07. L'Oggetto del Consenso e i Fini del Matrimonio

            Il consenso matrimoniale conferisce affatto un diritto fondamentale o costituzionale al matrimonio con le sue proprietà essenziali.  Tuttavia non conferisce nessun diritto parallelo al conseguimento dei fini del matrimonio.  Ciascuno sposo può rivendicare come diritto l'accettazione del matrimonio, nella sua essenziale integrità, da parte dell'altro.  Ma nessuno può reclamare il fine del matrimonio come un diritto.

            Riguardo al fine procreativo del matrimonio, la giurisprudenza sostiene che il consenso coniugale coinvolge il dare-accettare del diritto al "bonum prolis", cioè, un diritto agli atti fisici ordinati alla procreazione, e anche a una positiva disposizione mentale verso l'effettiva procreazione come possiblità.  In effetti, ha spesso ribadito che il consenso matrimoniale implica lo scambio di un diritto/obbligo non soltanto agli atti coniugali aperti alla vita, bensì pure all'accettazione della prole che possa effettivamente essere concepita da questi atti [1].

            Qui occorre che le idee e la terminologia usata abbiano una grande precisione.  Esiste infatti uno "ius ad bonum prolis", cioè un diritto al dono della procreatività; non esiste però uno "ius ad prolem", anche se una giurisprudenza meno attenta ne abbia talora parlato [2].

            Leggiamo in una sentenza coram Raad, del 14 aprile 1975: "non bisogna dimenticare che i fini del matrimonio o della parte contraente non costituiscono elementi essenziali dell'oggetto del consenso, al contrario di quanto alcuni fra autori e giudici pensano.  Secondo loro, chi è incapace del fine, è incapace di contrarre il matrimonio e di prestare un consenso valido.  Per rifiutare questa teoria, basta ricordare il can. 1068, § 2: "la sterilità non dirime né proibisce il matrimonio".  Ciò che si afferma del fine principale del matrimonio, può affermarsi a fortiori degli altri fini" [3].  In modo simile leggiamo in una sentenza più recente coram Pompedda: "sembra che i fini del matrimonio o del contraente non costituiscano degli elementi essenziali del consenso" [4].

            In effetti, mentre il matrimonio in quanto istituzione tende a determinati fini, e i coniugi devono accettare gli elementi costitutivi che si indirizzano verso siffatti fini, non esiste alcuna base per sostenere che devono possedere l'effettiva capacità per raggiungere i fini.  Questo dato è pacifico ed evidente rispetto alla procreazione.  Non esiste obbligo assoluto o giuridico di procreare.  Può esistere un matrimonio valido benché l'effettiva procreazione ne sia esclusa.  Pio XII ha insegnato che, dove ci sia sufficiente causa e sempre che si faccia scambio dello "ius in corpus", i coniugi potrebbero essere giustificati nell'evitare la procreazione, perfino per tutta la durata della loro vita coniugale [5].

            Giacché i fini del matrimonio cadono al di fuori della sua essenza, non mi sembra corretto voler determinare i diritti/obblighi essenziali in funzione di questi fini; vanno piuttosto determinati in funzione dell'essenza (e delle sue proprietà essenziali, le quali entrano nell'essenza in quanto descrivono aspetti della medesima).  Nes­suno può reclamare ad un altro - come qual­cosa a lui dovuto - ciò che non rientri propriamente o pienamente fra le possibilità dell'altro di concedere.  Ripetiamo, pertanto: mentre ogni parte possiede il diritto che l'altra accetti il matrimonio nella sua essenziale integrità (con le sue proprietà essenziali), nessuno può rivendicare il fine o i fini del matrimonio come qualcosa di dovuto.

            Se l'effettiva procreazione non è una obbligazione essenziale del matrimonio, non sarebbe da affermarsi lo stesso - a fortiori - con riferimento alla educazione?  Personalmente tendo ad accettare l'opinione secondo la quale l'educazione dei figli è una obbligazione radicata direttamente nella paternità piuttosto che nel matrimonio.  E' opinione comune che l'educazione della prole rappresenta un effetto del matrimonio anzicché uno dei suoi obblighi essenziali [6].  Essendo la questione opinabile, è comunque assai difficile misurare l'estensione di quest'obbligo in termini giuridici.  Vi sono altre difficoltà.  Per esempio, va sostenuto che una persona sotto pena capitale, o chi soffre di una malattia della quale con ogni certezza morirà fra pochi mesi, non possa prestare un valido consenso giacché incapace di partecipare alla educazione dell'eventuale figlio che potrebbe nascere dalla breve unione coniugale?

Il "bonum coniugum" [7].

            Rivolgiamo ora la nostra attenzione al "bonum coniugum", che il canone 1055 presenta come l'altro fine del matrimonio, alla stessa stregua della procreazione/educazione della prole.  Se seguiamo la logica appena esposta, sembra che non si può nemmeno parlare propriamente di un diritto al "bene dei coniugi" [8].  Ma, prima di esaminare questa questione - se il «bonum coniugum» origini qualche diritto/obbligo essenziale e costitutivo, derivante dal consenso matrimoniale, distinto dai diritti/obblighi essenziali che abbiamo individuato supra - il nostro impegno deve volgersi a determinare il contenuto giuridico del «bonum coniugum» stesso.  Questo risulta tanto più necessario nel senso che, mentre da una parte abbiamo a che fare con un termine della massima importanza (giacché il Codice del 1983 lo usa per descrivere uno dei fini del matrimonio), il termine stesso, come si osserva agevolmente esaminandone la storia, è assai nuovo nell'uso giuridico.

             Prima dell'avviso dei lavori preparatori per il Codice post-Vaticano II, l'espressione «bonum coniugum» si trova raramente sia nella letteratura canonistica sia nei documenti magisteriali.  Nell'anno 1977 fu recepito nella bozza di ciò che più tardi sarebbe divenuto il canone 1055.  I Con­sul­tori della Commissione per il nuovo Codice non fecero comunque nessuna precisa­zione sul significato del termine, se non quella di indicare che si voleva esprimere con esso "il fine personale" del matrimonio (cfr. Communicationes, 1977, p. 123), assunto, come si sottolineó posteriormente, nel senso oggettivo, di "finis operis", e non nel senso soggettivo di mero "finis operantis" (ib., 1983, p. 221).  La sua legittimazione giuridica è avvenuta tramite l'incorporazione del termine nella descrizione del matrimonio effettuata dal can. 1055: il matrimonio è "per sua natura ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole".  Ciò nonostante, l'espressione «bonum coniugum» è stata scarsamente usata nella giuris­prudenza rotale degli anni successivi [9], e l'anali­si del suo contenuto giuridico non è stata sufficientemente presa in considerazione dalla dottrina (cfr. C. Burke: op. cit. Apollinaris, LXII (1990), pp. 559ss).

