05. La donazione della sessualità coniugale

            Come abbiamo più volte ripetuto, non è possibile prendere alla lettera l'idea di un "sese tradere", o di una "traditio suiipsius", che il can. 1057 presenta come oggetto dell'atto di consentire al matrimonio [1].  Si è inoltre osservato che, allo stesso modo in cui, nella vigenza del Codice anteriore, non si parlava di effettuare una "traditio corporis" ma di concedere uno "ius in corpus", così non si tratta adesso di donare la propria persona - fare una "traditio personae" - ma di dare un "ius in personam"; un diritto, cioè, su qualche aspetto della persona che gli sia così proprio e peculiare che ben possa rappresentare il "donum suiipsius".

            Siamo giunti pertanto alla conclusione che l'autodonazione specifica, che è l'oggetto del consenso matrimoniale, consiste nel dono mutuo della propria sessualità coniugale [2]; e che questo dono: (i) perché sia sessuale (cioè, affinché attui la sessualità partecipata e complementare), deve essere aperta alla procreatività; e (ii) perché sia coniugale, deve essere permanente ed esclusivo.

            In una formula più sintetica, la "traditio coniugalis" è la donazione della sessualità, nel suo concreto aspetto procreativo, fatta in modo permanente ed esclusivo.  La nostra analisi, pertanto, in un'applicazione del personalismo del Concilio Vaticano II e di Giovanni Paolo II, segnala una chiara consonanza con la tradizione.  L'essenza della coniugalità va definita dai "bona" agostiniani; e logicamente queste tre caratteristiche o proprietà essenziali del matrimonio specificano tanto l'oggetto del consenso [3], quanto i diritti/doveri essenziali ai quali esso da luogo.

            Stabilito così l'oggetto del consenso matrimoniale, il diritto al quale da luogo si potrebbe definire come uno "ius perpetuum et exclusivum in sexualitatem coniugalem procreativam".  In quanto a questa formulazione - certamente provvisoria - si può affermare che gli aggettivi "perpetuo", esclusivo" e "procreativo" sono in un certo senso ridondanti, essendo necessariamente intesi in qualsiasi vera relazione sessuale coniugale; perché, come risulta dall'analisi già fatta, specificano semplicemente gli elementi essenziali della coniugalità.  Comunque, di fronte alle moderne comprensioni riduttive della relazione maritale, sembra importante specificare ogni elemento.  In modo particolare, interessa sottolineare l'aspetto di procreatività o apertura-alla-vita (che devono accettare perfino le coppie che siano probabilmente o certamente sterili), considerata la tendenza contemporanea a proporre un tipo di "coniugalità contraccettiva".

            In comparazione con lo "ius in corpus", questa formulazione risulta più concreta in ciò che è essenziale alla coniugalità.  Collega il diritto scambiato, al potere procreativo complementare dell'altra parte; e non permette che venga limitato a un mero atto corporale, che potrebbe essere accompagnato da una intenzione contraccettiva permanente [4].

             È importante a questo punto proporsi la questione se la sessualità coniugale si restringa a questi tre soli elementi - procreatività, perpetuità, esclusività - , o se non si estenda, come invece sembra palese, anche a degli altri aspetti della complementarità sessuale tra gli sposi, giacché la natura complementare della sessualità coniugale va ovviamente al di là dalla mera procreatività, benché sia in una relazione esclusiva e permanente.

            Non esiste affatto difficoltà ad ammettere che la sessualità coniugale comprende altri elementi; appare invece grande la difficoltà per far entrare questi elementi nella sostanza dell'oggetto del consenso, dentro cioè il quadro giuridico che specifica i diritti ed obblighi essenziali per lo scambio di un consenso matrimoniale valido.

            P.A. Bonnet afferma che la sessualità "coinvolge integral­mente soltanto quei valori che, in quanto capaci di un reciproco completamento, s'inquadrano nella dimensione unitaria alla quale partecipano uomo e donna, e perciò stesso sono anche gli unici che possono costituire l'oggetto di una vera e propria donazione tra loro" [5].  Comunque, giacchè sono varie le maniere nelle quali l'uomo e la donna si complementano, occorre determinare gli aspetti del "reciproco completamento" che siano giuridicamente esigibili.  Il problema appunto è tutto qui: quali aspetti della complementarità sessuale tra uomo e donna entrino necessaria­mente ed essenzialmente - in maniera costituzionale - nella donazione che si fa nell'esprimere il consenso matrimoniale, in maniera tale che il consenso conferisca uno stretto diritto a ricevere quegli aspetti concreti, risultando invece invalido se ne neghi il diritto ad alcuno o se non si possega la capacità di donarlo.

