credere che dietro ad esse c'è Cristo e vogliamo dimostrare il nostro amore per lui. La ragione del nostro obbedire è l'amore. Nulla è più saggio dell'amore. L'obbedienza è la libera scelta dell'amore.

     L'obbedienza cieca e insensata — l'obbedienza del robot — sarebbe segno d'immaturità. Non è questa l'obbedienza richiesta ai fedeli nella Chiesa di Cristo. I cristiani non sono dei robot. Sono degli esseri intelligenti e liberi che usano la loro intelligenza per riflettere sulla loro fede e arguire che Cristo vuole che vedano la sua volontà dietro l'autorità della Chiesa; essi esercitano la loro libertà nell'obbedire all'autorità ecclesiastica per suo amore.

     "Le leggi non sono necessarie se pratichiamo l'amore": è una di quelle frasi dal suono gradevole che talvolta si sentono. Suona bene, ma è assolutamente falsa. Si potrebbe dire: «Gli indicatori stradali non sono necessari; per viaggiare basta l'amore»; se però vogliamo arrivare in qualche luogo (e, soprattutto, se vogliamo arrivare da Qualcuno) gli indicatori stradali sono proprio indispensabili.

     Ciò che non è necessario, se amiamo, è la coercizione. Ma le leggi sono necessarie: leggi che indicano la strada per andare dove vuole l'amore. Esprimiamo questo concetto ancor più esattamente se diciamo: le leggi sono gli indicatori posti dall'amore di Dio e ci segnalano il cammino che il suo amore vuole che seguiamo, nonché il cammino che il nostro amore intende seguire per giungere a lui.

 

NOTE

[1] Se diamo uno sguardo entro l'uomo occorre stabilire alcune distinzioni circa le modalità della sua vita psichica. Al giorno d'oggi alcuni contestano queste distinzioni, affermando che l'uomo è un essere solo, un'unica persona, e che pertanto non avrebbe senso parlare della sua mente, della sua volontà e dei suoi sentimenti, come se fossero realmente distinti da lui. Orbene: non si afferma che sono potenze distinte dall'uomo quando si dice che sono distinguibili tra loro; inoltre, non è possibile comprendere la complessità delle operazioni inferiori dell'uomo se non si provvede a distinguerle.

     Benché sia vero che in ciascuno di noi vi è una sola persona, un solo "io" che agisce, tuttavia possiamo e dobbiamo intendere che l'attività personale si esprime in modalità chiaramente distinguibili. Pensare non è la stessa cosa che percepire, conoscere non è lo stesso che amare, essere affamato o stanco non è lo stesso che essere adirato o egoista. Se non teniamo ben presenti queste distinzioni, non potremo mai capire il processo per cui un uomo può acquistare o perdere la sua libertà interiore.

[2] Concilio Vaticano II. Dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2. Questa clausola di rispetto per le esigenze dell'ordine pubblico è ripetuta nei paragrafi successivi della Dichiarazione.