            E' importante determi­nare dove e come questo termine si inserisca nello schema tradizionale che distingue tra essenza, fini e proprietà del matrimonio.  Alcuni autori hanno voluto scorgere nel «bonum coniugum» un quarto «bonum» del matrimonio, da aggiungere ai tre «bona» tradi­zionali, segnalati da Sant'Agostino [10].  Ciò sembra inquadrare chiaramente il «bonum coniugum» come proprietà matrimoniale.

            Questa tesi non resiste però ad un'analisi adeguata.  È particolar­mente importante, qui, non confondere la somiglianza dei termini con la loro configurazione giuridica.  Nella dottrina agostiniana, i tre «bona» vanno riferiti a dei "beni" dello stato matrimoniale; sono caratteristiche o valori positivi del matrimonio che confe­riscono dignità ad esso.  Il matrimonio è buono perché carat­terizzato dalla fedeltà, dalla perpetuità del vincolo, e dalla fecondità.  Ogni «bonum» va predicato cioè del matrimo­nio; va assegnato ad esso: la procreatività è un "bonum matrimonii", e lo è altrettanto la fedeltà o la perpetuità.  Si può notare agevolmente che Sant'Ago­stino stia parlando dei valori del matrimonio, delle sue proprietà, non dei suoi fini.

            Al riguardo, può essere di aiuto la seguente presentazione schematica:

            - bonum fidei: la "fides" è un «bonum» o attributo del matrimonio;

            - bonum prolis: la "proles" [11] è allo stesso modo un «bonum» o attributo del matrimonio;

            - bonum sacramenti: l'indissolubilità ne è anche un «bonum» o attributo.

            Risulta immediatamente ovvio che non si può aggiungere il «bonum coniugum» come un ulteriore elemento di questo elenco; sarebbe infatti un "non-senso" affermare che i "coniuges" siano un «bonum», cioè un attributo, del matrimonio.  E' palese che il termine «bonum coniugum» non esprime un valore o proprietà o attributo del matrimonio.  Il «bonum» di questo nuovo termine va predicato non del matrimonio (come se fosse un valore che conferisce bontà al matrimonio), ma dei coniugi (in quanto esprime qualcosa che è "buona" per loro); non denota una proprietà del matrimonio (un "bonum matri­monii"), bensì qualcosa - il bene dei coniugi - che il matrimonio deve causare o originare.  Sembra ovvio, pertanto, che il «bonum coniugum» non si situa nella linea di proprietà [12], bensì in quella di fine.  Il matrimonio, istituzione caratterizzata dalla esclusività, dalla permanenza e dalla procreatività, tende al bene dei coniugi come tende all'effettiva procreazione della prole.  La stessa redazione del canone 1055 non lascia dubbio sul punto: il matrimonio è "per sua natura ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole".  E l'ordinazione di cui si parla qui è una ordinazione ai fini naturali ed inerenti al matrimonio.

            Dovrebbe essere ovvio, da quanto abbiamo visto nell'ultimo capitolo, che è inaccettabile far coincidere il "bonum coniugum" con l'amore coniugale.  L'amore non è tanto una parte costitutiva del "bonum coniugum" quanto un fattore che, se va adeguatamente vissuto, tende al bene dei coniugi.  In fin dei conti, il matrimonio è normalmente una conseguenza dell'amore; da qui appare come motivo almeno tanto quanto fine del matrimonio.  Inoltre, l'amore e il matrimonio si collocano nello stesso ordine operativo, in quanto si indirizzano verso gli stessi fini.  La Gaudium et Spes lo afferma rispetto alla procreazione: "Per sua indole naturale, l'istituto stesso del matrimonio e l'amore coniugale, generoso e cosciente, sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole..."; "Il matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole" (nn. 48; 50).  Il magistero posteriore, in modo particolare nella formulazione del canone 1055, sembra chiaramente legittimare l'amplificazione di queste parole della Gaudium et Spes nel senso che il matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati, non meno che alla procreazione, pure al "bene dei coniugi", l'altro fine istituzionale del matrimonio.

Il contenuto giuridico del «bonum coniugum»

            Per quanto riguarda il contenuto giuridico del «bonum coniugum», possiamo avanzare qui alcune riflessioni provvisorie a riguardo [13].

            Una sentenza coram Pinto del 18 dicembre del 1979, inquadrando il "bene del coniuge" come "il cosiddetto fine personale secondario del matrimonio", avanzò la tesi secondo la quale i diritti/obblighi che costituiscono siffatto bene "vanno annoverati, nel Codice [del 1917], sotto i concetti di «mutuo aiuto» e «rimedio della concupiscenza» o, nello schema del diritto matrimoniale per il nuovo Codice, sotto il «diritto alla comunione di vita» che comprende quei diritti che appartengono alle essenziali relazioni interpersonali fra i coniugi" [14].  In modo non dissimile, una sentenza coram Pompedda del 11 aprile 1988, postula che il "«bonum coniugum» - di cui unicamente tratta il Codice senza ulteriore menzione del diritto alla comunione di vita - sia inteso e posto in essere attraverso lo ius (e relativo obbligo) ad vitae communionem: tale comunione di vita, ispirata idealmente sull'amore coniugale su cui tanto ha insistito il Concilio Vaticano II, deve essere presa nel suo significato più ampio ed espressa giuridicamente per mezzo di quei diritti/obblighi riguardanti il comportamento peculiare e specifico, essenzialmente richiesto e sufficiente in ragione della natura stessa del matrimonio, nelle relazioni interpersonali proprie dei coniugi e di rilevanza giuridica" [15].  Un'altra sentenza colloca il «bonum coniugum» nella costituzione della comunità di vita e amore: "quella incapacità ricade sul bonum coniugum, ossia l'impossibilita di costituire quella comunità di vita e di amore di cui parla la Gaudium et Spes" [16].