            Vi sono infatti molte maniere in cui l'uomo e la donna si completano vicendevolmente.  Risulta abbastanza facile vedere reciprocità tra certe qualità tipicamente mascoline, come sarebbero la forza fisica, il valore o l'iniziativa, e delle qualità caratteristica­mente femminili come la tenerezza, la sensibilità, la pazienza...

            Possiede una moglie un diritto - uno stretto diritto coniugale - a trovare forza e valore in suo marito?  E, in caso affermativo, quanta forza, quanto valore?  Se lui di fatto è un codardo, o se si è sposato con la ferma decisione di essere un pigrone o un scroccone, sarebbe questa una ragione per dichiarare il consenso invalido?  Quale grado di tenerezza o di intuizione il marito ha il diritto di trovare nella moglie?  E se lei emette il suo consenso matrimoniale con la riserva: "Sono decisa a essere con lui così impaziente e così spadroneggiante come sono stata tutta la vita con miei fratelli", per questo sarà invalido il consenso?

            Considerate le cose da un punto di vista giuridicamente serio, deve essere evidente che non esiste il modo o la possibilità di misurare o quantificare tali valori o qualità, al fine di determinare - in base a loro - sia la validità sia l'invalidità del consenso matrimoniale.  L'ideale, senza dubbio, è che questi valori siano presenti in ogni matrimonio; e se il loro difetto deriva da una scelta deliberata della volontà, sembra innegabile che questo denota un difetto d'amore (e possibilmente si inquadrerebbe sotto il capo di "dolus" del c. 1098).  E questo certamente ci può suggerire il contesto più esatto in cui occorre inquadrare il tema.  Sebbene poche persone proporrebbero seriamente un coniugale "ius ad fortitudinem" o uno "ius ad patientiam", ecc., siffatti diritti sono in qualche modo implicitamente presenti all'interno di uno "ius ad amorem" che alcuni canonisti propongono invece, di fatto, come elemento essenzialmente coinvolto nel consenso matrimoniale.

"Ius ad amorem"? - No

            Un considerevole sforzo per dare rilevanza giuridica all'amore ha caratterizzato la posizione di parecchi scrittori degli anni immediatamente postconciliari.  L'argomento invocato sembrava semplice e, perfino, persuasivo: chi non dona il suo amore nel matrimonio, non si dà in un aspetto essenziale della sua persona, e pertanto non effettua una vera "traditio suiipsius coniugalis".

            Mi sembra che il dibattito sorto a riguardo non è stato sempre portato avanti seguendo le regole del buon dibattito, soprattutto relativamente all'impegno di definire adeguatamente i termini e lo scopo della discussione.  Vi sono stati dei costanti appelli all'"intima communitas vitae et amoris coniugalis" (GS, 48), senza però un serio sforzo per stabilire se si possa, senza ulteriore qualificazione, applicare questa bella espressione all'ambito giuridico; e, in modo particolare, senza perseguire fino in fondo l'obiettivo centrale: quale amore si vorebbe fare entrare nel campo giuridico, ossia, se debba farsi riferimento all'amore inteso nel senso più ampio, cioè anche nella sua dimensione affettiva-psicologica, o invece l'amore contenuto nella esclusiva dimensione della volontà.

            Durante il decennio degli anni 1970, alcuni suggerimenti sembrarono infatti arrivare al punto di far dipendere la stessa validità del vincolo matrimoniale all'amore, pure (e forse sopratutto) nel senso psicologico-sentimentale.  Taluni autori sostenevano che l'assenza di tale amore fin dall'inizio era equivalente alla mancanza di un elemento giuridico essenziale; e si era perfino giunti a suggerire che, cessato l'amore (benché fosse presente all'inizio), sarebbe dovuto cessare il matrimonio, nella sua entità giuridica stessa.