            Abbiamo già ricordato che la proposta di uno "ius ad vitae communio­nem" non fu recepita nel nuovo Codice, perchè considerato ridondante, cioè equivalente ad uno "ius ad matrimonium ipsum".  Non sembra pertanto che un'analisi giuridica di siffatto "diritto" possa rivelare dei nuovi diritti/obblighi essenziali provenienti dal consenso.  Aggiungere semplicemente che questo "diritto" comprende quelli che affettano le "relazioni interpersonali essenziali" non sembra offrire un approfondimento giurisprudenziale, a meno che non si specifichi quali relazioni interpersonali - al di là di quelle comprese nei tre «bona» - siano giuridicamente essenziali al matrimonio: compito di specificazione che non è ancora compiuto.

            Alcune sentenze coram Pinto offrono altre specificazioni che sembrano rimanere a un livello non troppo profondo.  Utilizzando un sorprendente singolare ("bonum coniugis"), egli lo farebbe consistere nella mutua "integrazione" psico-sessuale [17].  In altro luogo, collocando il «bonum coniugum» fra gli obblighi essenziali del matrimonio, lo descrive come "l'intima unione delle persone e dei comportamenti nella quale i coniugi scoprono quella complementarità psicosessuale senza la quale non può sussistere il consorzio di vita matrimoniale" [18], consistendo nel diritto di ciascun sposo a trovare nell'altro "Il suo complemento psicologico psicosessuale specifico di vero coniuge" [19].  Questa analisi sembra attribuire uno scopo molto circoscritto e transeunte - il raggiungimento di una complementarità relativa - al bene, per gli sposi, che deve derivare dal matrimonio.

            Altra opinione fa dipendere il "bonum coniugum" dalla realizzazione di un grado almeno minimo di accettabile relazione interpersonale tra gli sposi: "...il bonum coniugum, che è l'elemento essenziale del matrimonio, che implica la capacità di allacciare una relazione interpersonale con un futuro coniuge, (che sia) almeno tollerabile" [20]; ma si può dubitare ancora sull'adeguatezza di tale analisi.

            Altri ancora sostengono che il «mutuum adiutorium"»e il «reme­dium concupiscentiae», anteriori "fini secon­dari" del matrimonio che non sono citati nel nuovo Codice, vanno inclusi nel «bonum coniugum» [21].  Da parte mia preferisco pensare che abbiamo abbandonato il concetto del "remedium concupiscentiae"; mentre considero che il «bonum coniugum» risulta in realtà assai più esteso che il "mutuum adiutorium" [22].

            Giacchè si tratta, ripetiamo, di un nuovo concetto nell'uso canonico, il tentativo di stabilirne il contenuto e il significato giuridici (compito di sommo interesse) deve in primo luogo fare molta attenzione ai luoghi di provenienza indicati dal volume di pochi anni fa che annota le Fonti del nuovo Codice (Libreria Editrice Vaticana, 1989).  Fra le fonti del canone 1055, la Casti connubii va annotata in primo luogo; e anche vari documenti magisteriali di Pio XII, tra loro il Discorso del 29 ottobre 1951 ove il Papa parla del "perfezionamento personale degli sposi" come fine del matrimonio (benché sia secondario) (AAS 43 (1951) 2, 848-849).  Come è logico, la Gaudium et Spes, n. 48 è citata come un'altra fonte; e inoltre i nn. 11 e 41 della Lumen Gentium, e il n. 11 della Apostolicam Actuositatem.  La Gau­dium et Spes si riferisce allo sviluppo umano e soprannaturale dei coniugi: marito e moglie "prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, sperimentano il senso della propria unità e sempre più permanentemente la raggiungono ...  Ed essi, compiendo il loro dovere coniugale e familiare...  tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santifi­cazione".  La Lumen Gentium, in modo particolare nel n. 11, insiste nell'aspetto soprannaturale di questa realtà: "I coniugi cri­stiani si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniu­gale e nell'accettazione ed educazione della prole"; e altret­tanto fa il Decreto sull'Apostolato dei Laici: "I coniugi cristia­ni sono reciprocamente cooperatori della grazia e testi­moni della fede".

L'essenza del «bonum coniugum»

            Per quanto riguarda l'essenza del «bonum coniugum», penso dunque che essa vada ricercata nella linea della maturazione degli sposi (cfr. Rinaldo Bertolino: op. cit. pp. 119ss), in questa vita e nella prospettiva della vita eterna; cioè, per seguire le espressioni della Casti connubii, la "mutua formazione interiore" dei coniugi, il loro "costante impegno per aiutarsi mutuamente verso la perfezione" (AAS 22 (1930) 548).

            Perciò non sembra che l'idea di far consistere il «bonum coniugum» in una mera "compatibilità" di carattere fra gli sposi [23], e ancor meno in una vita comoda, libera da qualsiasi tensione, sia conciliabile con la compren­sione cristiana dell'autentico bene dei coniugi.  Più solida invece sembra la tendenza ad armonizzare il «bonum coniugum» con le esigenze della mutua donazione fedele, permanente ed aperta alla paternità.  Così, inoltre, si libera il «bonum coniugum» dal pericolo di interpretazioni umanamente riduttive che tendono a misurarlo in una prospettiva soggettiva e individualista.

            Infatti, il «bonum coniugum», nel senso più oggettivo, è promosso dallo sforzo degli sposi a vivere il mutuo impegno matrimoniale nella piena fedeltà coniugale, per amarsi con perseveranza tutti i giorni della loro vita, con la generosità esigente che questa dedizione implica fra sé e nei riguardi dei figli che Dio ha loro donato.

            Come risulta evidente, il «bene dei coniugi» si compie non soltanto attraverso le consolazioni della vita coniugale, ma pure e in modo speciale per mezzo delle esigenze di questa vita medesima.  Si intuisce quindi come il "bonum coniugum" (fine del matrimonio) si collega in modo naturale con i «bona» agostiniani (proprietà matrimoniali).  Di fatto, sembra corretto affermare che l'accettazione di quei "beni" tradizionali, e il rispetto degli obblighi che ne derivano, crea, più che ogni altra cosa nel matrimonio, le condizioni che favoriscono il bene dei coniugi.  Si può dunque concludere che i «bona» agostiniani che in modo fondamentale caratterizzano il matrimonio, forniscono pure la struttura di base sulla quale si può costruire il «bonum coniugum» [24].

            La Gaudium et Spes, in sintonia con la Casti connubii, insegna che l'indissolubilità favorisce il «bonum coniugum» [25]: e questo senza dubbio va inteso nel senso che tutto lo sforzo ed il sacri­ficio che comporta la fedeltà al carattere inscindibile del vincolo matrimoniale - in ciò che è favorevole e in ciò che è avverso, ecc. - serve per maturare e perfezionare le personalità degli sposi.  Abbiamo già ricordato come Paolo VI ha insistito incisivamente sul fatto che Dio ha dotato il matrimonio "di leggi proprie, che gli sposi sono ben felici, di solito, di riconoscere ed esaltare e che comunque essi devono accettare per il loro proprio bene" (AAS vol. 68 (1976) p. 207).  E Giovanni Paolo II, in un Discorso alla Rota Romana, ha affermato che, secondo il concetto cristiano, "la realizzazione del significato dell'unione coniugale, mediante il dono reciproco degli sposi, diventa possibile solo attraverso un continuo sforzo, che include anche rinuncia e sacrificio" (AAS 79 (1987) 1456).

            Infatti, le crisi attraverso cui passano tutti i matrimonii sono superabili soltanto se gli sposi riescono a capire adeguatamente la vera natura del loro "bene" - il «bonum coniugum» - e l'intima dipendenza di esso dalla natura e dalle esigenze dei tre «bona» agostiniani.

            Il pericolo di applicare dei criteri riduttivi al "bonum coniugum" risulta più evidente se si considera il caso di chi ama e vuole sposare una persona totalmente menomata e handicappata, che è incapace di lavorare, di guadagnarsi la vita, o magari di occuparsi anche minimamente di sé stessa.  Nessuno metterebbe in discussione il diritto di operare tale scelta matrimoniale.  E tuttavia si può domandare: quale contributo materiale potrà apportare la persona inabilitata al "bene dei coniugi"?  Nessuno, sembra lecito rispondere, essendo chiaro che, in termini materiali, questa persona sarà un gravame per l'altro coniuge.  Ciò nonostante, chi affermerebbe mai che la persona in questione non può contribuire spiritualmente (con un contributo il cui valore sfugge ad ogni misure umana o giuridica) a questo bene?  Non si possono infatti valorizzare gli oneri fisici o i contributi materiali come parametri principali del "bonum coniugum", che non va adeguatamente definito con termini materiali o economici, di capacità di lavoro, di guadagnarsi la vita, ecc.

Relazione tra «bonum coniugum» e procreazione

            La stessa Costituzione Gaudium et Spes stabilisce una connessione diretta tra il «bonum prolis» e il «bonum coniugum», quando afferma che "i figli contri­buiscono notevolmente al bene dei loro genitori" (GS 50).  I figli arricchiscono la vita dei genitori in molti modi, soprattutto in virtù della dedizione generosa che sollecitano in loro.

            Il personalismo della copula aperta alla vita, come abbiamo visto in precedenza, unisce gli sposi in una maniera singolare.  Siccome non pone nessun ostacolo alla genuina unione della sessualità complementare tra loro, questo personalismo conduce a un approfondimento della comunità tra marito e moglie e favorisce il loro "bene".  La copula contraccettiva viene invece inficiata da un individualismo che li separa, frustrando il vero «bonum coniugum».

            Nel considerare l'atto coniugale per cui gli sposi diventano "una carne", abbiamo cercato di fare una analisi più approfondita della verità fondamentale asserita da Paolo VI nella Humanae Vitae: che non è lecito separare l'aspetto unitivo da quello procreativo dell'atto.  Il vero personalismo cristiano porta a una simile conclusione riguardante i fini istituzionali del matrimonio: il «bonum coniugum» e la procreazione-educazione della prole.  Vi è una connessione naturale e intrinseca anche fra questi due fini; vanno intimamente vincolati tra loro, e la ricerca di ciascuno deve aiutare il conseguimento dell'altro, essendo contemporaneamente condizionata e aiutata da esso (cfr. "I Fini... Annales Theologici 1992-2, pp. 252-253).

            Il desiderio di auto-affermazione come pure quello di auto-perpetuazione sono comuni a quasi tutte le persone.  Questi desideri comportano indubbiamente delle forti connotazioni personalistiche; ma è anche vero che il personalismo è spesso minacciato dall'egocentrismo.  Per quanto riguarda l'atto coniugale, essendo così che tende in modo speciale all'auto-affermazione e all'auto-perpetuazione, queste, in virtù della natura generosa e oblativa dell'atto, sono riportate a un livello superiore.  L'atto non tende a nessuna affermazione o perpetuazione di ciascun "io" coniugale isolatamente considerato, bensì precisamente alla perpetuazione di qualcosa di comune ad ambedue, e del tutto intima a loro: l'amore che li unisce e vincola.  L'unione dei loro due "io" in "una carne", per mezzo dell'atto coniugale, tende a incarnarsi in un "io" nuovo, specchio ed espressione del loro amore maritale.  Che cosa c'è più singolare, come mezzo di auto-realizzazione, che la generazione del proprio figlio - un'altra persona, in tutta la sua irripetibilità - frutto del dono di sé che ciascuno sposo da all'altro?

            Così, la coscienza del carattere procreativo della copula coniugale e il rispetto per l'integrità di questa sua natura, fanno sì che contribuisca così singolarmente al «bonum» di ciascuno sposo, maturando e "realizzando" ognuno di loro, e vincolandosi fra loro.  Inoltre, il figlio è una maglia visibile e incarnata che rafforza il vincolo coniugale, la cui saldezza risulta essenziale per la loro "realizzazione" e il loro autentico "bene".

            La copula coniugale, quando viene compiuta "in modo umano" (cfr. c. 1061, § 1; GS 49), serve il «bonum coniugum» in modo eminente.  Questo carattere "umano" del rapporto sessuale coniugale esige prima di tutto una comprensione veramente umana del modo in cui l'atto sessuale unisce i coniugi, e poi un rispetto verso questa natura e funzione intrinseca dell'atto.  Al contrario, il «bonum coniugum» risulta minato dal rapporto sessuale anti-naturale, che contraddice tanto il significato specifico e la dignità della relazione coniugale, quanto l'identità sponsale distintiva di marito e moglie.