            Tuttavia, malgrado il fatto di suscitare un certo interesse e perfino vivi dibattiti all'inizio, i suggerimenti non hanno avuto seguito nel lavoro preparatorio del nuovo Codice.  Benchè l'amore, inteso come sentimento o impulso affettivo, accompagni normalmente la decisione di sposarsi (essendone in gran parte il motivo), esso non entra necessariamente nel matrimonio, e soprattutto non condiziona la sua validità.  Affinché un matrimonio sia valido, è necessario che ogni parte accetti l'altra come vero coniuge.  Nel senso più vero, questa accettazione volontaria è un atto d'amore [6].  Il che è ovvio; ma non equivale punto a dire che il motivo di una o di ambedue le parti deve assolutamente essere l'amore sensibile o sentimentale.  Una persona può prestare un consenso valido al matrimonio, benché non abbia sentimenti di amore verso l'altra parte.  Se così non fosse, si dovrebbe dichiarare l'invalidità di tutti i matrimonii di convenienza del passato o del presente (non pochi dei quali sono riusciti bene).  E neanche si potrebbe permettere una scelta matrimoniale valida alla donna che vorrebbe sposare il padre del figlio già concepito, per legittimarlo o per dare a lui una famiglia, nel caso che non nutra (o non nutra più) sentimenti di amore verso l'uomo.

            Non c'è dubbio che la maggior parte delle persone si sposano nell'aspettativa di trovare l'amore, pure sensibile, nel matrimonio, o la felicità o almeno un modo o stile di vita personale migliore.  Ma nutrire una legittima speranza o aspettativa di trovare qualcosa, non è affatto equivalente a essere detentori di un diritto in senso stretto a trovarla.

            In un Discorso alla Rota Romana, del 9 febbraio 1976, Paolo VI ha trattato autorevolmente questo tema.  Ha riconfermato l'importanza "altissima e insostituibile" dell'amore coniugale nel matrimonio, ma si è soffermato sul fatto che il matrimonio, in quanto realtà giuridica creata dal consenso, "sussiste indipendentemente dall'amore, e permane anche se viene a spegnersi l'amore.  Gli sposi, infatti, dando il loro libero consenso non fanno che entrare e inserirsi in un ordine oggettivo, in una "istitu­zione" che li supera e che non dipende da essi, né nel suo essere, né nelle sue leggi.  Il matrimonio non è creato dalla libera volontà degli uomini, ma è stato istituito da Dio, il quale lo ha dotato di leggi proprie, che gli sposi sono ben felici, di solito, di riconoscere ed esaltare e che comunque essi devono accettare per il loro proprio bene, e per il bene dei figli e della società.  Da spontaneo sentimento l'amore diventa impegnativo dovere" (AAS vol. 68 (1976) p. 207).

            Urbano Navarrete, in un saggio pubblicato su "Periodica" dell'anno 1968, giunge alla conclusione che l'amore coniugale, preso nell'ovvio senso affettivo, non è un elemento essenziale per la validità del matrimonio: "Amor coniugalis non habet momentum ullum iuridicum in ordine ad validitatem matrimonii" ("Structura iuridica matrimonii secundum Concilium Vaticanum II", Periodica 57 (1968) 215).  In un articolo dell'anno 1976 nella stessa rivista, insiste sul principio ormai stabilito da Paolo VI che non si può far entrare l'amore nella provincia giuridica, e conclude: l'amore "remanet elementum aiuridicum vel metaiuridicum" ("Amor coniugalis et consensus matrimonialis", Periodica 65 (1976) 632).