            Se si considera non la sola procreazione bensì anche l'educazione della prole, si capisce subito come il ruolo di educatori promuove per natura sua il bene dei coniugi.  L'educazione non può essere - non deve essere - attività di uno solo dei genitori.  Deve coinvolgere ambedue, in una cooperazione costante e armoniosa.  Questa cooperazione è infatti un'espressione del "consortium vitae", rappresentata da un comune impegno familiare.  Esige dai genitori una comunità di attuazione, di punti di vista, di criteri, di orientamento, nel processo continuo di educare - nella libertà e nella responsabilità personali - ognuno dei figli (rispettando sempre la personalità peculiare che Dio ha dato a ciascuno), e di mantenere un focolare unito.

            Com'è evidente, tale comunità familiare - tale unità nelle idee e nella pratica - non si raggiunge senza l'esercizio costante della volontà, da parte di ciascuno degli sposi, per subordinare gli interessi strettamente personali al bene della famiglia.  Ed ecco gli stessi coniugi sono coinvolti in un processo costante di maturazione personale.

            Altrettanto va detto degli sforzi - che non di rado esigono una generosità eroica - per far fronte alle necessità materiali od economiche della famiglia.

Un diritto al «bonum coniugum»?

            Esiste, come si suggerisce a volte [26], uno "ius ad bonum coniugum"?  Mi sembra che, alla stregua della critica appena fatta del supposto "ius ad prolem" o "ius ad procreationem", si imponga la risposta negativa.

            Non esiste nessun diritto alla prole - all'effettiva procreazione - benché esista un diritto al "bonum prolis": cioè un diritto di accedere al potere procreativo dell'altra parte per mezzo dell'atto coniugale.  Vi è una stretta connessione tra quell'elemento costitutivo del consenso - il dono della procreatività - dal quale derivano diritti/obblighi essenziali, e la conseguenza possibile ma non essenziale di questo dono: l'effettiva procreazione [27].  E' per questo che l'effettivo raggiungimento di quel fine del matrimonio che è la procreazione della prole, non va riguardato come l'oggetto di un essenziale diritto/obbligo; né il suo non-raggiungimento può essere giustificativo di una causa di nullità.  Va in effetti notato che la sterilità - cioè l'incapacità di procreare e conseguire così uno dei fini principali del consorzio coniugale - non invalida il matrimonio.  E' questa la ragione per cui non si può parlare propriamente di uno "ius ad prolem": di un diritto alla prole [28].

            In modo del tutto simile, dubito sia possibile parlare, con esattezza, di un diritto al «bonum coniugum» [29]; né vedo come si possa arrivare ad una individuazione rigorosamente giuridica dei diritti/obblighi autonomi che deriverebbero dal «bonum coniugum» (cfr. Sent. 26 novembre 1992 coram Burke, in una Armachana, nn. 14ss).

            Il matrimonio è infatti ordinato al "bene dei coniugi" e alla procreazione/educazione della prole (c. 1055, § 1).  Ma se, come osserva Raad nella già citata sentenza del 14 aprile 1975, un'incapacità a generare effettivamente non invalida il matrimonio, neppure lo può invalidare - così sembra - l'incapacità di conseguire il «bonum coniugum» [30].  Si acquista il diritto a ciò che l'altra parte deve dare, non a ciò che il matrimonio stesso può dare o meno; perché quest'ultimo dono dipende non soltanto dagli sposi, ma anche, in ultimo termine, da Dio.  Il piano divino per il bene dei coniugi talvolta comporta un'unione senza figli; e comporta perfino e non di rado una unione nella quale le differenze di carattere tra gli sposi possono distruggere il matrimonio a meno che non facciano ricorso alla preghiera e al sacrificio per imparare a capirsi e a convivere insieme.  L'analisi giuridica del «bonum coniugum» dipende dunque, necessariamente, dal modo in cui venga inteso il bene che, per disegno divino, il matrimonio deve conferire ai coniugi.

            Marito e moglie devono conferirsi vicendevolmente dei diritti essenziali che tendono al loro «bonum» come coniugi: diritti che in ultima analisi derivano dai tre "beni" agostiniani.  Ciascuno ha infatti un'obbligazione - morale - di sforzarsi per raggiungere il "bonum coniugum".  Ma, sul piano che qui interessa, nessuno dei due può rivendicarlo come un diritto giuridico, dovutogli dall'altro: per la ragione principale, che il raggiungimento pieno di questo «bonum» oltrepassa la volontà dell'altro e dipende soprattutto dalla volontà e dal disegno di Dio.

            Abbiamo ricordato l'insegnamento di Pio XII secondo il quale, nonostante l'importanza del fine procreativo del matrimonio, l'effettiva procreazione dei figli può essere evitata, perfino per tutto l'arco della vita matrimoniale.  Sotto l'aspetto morale, devono esistere dei motivi seri per rendere lecita tale decisione (cfr. Humanae Vitae, n. 16), e sotto l'aspetto di giustizia occorre che sia presa di mutuo accordo fra gli sposi.  Se la decisione di evitare completamente la prole fosse unilaterale (e pre-nuziale), il matrimonio sarebbe certamente invalido, comportando con sé un consenso simulato.  Come accade sempre nel caso di simulazione unilaterale, non soltanto risulta il consenso giuridicamente insufficiente per costituire il matrimonio, ma il diritto dell'altra parte è stato gravemente violato dal dolo.

            Una positiva esclusione unilaterale del "bonum coniugum" sarebbe senz'altro invalidante; ma nella pratica sembrerebbe coincidere con l'esclusione di uno dei «bona» matrimoniali, o di tutti i tre [31].  E' plausibile che la trattazione di altre violazioni ipotizzabile del "bonum coniugum" rientrino, con maggior rigore concettuale, sotto il capo del dolo (c. 1098).

            Il diritto fondamentale che i coniugi possiedono è il diritto alla "traditio coniugalis suiipsius", fatta senza riserva per quanto riguarda i tre aspetti essenziali: esclusività, permanenza, ed aper­tura alla vita.  E' proprio questa donazione coniugale - fatta ed accettata in ciò che implica - che tende verso il «bonum» dei coniugi.

            La conclusione, cui siamo pervenuti, aiuta a chiarire, in qualche maniera, la questione del «bonum coniugum» in certe situazioni matrimoniali particolari, cui facciamo un breve accenno qui, perché esterne allo stretto campo giuridico, trattandosi invece di situazioni morali o pastorali.  Pensiamo, per esempio, a quelle situazioni in cui l'amore non risulta più agevole - anzi, quando sembra che sia cessato o "morto" - e gli sposi sono tentati ad abbandonare lo sforzo di portare avanti la loro vita coniugale.  In siffatta situazione, il «bonum coniugum» è veramente promosso dallo sforzo di ciascuno di capirsi mutuamente e di mantenere la vita insieme, respingendo la tentazione di imboccare l'"uscita facile".  E' proprio quella uscita facile che può frustrare il «bonum coniugum», cioè la loro maturazione come persone.  È invece la scelta più difficile a favorire la maturità.  Le parole di Paolo VI, "da spontaneo sentimento l'amore diventa impegnativo dovere" ci danno la chiave per comprendere in quale modo il «bonum coniugum» va intensamente realizzato, quando i coniugi rispondono alle esigenze di tali situazioni.  Ciascuno dei due deve passare dalla facilità di un'amore spontaneamente sentito alla maturità di una dedizione pienamente voluta; e se sono capaci di progredire in questo senso, il «bonum coniugum» si sviluppa con grande efficacia.

            Il matrimonio rappresenta una scelta ed un impegno.  La scelta matrimoniale non deve essere egoista ma generosa.  Afferma a proposito il Commentario al Codice della "Canon Law Society of America" che «la donazione generosa nel contesto della comunione coniugale promuove il bene naturale e spirituale dei coniugi» (cfr. The Code of Canon Law: A Text and Commentary, 1985, p. 740).  Come disse Giovanni Paolo II alla Rota Romana nell'anno 1987: "la realizzazione del significato dell'unione coniugale, mediante il dono reciproco degli sposi, diventa possibile solo attraverso un continuo sforzo, che include anche rinuncia e sacrificio" (AAS vol. 79 (1987) 1456).

            Dio ha voluto che la fedeltà e l'indissolubilità siano proprietà essenziali del matrimonio.  Ci vuole sacrificio per darsi fedelmente a un coniuge; ce ne vuole per darsi lungo tutta la vita e per procreare ed educare i figli.  Allora, questi sacrifici, nel loro insieme, costituiscono una componente importante del disegno di Dio per il «bonum coniugum», per il perfezionamento dei coniugi attraverso il matrimonio.

            In breve, gli sposi che hanno raggiunto una maturazione coniugale passando attraverso difficoltà ed ostacoli, ed imparando a vivere insieme, sono fedeli al loro «bonum» come Dio lo ha voluto.

            Ma cosa può dirsi del matrimonio naufragato, in cui uno dei coniugi, venendo meno alla donazione coniugale promessa, abbandona l'altro?  Quale riferimento possiamo fare fra il «bonum coniugum» e le situazioni di matrimonio fallito?  Occorre semplicemente affermare che perfino lo stesso «bonum coniugum» risulta qui, come sembra, totalmente frustrato?

            Per il coniuge che si sottrae all'impegno coniugale, sembra di potersi affermare a prima vista che il matrimonio non può più operare per il suo bene.  Può tuttavia operare potentemente per il bene dell'altro sposo, se questi rimane fedele al vincolo nuziale.  Inoltre, se mantiene questa fedeltà, può operare - nella provvidenza di Dio - come un appello al pentimento, come un'áncora di salvezza per lo sposo infedele, perfino nel suo ultimo momento qui sulla terra: quando il «bonum» di ciascuno sta per essere deciso definitivamente.

            Il fatto che la potenzialità positiva di tale situazione si possa comprendere soltanto alla luce della sfida cristiana della Croce, non toglie rigore all'analisi.  Che siffatta potenzialità positiva non sempre si realizzi nella pratica, ciò riflette soltanto il rischio e il mistero della libertà umana.

            Il «bonum coniugum» è soprattutto il risultato al quale tende il matrimonio quando si vive secondo le proprietà essenziali che caratterizzano il vincolo per cui gli sposi liberamente si uniscono: la permanenza, la esclusività, la procreatività [32].

            Brevi considerazioni, da ultimo, sul tema dell'esclusione del «bonum coniugum», un tema che richiederebbe invece un non facile approfondimento.  È evidente che il «bonum coniugum» viene frustrato da chi escluda l'indissolu­bilità o la fedeltà o la prole; in quella fattispecie il matrimonio è però nullo a causa dell'esclusione di uno dei «bona» tradizionali, più che non dall'esclusione del «bonum coniugum»; l'esclusione del fine (il «bonum coniugum») rimane infatti assorbita, qui, dall'esclusione della proprietà essenziale.

            Si può sostenere che il «bonum coniugum» è escluso dalla persona che nasconde alla comparte qualche circostanza personale (una grave malattia, per esempio) che minerà necessariamente la loro relazione coniugale.  Ma eccoci di nuovo davanti a un caso che, a stretto rigore di diritto, dovrebbe essere trattato sotto un altro capo: il dolo (c. 1098).  Pari­menti, se esaminiamo l'incapacità di accettare le esigenze del «bonum coniugum», questa sembra coincidere con l'incapacità di assumere i diritti/obblighi essenziali del matrimonio (c. 1095, 3°).

            A causa, probabilmente, della stessa natura del fenomeno, risultano infrequenti i casi in cui il consenso matrimoniale sia invalido per esclusione del «bonum coniugum», assunto come capo autonomo di nullità.  Sembra comunque evidente che il «bonum coniugum» sia escluso dalla persona che si sposa con l'intenzione di pervertire la comparte: proponendosi, as. es., di renderla apostata dalla fede, di farls intraprendere una vita immorale, ecc.  Certamente, si dovrebbe sentenziare la nullità per esclusione del bene dei coniugi quando una parte si proponga di privare l'altra di aspetti della fondamentale dignità umana: della sua libertà fisica o morale, ecc.  E, senza necessità di ricorrere a delle ipotesi così inverosimili come il famoso "caso Jemolo", si potrebbero senza dubbio addurre altri casi [33].