            Pertanto si può sostenere che lo "ius ad amorem [sensibilem]" non risulta essere un principio "di lavoro" per la giurisprudenza.  "Non sembra che si possa invocare un "diritto all'amore", bensì piuttosto un diritto a  certi atti che di solito sono inspirati dall'amore" [7].  L'amore affettivo o romantico fugge ad ogni tentativo di definirlo o analizzarlo giuridicamente, proprio per la difficoltà già riferita: l'impossibilità nella pratica di qualificarlo o quantificarlo.  Come si potrebbe infatti calcolare quanto amore - o che qualità di amore: quale autenticità nell'amore  - si ha il diritto di ricevere nel matrimonio?  In effetti, che cosa si richiede per la costituzione e l'esistenza dell'amore coniugale autentico?  E' così che va provata una mancanza di autenticità nelle promesse di amore coniugale - fino al punto di renderle giuridicamente invalide - se una parte non conferisce all'altra un diritto costitutivo e inviolabile alla pazienza, alla temperanza, alla gentilezza, al garbo, alla comprensione, all'identità di vedute, alla somiglianza di caratteri, ecc. (cfr. Sentenza coram Burke, del 22 luglio 1993, nn. 15ss: Monitor Ecclesiasticus CXIX (1994-IV), pp. 515-517)?

            La difficoltà nello stabilire una misura giuridica per uno "ius ad amorem" - un diritto a ricevere l'amore - emerge più chiaramente quando si affronta una questione parallela ma necessariamente connessa: quanto amore - o che qualità d'amore - si ha l'obbligo di dare nel matrimonio?  Infatti qualsiasi "ius ad amorem" potrebbe essere valutato soltanto alla luce di una reciproca "obligatio amandi".  Per alcune persone, l'amore e il dovere costituiscono realtà necessariamente opposte.  Ma si tratta di una comprensione individualista e falsa.  Può esistere un dovere di amare, tale precisamente come va accettato nel matrimonio.  L'amore dovuto è da annoverarsi fra gli obblighi del matrimonio [8].  Ma ciò che si deve è l'amore coniugale effettivo, non necessariamente quello affettivo.

            Questo obbligo coniugale di amare acquista delle connotazioni speciali di giustizia.  Include anche l'obbligo di accettare l'altra persona benché non sembri più amabile, benché non ci si ami più [9].

            Il consenso matrimoniale non crea un diritto all'amore sensibile o emotivo, nemmeno un diritto ad altre desiderabili qualità spirituali, più o meno connesse con l'amore [10].  Nessuno infatti può concedere un diritto a quello che non cade sotto il dominio della sua volontà [11]; e non cade necessariamente sotto la volontà di ciascuno sposo riuscire far sì che l'altro si senta amato.  Non si può dare un diritto all'amore sensibile; si può invece conferire un diritto alla coniugalità, perché la coniugalità cade sotto il controllo della volontà.

Ius ad amorem: - Sì

            Carlo Caffarra, in un articolo dell'anno 1976, esamina la questione della misura in cui un difetto d'amore coniugale, nel momento di prestare il consenso, possa impedire che ne derivi un matrimonio valido.  E considera che un matrimonio valido non esisterà se il difetto d'amore è tale che le parti (o una di loro) escludono sia l'unità sia l'indissolubi­lità del vincolo, sia lo "ius ad actus per se aptos ad prolis generatio­nem" ("Charitas Coniugalis et Consensus Matrimonialis": Periodica 65 (1976), pp. 615-618).  Come si vede, colloca l'essenzialità giuridica dell'amore coniugale in ciò che va espresso nell'accettazione dei tre "beni" tradizionali.

            Sono d'accordo con Caffarra, e penso dunque che, in un certo senso, si può parlare di uno "ius ad amorem coniugalem" (ma non, ripetiamo, ad uno "ius ad amorem sensibilem vel affectivum").  Il conferimento del diritto alla coniugalità - diritto di essere oggetto di un'auto-donazione sessuale esclusiva e permanente - rivela effettivamente un apprezzamento singolare fatto da ciascuno sposo riguardo all'altro.  Dimostra - indipendentemente da ogni sentimento - una singolare determinazione della volontà di ciascuno riguardante l'altro; in questo senso è un atto di amore; e, in quanto voluntario, è proprio un atto di amore più riflessivo e più maturo [12].  Come afferma la Gaudium et Spes: L'amore coniugale è "atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà" (GS 49).