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            Al termine il nostro studio, possiamo dunque affermare che il personalismo matrimoniale, introdotto dal pensiero conciliare nel diritto canonico, denota un chiaro progresso - non una rottura - con riferimento al passato.  Se il can. 1057, § 2 è innegabilmente differente - nella forma - dal canone corrispondente del Codice del '17, lo è molto meno nella sostanza.  Il nostro studio suggerisce infatti che, mentre la comprensione del matrimonio come autodonazione sessuale personale - permanente ed esclusiva - risulta facilitata di molto dalla nuova formula, l'essenza di ciò che è coinvolto nel consenso matrimoniale (il suo oggetto) rimane - come era da attendersi - inalterato.  Ne sono evidenti conferme le difficoltà non risolte per configurare altri diritti essenziali, derivanti dal consenso, distinti da quelli che emanano dai tre "beni" agostiniani.  Invece la considerazione della nuova formula ci ha portato ad una approfondita comprensione degli aspetti personalistici di questi "beni".

 

NOTE

[1] cfr. c. Bejan, 9 novembre 1961: R.R.Dec., vol. 53, p. 496; c. De Jorio, 18 dicembre 1963: vol. 55, p. 911; 19 febbraio 1966: vol. 58, p. 97; c. Pinto, 12 novembre 1973, vol. 65, 726-727; c. Stankie­wicz, 29 luglio 1980, vol. 72, p. 562, ecc.

[2] "Le contrat matrimonial ne donne pas ce droit [à «l'enfant»], parce qu'il a pour objet non pas «l'enfant», mais les «actes naturels» qui sont capables d'engendrer une nouvelle vie et destinés à cela": Pius XII, Allocuzione, 19 maggio 1956 (AAS 1956, p. 471).  "Il figlio non è un qualche cosa di dovuto e non può essere considerato come oggetto di proprietà: è piuttosto un dono, «il più grande» e il più gratuito del matrimonio": Istruzione su il Rispetto della Vita Umana, Congregazione per la Dottrina della Fede, 1987, n. II, B. 8.  cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2378.

[3] "animadvertendum est fines matrimonii vel contrahentis, elementa essentialia obiecti consensus non constituere, aliter ac quidam auctores et iudices putant.  Qui, contendunt, est incapax finis, est incapax matrimonium ineundi et consensum validum eliciendi.  Satis est ad hanc theoriam confundendam commemorare can. 1068 § 2: «Sterilitas matrimonium nec dirimit nec impedit».  Quod de fine principali matrimonii dicitur, a fortiori de aliis finibus dici potest": R.R.Dec., vol. 67, p. 243.

[4] "videtur matrimonii vel contrahentis fines non constituere elementa essentialia consensus": 11 aprile 1988: R.R.Dec., vol. 80, p. 200.

[5] "Da quella prestazione positiva obbligatoria ["la funzione di provedere alla conservazione del genere umano"] possono esimere, anche per lungo tempo, anzi per l'intera durata del matrimonio, seri motivi": AAS 43 (1951) 2, 846.

[6] "Si è sempre affermato nella dottrina canonistica che l'elemento della educazione della prole, alla quale il matrimonio è pure ordinato, non può essere assunto come essenziale nella categoria di diritti e obblighi essenziali.  In verità, anche nel nuovo codice, tale dovere è collocato tra gli effetti del matrimonio (cap. VIII, can. 1136), e non tra le obbligazioni la cui esistenza è enunciata ma non individuata né specificata nel can. 1095 e nel can. 1101, 2" (G. Barberini: "Sull'applicabilità del can. 1095 al tossicodipendente" Il Diritto Ecclesiastico 96 (1985), p. 164).

[7] cfr. il mio saggio: "Il «Bonum Coniugum» e il «Bonum Prolis»: fini o proprietà del matrimonio?" Apollinaris LXII (1990), pp. 560-566.

[8] Benché Javier Hervada sostenga il contrario, trova una certa difficoltà per assegnare categoria giuridica agli obblighi derivanti dal «bonum coniugum», così come lui lo comprende: "Obligaciones esenciales del matrimonio", in Incapacidad Consensual para las Obligaciones Matrimoniales, Eunsa, 1991, pp. 31-39.

[9] si veda, per esempio, c. Pinto, del 9 novembre, 1984; c. Giannecchini, del 26 giugno, 1984; c. Stankiewicz, del 28 gennaio, 1985; c. Pompedda, del 29 gennaio, 1985 e del 11 aprile, 1988; c. Huot del 2 ottobre, 1986; c. Bruno del 23 febbr. 1990; c. Colagiovanni del 23 aprile 1991.

[10] cfr. la Sentenza coram Pinto, del 27 maggio, 1983, (Monitor Ecclesiasticus, 1985, pp. 329-330). cfr. anche: Lawrence G. Wrenn, "Refining the Essence of Marriage", The Jurist, 46 (1986) 2, p. 536.

[11] "in suis principiis" (Suppl., q. 49, art. 3); cioè la procreatività.

[12] "Il bonum coniugum", afferma F. Bersini, "non ha nulla che vedere con i beni agostiniani": Il Nuovo Diritto Canonico Matri­moniale, Torino, 1985, p. 10.

[13] cfr. sent c. Burke, 26 novembre 1992 Ephemerides Iuris Canonici, XLIX 1993 (1-3), pp. 303-312.

[14] "matrimonium immediate ordinatur ad finem personalem dictum secun­darium, nempe ad bonum coniugis...  Iura-officia quae bonum coniugis constituunt in C.I.C. vocantur «mutuum adiu­torium et remedium concupiscentiae», in Schemate autem iuris matrimonialis novi Codicis, «ius ad vitae commu­nionem», comple­ctens iura quae attinent ad essentiales relationes interper­sonales coniugum": R.R.Dec., vol. 71, p. 588.