            Il consenso che costituisce il matrimonio è necessariamente mutuo; è una "unio duarum voluntatum in unum".  Sposandosi, i coniugi sempre dimostrano accordo ed unione di spirito ("unio animorum"), in una relazione assolutamente singolare.  Allora, gli elementi in ragione dei quali questa mutua accettazione coniugale diventa singolare sono precisamente la sua esclusività, la sua permanenza e il suo orientamento procreativo.  Decidere di stabilire una siffatta relazione coniugale con un altro, accettando l'essenza degli obblighi verso di lui che essa coinvolge, significa fare sì che questa persona diventi l'oggetto di una scelta - privilegiata ed impegnativa - di predilezione, in cui si possono trovare i minimi (ma, già in sé, notevolissimi) ed essenziali elementi dell'amore coniugale (cfr. M.F. Pompedda: "L'Amore Coniugale...", pp. 62-63).  Come leggiamo in una Sentenza coram Fagiolo del 30 ottobre 1970: "consortium [coniugale] supponit mutuam donationem maris et feminae.  Haec autem donatio fit per consensum qui sit verus, authenticus et absque fictione et in hoc est amor coniugalis" (R.R.Dec., vol. 62, p. 984).

            Inoltre, se amare, in parole di S. Tommaso, è desiderare il bene per una persona ["amare est velle alicui bonum": I-II, q. 26, art. 2], allora desiderare nei confronti di qualcuno questi tre straordinari "beni" del matrimonio risulta un'espressione di amore eccezionale verso quella determinata persona.  Sono perciò pienamente d'accordo con Caffarra quando pone in rilievo che soltanto se, nel momento del consenso, qualcuno di questi elementi essenziali viene escluso, si può parlare di una assenza invalidante d'amore coniugale.  E' la scelta (l'"e-lectio") che dimostra l'amore (la "di-lectio").

            Nell'anno 1977, come si ricorda, uno "ius ad vitae communionem" fu temporaneamente inserito nello schemo per l'eventuale can. 1101: con l'intenzione di esprimere o abbraciare "iura quae attinent ad essentiales relationes interpersonales coniugum, quaeque in hodierno contextu habentur ut complexus iurium distinctus ab aliis iuribus quae communiter in traditione numerabantur" (Communicationes, 1977, 375; 1983, 233-234).  Ma il preteso "ius" non ha largamente resistito lo scrutinio tecnico.  La sua definitiva eliminazione del bozzo del canone sembra un argomento di più contro la tesi che lo verebbe come un "elementum essentiale" del matrimonio a norma del can. 1101, § 2.

            A mio avviso è inutile invocare, o tornare ad invocare, questo "ius", se prima non si riesce a specificare il suo contenuto: di modo cioè sufficientemente concreto e chiaro per stabilire se costituisca o meno un "complexus iurium distinctus ab aliis iuribus quae communiter in traditione numerabantur"; e, nel suo caso, quali siano concretamente questi diritti e in che cosa si distinguono dai diritti "tradizionali" [13].

            In sintesi, possiamo distinguere tre tesi in merito alla rilevanza giuridica dell'amore riguardante la costituzione del matrimonio.  La prima, respinta da Paolo VI, propose uno "ius ad amorem" (ove l'amore si prende in senso affettivo) come componente giuridico essenziale del consenso.  La seconda sostiene semplicemente che l'amore non entra nel campo giuridico.  E' possibile suggerirne una terza, nella misura in cui l'auto-donazione rappresentata dal consenso matrimoniale, vada intesa come atto di volontà.  Su questa base, si può parlare di un diritto a quegli aspetti dell'auto-donazione coniugale - l'amore coniugale - che entrano essenzialmente e necessariamente nel consenso genuino.

            Purchè si parli dell'amore in questo senso concreto - di una auto-donazione volontaria - non ho nessuna difficoltà a ne proporre la rilevanza giuridica; tutto al contrario, innanzi.  Infatti si può con piena coerenza ritenere che l'amore effettivo, e non l'affettivo, deve necessariamente entrare a formare parte della costituzione giuridica del consenso matrimoniale.  Come scrive un insigne autore contemporaneo: "Eatenus amor in mtrio esnlis dicitur, quatenus est traditio-acceptatio duarum personarum, atque ideo non affectivus sed effectivus intelligi debet" [14].

            Tale amore effettivo abbraccia due aspetti principali:

            a) una scelta privilegiata dell'altra persona per la quale viene costituita coniuge.  Il contenuto essenziale di questa scelta - che la rende una scelta propriamente matrimoniale - viene specificato dai tre "beni".  Cioè, si stabilisce con l'altra persona, attraverso di uno mutuo scambio, una relazione interpersonale singolare, in quanto permanente, esclusiva e aperta-alla-procreazione;

            b) una sincera intenzione (che almeno accompagna, se non necessariamente inspira) questa scelta, di procurare il bene dell'altra persona (vedi S. Tommaso sopra).  Questa intenzione, a mio avviso, può rimanere sufficientemente espressa nella donazione dei diritti coinvolti nei tre "beni".  Comunque, risulta necessario insistere sulla sua reale presenza, come parte integrante della scelta coniugale amorosa.  Così, fra l'altro, si protegge la dignità dell'alleanza coniugale dalle possibilità (per quanto inverosimili possano apparire queste) di essere strumentalizzata per l'attuazione di odio verso l'altra parte e la sua famiglia: come nel famoso "caso Jemolo" [15].  Risulta oggi evidente che un tale caso indurrebbe la nullità del consenso, sia per l'esclusione di un elemento essenziale, sia - e questa soluzione sembre giuridicamente più solidamente basata - per dolo.

            Il principio basilare del personalismo cristiano così come viene enunciato per il Vaticano II - "l'uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé" (GS 24) - , sottolinea che in ogni relazione fra persone, e a fortiori nel matrimonio, le aspettative di ricevere o di essere amato dovrebbero essere subordinate alla norma veramente cristiana di dare e di amare.  Ciò ci fa ritornare su quanto detto sopra: che qualsiasi possibile "ius ad amorem" va valutato alla luce della concomitante "obligatio amandi".  Non sembra ammissibile basare il matrimonio e la relazione giuridica (con i correspondienti diritti/doveri) da esso provenienti su qualcosa tanto fugace e cambievole come è lo "stato di animo"; come sono i "sentimenti".

            Il dibattito in torno al "ius ad amorem" può considerarsi pertanto come qualcosa appartenente più propiamente agli anni '70.  Uno degli effetti del nuovo Codice è stato quello di orientare l'interesse e gli sforzi verso un'altra questione, che certo non manca di aver un certo fondo comune con quella anteriore: il tema dei diritti/obblighi essenziali con cui la capacità consensuale, a norma del c. 1095, va necessariamente riferita [16].  Deve essere evidente che siffatti diritti/doveri essenziali sono soltanto quelli la cui comprensione e assunzione sono costituzionalmente necessari per dare esistenza a qualsiasi vero vincolo.

            Essenzialmente coniugale è tutto ciò che si può e si deve dare al coniuge, e non si può - anzi, non si deve - dare ad un altro.  Nella Casti connubii, Pio XI manifestò l'essenza del bonum fidei in queste parole: "sicché quanto compete per questo contratto al solo coniuge, né a lui sia negato, né permesso ad una terza persona" [17].  La mera gentilezza o la pazienza o il rispetto, pertanto, non sono essenzialmente coniugali, poiché sono comportamenti che si possono e si dovreebero osservare verso tutti.  Vale a dire: soltanto quegli elementi che caratterizzano la coniugalità - e non quelli che caratterizzano meramente la semplice amicizia - entrano nell'essenza della relazione matrimoniale.

            Non esiste un essenziale e costitutivo diritto/dovere di amare, se non nel senso che abbiamo appena descritto.  Non esiste un essenziale diritto/obbligo alla "communio vitae", eccetto quando la "communio vitae" viene intesa nel significato del matrimonio stesso.  Infatti, como è ovvio, non esiste diritto essenziale alcuno a qualsiasi elemento che non rientri nell'essenza del matrimonio stesso.  Altrimenti, alla fine si potrebbe giungere a postulare un diritto essenziale a che il marito sia competente e responsabile come sostegno economico della famiglia, e allora una donna non potrebbe validamente sposare un uomo portatore di handicap; si potrebbe postulare ugualmente un obbligo essenziale a che la moglie sia casalinga a tempo pieno, e nelcaso le nozze delle donne impegnate in lavori professionali diventerebbero invalide.