[15] "bonum coniugum - de quo uno agit Codex, nulla amplius facta mentione de iure ad vitae communionem - intelligatur et efficiatur per ius (et relativam obligationem) ad vitae communionem: istam quidem intellectam in sua latiore significatione, idealiter inspiratam ad amorem coniugalem super quo diu institit Concilium Vaticanum II, et iuridice expressam per iura-obligationes ad peculiarem seu specificam agendi rationem, ex ipsa connubii natura essentialiter requisitam et sufficientem, in relationibus interpersonalibus coniugibus propriis et iuridice momentum habentibus": vol. 80, p. 202.

[16] illa incapacitas respicit bonum coniugum, seu impossibilitatem constituendi illam communitatem vitae et amoris de qua loquitur Gaudium et Spes": c. Colagiovanni, 23 aprile 1991, Romana, n. 10.

[17] "bonum coniugis, in mutua essentiali integratione psycho-sexuali consistens...": 12 febbraio 1982: R.R.Dec., vol. 74, p. 67.

[18] "intima personarum atque operum coniunctio qua illam psychosexualem complementarie­tatem coniuges inveniunt sine qua matrimoniale vitae consortium subsistere nequit" []20 febbraio 1987: Ius Ecclesiae, 1-2 (1989), p. 573.

[19] "suum complementum psychologicum psychosexuale specificum veri coniugis": 27 maggio 1983: Monitor Ecclesiasticus 110 (1985-III), p. 329.

[20] "...bonum coniugum, quod est elementum essentiale matrimonii, implicans capacitatem nectendi cum futuro coniuge relationem interpersonalem saltem tolerabilem": c. Bruno: Sent. 23 febb. 1990, n. 3: R.R.Dec., vol. 82, p. 140.

[21] cfr. David E. Fellhauser: "The consortium omnis vitae as a Juridical Element of Marriage", Studia Canonica 13 (1979), pp. 50-54.  "Il remedium concupiscentiae e il mutuum adiutorium sono ora compresi nel bonum coniugum": F. Bersini, op. cit., p. 18.

[22] cfr. C. Burke: "Il matrimonio: comprensione personalistica o istituzionale?": Annales Theologici, 1992-2, pp. 244-246.

[23] Sembra troppo riduttivo definire, come fa Mons. Pinto nella Sentenza già citata del 20 febbr. 1987, il bene dei coniugi in termini soltanto di una mutua complementarità, e non in funzione del vero e più profondo oggetto della esistenza umana.

[24] "Patet igitur quod bonum coniugum non tantum in vitae coniugalis consolationibus attingitur, sed et praesertim per exigentias eius.  Hoc etiam manifeste ostendit rationem sub qua bonum coniugum (matrimonii finis) naturali modo cum bonis augustinianis (matrimonii proprietatibus) colligatur.  Immo, uti videtur, licet affirmare quod acceptatio bonorum traditionalium, una cum obsequio erga obligationes quas gignunt, magis quam alius quicumque matrimonii aspectus, creat condiciones bono coniugum faventes.  Possumus ergo exinde concludere quod bona augustiniana, quae matrimonium modo fundamentali insigniunt, basicam quoque structuram praebent super quam bonum coniugum aedificari potest": Sent. 26 novembre 1992 coram Burke, in una Armachana, n. 13.

[25] "hoc vinculum sacrum intuitu boni, tum coniugum et prolis tum societatis, non ex humano arbitrio pendet"... Gaudium et Spes, n. 48. "Quot vero quantaque ex matrimonii indissolubi­litate fluant bona, eum fugere non potest qui vel obiter cogitet sive de coniugum prolisque bono sive de humanae societatis salute" Casti connubii (AAS 22 (1930) 553).

[26] cfr. A.M. Abate: "Il Consenso Matrimoniale": Apollinaris, 59 (1986), pp. 475-476.

[27] occorre distinguere "inter consecutionem finis et ordinationem ad finem: consecutio finis est contractui extrinseca; ordinatio ad finem... est contractui intrinseca et essentialis" D. Staffa, De conditione contra matrimonii substantiam, ed. 2, n. 9, nota 37.

[28] Esiste dunque uno "ius ad procreativitatem" - a ciò che l'altra parte può dare - perché la disponibilità per procreare cade sotto il dominio della volontà dell'altro.  Non esiste però uno "ius ad prolem", perché l'effettiva procreazione non cade sotto il dominio della sua volontà; rimane sempre un dono di Dio.

[29] È sempre possibile parlare di un'"ordinatio ad procreationem" o di un'"ordinatio ad bonum coniugum", come elementi essenziali del matrimonio; non risulta chiaro però che queste ordinazioni diano luogo a qualsiasi diritto nuovo ed autonomo - essenziale alla costituzione del matrimonio - indipendente da quelli derivanti dai tre «bona» tradizionali.

[30] Il «bonum coniugum» sembra meglio inquadrarsi come effetto del matrimonio, che come obbligo essenziale; concretamente come effetto dell'osservanza degli obblighi essenziali compresi nei tre «bona» agostiniani.

[31] "Potius quam loqui de iure ad bonum coniugum, licet considerare hunc finem (eodem modo ac consideratur finis procreativus) uti fons iurium obligationumve.  Utcumque, videtur quod mensura iuridica eorum quae ad huiusmodi iura/officia essentialiter pertinent, in solis tribus bonis augustinianis est reponenda.  Iuridice loquendo, bonum coniugum nulla alia iura/officia essentialia parit.  Dum ergo patet quod exclusio boni coniugum (non aliter ac exclusio prolis) nuptias invalidat, non tamen patet talem exclusionem aliquid substantiale comprehendere posse, quod in tribus bonis augustinianis non sit iam praesens.  Propterea, petitio qua nullitatis declaratio "ob boni coniugum exclusionem" quaeritur, ad consueta capita simulationis - totalis quidem partialisve - magis proprie reconducenda esset": Sentenza del 26 novembre 1992, coram Burke, in una Armachana, n. 15.  Per altre considerazioni, cfr. Rinaldo Bertolino: op. cit. pp. 126-127.

[32] Dunque, mentre non c'è un diritto al "bonum coniugum", esiste invece il diritto a un consenso matrimoniale che accetta i tre «bona» agostiniani: quelle proprietà essenziali del matrimonio, dalle quali dipende principalmente la realizzazione del bene dei coniugi.

[33] cfr. C. Burke: "Il «Bonum Coniugum» e il «Bonum Prolis»: fini o proprietà del matrimonio?", Apollinaris, LXII (1990), p. 564.