            Il tema dei diritti/obblighi essenziali del matrimonio ha acquistato una straordinaria importanza.  Comunque, se questi diritti/obblighi non vanno specificati di maniera giuridica adequata, risulta impraticabile (per far cenno di un problema soltanto) lo studio e la applicazione giurisprudenziale stessa del tanto travagliato can. 1095.  E sembra palese che soltanto individuando di modo più preciso l'oggetto del consenso di cui in can. 1057, § 2, se può progredire ad una logica analisi dei diritti o degli obblighi che derivano dal «foedus» matrimoniale.  A nostro avviso, non si è finora riuscito ad individuare in termini giuridici altri obblighi o diritti - essenziali e costitutivi del matrimonio - che non siano quelli già compresi nei tre «bona» agostiniani.  Tuttavia, il tema è d'importanza sufficiente per meritare ancora un apposito capitolo.

 

NOTE

[1] Perciò non siamo d'accordo - dal punto di vista giuridico - con Carlo Caffarra quando, dopo aver affermato che "E' vero che ogni forma di amore comporta un dono di sé, in un modo o nell'altro", continua, "Ma nella comunità coniugale, il dono è letteralmente completo e definitivo.  Non solo qualcosa di sé, ma la persona nella sua intera realtà è donata, così che la persona appartiene totalmente all'altra e reciprocamente" (C. Caffarra: "La teologia del matrimonio con riferimento al CJC", in AA.VV. Teologia e Diritto Canonico, Lib. Ed. Vaticana, 1987, p. 155).  Il discorso di Caffarra qui non appare propiamente giuridico.

[2] "La mutua donazione e accettazione della propria sessualità affinché siano una sola carne e in ordine al principio generativo, che è effettuato dal consenso matrimoniale..." ("mutua donatione et acceptatione propriae sexualitatis in ordine ad constituendam unam carnem unumque principium generativum, quae consensu matrimoniali perficitur..."): c. Stankiewicz, 20 aprile 1989: R.R.Dec., vol. 81, p. 286.

[3] "Il consenso matrimoniale, che deve essere considerato secondo la tripartizione in bonum fidei o prolis e sacramentum" ("Matrimonialis consensus, qui in tripartitum bonum fidei, prolis et sacramenti ferri debet"): c. Quattrocolo, 17 gennaio 1940: R.R.Dec., vol. 32, p. 71).

[4] sotto il vecchio Codice, in effetti, alcuni autori (De Smet, Vermeesch-Creusen, Giacchi, etc.) arrivarono a difendere la tesi secondo la quale, purché il diritto alla copula nella sua integrità fosse concesso, il consenso non resterebbe viziato neanche se accompagnato da una intenzione di frustrare permanentemente gli effetti naturali dell'atto, prendendo la pillola "del giorno dopo", procurando l'aborto, ecc.  Orio Giacchi, per esempio, afferma: "Spesso si ritiene che possa essere presa in considerazione, come causa di nullità a questo titolo, la esclusione della prole quando si voglia fermamente e in perpetuo usare mezzi antife­conda­tivi, o procedimenti di eliminazione della gravidanza, ecc.  Tutto questo, invece, non ha alcun rilievo dal punto di vista giuridico.  Il "positivus voluntatis actus" con cui si esclude il "bonum prolis" deve avere unicamente per oggetto l'atto coniugale, intendendosi per esso la unione secondo natura e "per se apta ad prolis generationem" (Il Consenso nel Matrimonio Canonico, Milano, 1950, p. 78).  Come si può vedere, lo "ius in corpus" si esaurisce qui in una visione stretta, senza tenere conto dell'atteggiamento reale della persona verso l'orientamento procreativo dell'atto coniugale e dello stesso istituto matrimoniale.  cfr. P. Huizing: "Bonum prolis ut elementum essentiale obiecti formalis consensus matrimonialis", Gregorianum, 43 (1962) 663-667.

[5] L'Essenza del Matrimonio Canonico, Cedam, 1976, p. 157.  "Nell'uomo ci sono... dei valori intima­mente individuali ed assoluti del tutto intangibili, pure per co­lui che ne è il portatore.  Questi valori che trascendono la sessualità umana, pure nel senso umanamente così ricco e pieno attraverso il quale si è cercato di caratterizzarla, non rientra­no nell'economia matrimoniale": "Communio di vita, «ordinatio ad bonum coniugum» e «honor matrimonii»", del medesimo autore in Il Diritto Ecclesiastico, 93/2 (1982), p. 526.

[6] "Elemento esencial del amor conyugal es la asunción por la voluntad de la inclinación al otro cónyuge" J. Hervada: Vetera et Nova, Pamplona, 1991: vol. I, p. 614.

[7] "non videtur dari posse «ius ad amorem», sed potius ius ad aliquas actiones quae generatim foventur ab amore" (Communicationes, 1977, p. 375).  Infatti, si può dubitare della "exigibilidad jurídica de cortesía, cordialidad, comprensión, afecto o amor.  Lo jurídicamente exigible y determinable son los actos externos, no los sentimientos, las actitudes o las disposiciones íntimas": Jacinto Choza: Antropología de la Sexualidad, Madrid, 1991, p. 217.

[8] "Es preciso subrayar el gran ejercicio de libertad y el profundo contenido de entrega del uno al otro que hay en la alianza matrimonial.  Amarse hasta el extremo de deberse amor, es la máxima expresión del amor posible en la pareja humana": P.J. Viladrich, "La familia de fundación matrimonial", in Cuestiones fundamentales sobre matrimonio y familia, Pamplona, 1980, p. 401.

[9] Talvolta l'invocazione post-conciliare del personalismo coniugale sembra più vicina all'individualismo che tende all'auto-ricerca, che al "se tradere" del vero personalismo matrimoniale, il quale rimane nell'idea che San Tommaso propone dell'amore come auto-donazione.  E' tutt'altro che personalismo voler ridurre la relazione coniugale ad un diritto all'auto-soddisfazione: cfr. quanto accenato nel primo capitolo del nostro studio.

[10] "per far fede costantemente agli impegni di questa vocazione cristiana si richiede una virtù fuori dal comune; ed è per questo che i coniugi, resi forti dalla grazia per una vita santa, coltiveranno assiduamente la fermezza dell'amore, la grandezza d'animo, lo spirito di sacrificio..." (GS 49).  Se si vuole sostenere, in base al Concilio Vaticano II, che l'amore è essenziale alla validità del matrimonio, occorrerebbe sostenere inoltre che la fermezza, la grandezza d'animo e lo spirito di sacrificio - con i quali il Concilio caratterizza l'amore coniugale - sono ugualmente essenziali alla validità.  Per evitare tali esagerazioni, è opportuno ricordare una volta di più che la Gaudium et Spes è una Costituzione Pastorale, che ha lo scopo di offrire indicazioni pastorali e spirituali, e non di esplici­tare o stabilire dei principi giuridici.

[11] "Nemo potest sibi assumere obligationem iuridicam de aliquo, vel dare ius ad aliquid, quod non pendet a sua voluntate, uti est amor formaliter talis".  U. Navarrete: "Amor coniugalis et consensus matrimonialis", Periodica 65 (1976) 632.

[12] Parlando della maturità nell'amore coniugale, M.F. Pompedda osserva con acutezza: "la maturità consiste nel comprendere ed assumere in modo responsabile e sufficiente la struttura, la profondità e la finalità dell'amore e della sessualità, ossia della coniugalità": in "L'Amore Coniugale e il Consenso Matrimoniale" Quaderni Studio Rotale VII (1994) p. 51.

[13] Per un approfondito esame della possibilità o meno di identificare l'essenza del matrimonio con lo «ius ad vitae communionem», cfr. Rinaldo Bertolino: Matrimonio Canonico e 'Bonum Coniugum', Giappichelli, Torino, 1995, pp. 43-48.

[14] M. F. Pompedda: "Incapacitas adsumendi Obligationes Matrimonii Essentiales": Periodica LXXV (1986), p. 144.

[15] dell'uomo che accetta una donna come vera sposa, ma con l'unico fine di vendicarsi di lei e dei suoi cari.  Cfr. Arturo C. Jemolo: Il Matrimonio nel Diritto Canonico, Milano, 1941, p. 76.

[16] come pure gli elementi essenziali del matrimonio i quali, secondo il c. 1101, § 2, una persona non può escludere senza invalidare il consenso.

[17] "ut quod ex hoc contractu divina lege sancito alteri coniugi unice debetur, id neque ei denegetur neque cuivis permittatur": AAS 22 (1930) 546.