Può essere opportuno sintetizzare, a questo punto, la nostra tesi, come finora sviluppata. Non basta dire che l'oggetto del consenso matrimoniale - ciò su cui consentono l'uomo e la donna - sia il matrimonio; questo è ovvio. Nemmeno è sufficiente dire che l'oggetto sia il loro reciproco dono di sé come sposi - il "se tradere/acceptare"; questo è una ricca affermazione antropologica e morale, piena di verità, ma anche metaforica. Finché la metafora non sia vagliata e interpretata correttamente, non riveste una grande utilità per il lavoro del giurista. Ecco il motivo dell'analisi qui intrapresa: concretizzare lo specifico contenuto giuridico dell'auto-donazione coniugale.
Secondo le nostre riflessioni, ciò che i coniugi danno ed accettano - con effetto giuridico che genera dei diritti e dei doveri, misurabili in parametri legali - è la loro sessualità complementare, nei suoi tre aspetti di esclusività, procreatività e permanenza.
L'analisi sviluppata finora, incentrato sul personalismo del Concilio Vaticano II e di Giovanni Paolo II, insegna una linea di continuità con la tradizione. La procreatività, l'esclusività, la perpetuità - i tre «beni» agostiniani - definiscono l'essenza della donazione coniugale. L'oggetto del consenso maritale - il dono di sé degli sposi - viene specificato pertanto da queste tre caratteristiche o proprietà del matrimonio.
La giurisprudenza si è sempre occupata della questione dei diritti ed obblighi fondamentali, cui il consenso matrimoniale dà luogo. La questione ha acquistato maggiore interesse nel periodo più recente, soprattutto dopo la promulgazione del nuovo Codice, il quale fa dipendere il valido consenso matrimoniale dalla capacità di comprendere in modo minimo e di assumere effettivamente fra questi diritti od obblighi quelli che sono essenziali (c. 1095, 2 & 3). E' evidente che siffatti diritti/obblighi essenziali devono essere ricavati dall'oggetto giuridico del consenso, da ciò, vale a dire, su cui i coniugi consentono in modo necessario e costitutivo. Raggiungere una nozione chiara dell'oggetto del consenso appare così come una pre-condizione per un'indagazione adeguata nei diritti/obblighi essenziali che ne derivano. Pertanto, dopo aver abbozzato la nostra opinione in merito a questo oggetto, così come il Codice del 1983 lo presenta, potrebbe essere interessante svolgere una breve riflessione sui diritti/obblighi matrimoniali essenziali, che derivano dall'oggetto inteso nei termini sopra esposti.
C'è un accordo generale che il matrimonio non può cominciare ad esistere senza una comprensione basilare e una libera scelta di ciò che comportano fondamentalmente i tre «beni», o senza la capacità di assumerlo. Così leggiamo in una Sentenza coram Pinto, dell'8 luglio 1974, "E' necessario tener presente che non basta qualsiasi difetto per dichiarare la nullità del matrimonio; questo difetto infatti deve essere così grande che rende la parte contraente incapace di porre una libera scelta o di assumere gli obblighi essenziali dei tre «bona»" [1]; e in un altra coram Pompedda del 3 luglio 1979: "Non basta qualsiasi difetto di equilibrio o di maturità per indurre la nullità del consenso matrimoniale; che può provenire soltanto da un difetto tale che rende la parte contraente incapace di una scelta libera o di assumere gli obblighi essenziali e in particolare i tre «beni» del matrimonio" [2]. Dunque, tenuto conto del fatto che i beni agostiniani siano "inter essentialia matrimonii" [3], ne segue che i diritti/obblighi essenziali sono - almeno e in primo luogo - quelli che derivano necessariamente dai "bona".
Sfortunatamente, occorre riconoscere che, nell'uso canonista, il valore personalistico dei «bona» è stato offuscato e quasi totalmente dimenticato durante i secoli; occorre pertanto tornare a scoprirlo in modo urgente. Per capire questi «beni» sotto il prisma personalista, risulta doveroso superare la tendenza a trattare l'aspetto "istituzionale" e quello "personalista" come se fosse necessariamente in opposizione [4]. I «bona», come abbiamo cercato di indicare, rivelano delle espressioni singolari della mutua auto-donazione personale e coniugale, essendo infatti i primi elementi che personalizzano l'istituzione del matrimonio. Niente altro sottolinea tanto la singolarità e la totalità dell'auto-donazione coniugale come il fatto di essere il dono del potere procreativo personale, fatto all'altro in un'unione esclusiva e per tutta la vita.
Pertanto, non c'è dubbio che i diritti/obblighi intrinsecamente connessi con l'esclusività, la procreatività e la permanenza, sono diritti/doveri essenziali del matrimonio ai fini del c. 1095. Se la facoltà critica-intellettiva è gravemente deficiente nei confronti di questi doveri, o se il potere elettivo-esecutivo non esiste (cfr. decis. Northantonien., coram Burke del 22 luglio 1993, n. 11), allora l'apparente consenso del nubendo è invalido.
Si può tuttavia sollevare la questione se i diritti/doveri essenziali del matrimonio si esauriscono in ciò che comportano i tre «beni» agostiniani. Non esiste forse - come spesso si è affermato - uno "ius ad consortium vitae" o "ad communionem vitae" che comprende diritti e doveri essenziali che vanno al di là di quelli compresi nei tre «bona»?
Dal canto mio comprendo perfettamente l'opinione di coloro che vorrebbero individuare, per i diritti/obblighi essenziali del matrimonio, una derivazione più ampia che soltanto i tre «bona», e guardo pure con simpatia il desiderio di trovare una fonte - nuova ed autonoma - in questo senso, sia nel «consortium totius vitae» di cui nel can. 1055, § 1, sia nella "communitas vitae et amoris" della Gaudium et Spes. Mi sembra però che quando si tenta di approfondire questa linea di ragionamento e di trovarne una adeguata base giuridica, sorgano gravi difficoltà.
Il diritto al «consortium vitae» o alla «communitas vitae»
Infatti, il «consortium totius vitae», per quanto tradizionale come descrizione del matrimonio, poco dice per definirlo, a meno che il «consortium» o la "vita" della quale si tratta sia qualificato con l'aggettivo "coniugale". Un «consortium» omosessuale, per tutta la vita, potrebbe darsi; e non costituerebbe il matrimonio. Ciò che è essenziale nel «consortium» di cui parla il can. 1055, § 1, è la coniugalità; e ciò che è essenziale nella coniugalità viene abbracciato dai «bona». In altre parole, sono i «bona» che convertono il «consortium» in coniugale.
Pertanto, se sia vero che la incapacità di stabilire il «consortium totius vitae [coniugalis]» annulla l'oggetto del consenso matrimoniale, ne deriva - sul piano rigorosamente giuridico - che deve per conseguenza esistere una capacità per l'accettazione del matrimonio (di cui è sinonimo il «consortium totius vitae») nei principi che ne caratterizzano la essenza: vale a dire, i tre «bona», perchè questi esprimono le caratteristiche assolutamente necessarie della "comune sorte" (il «con-sors») che gli sposi condividono e che devono essere capaci di - e disposti a - condividere.
L'espressione "ius ad communionem vitae" appare ancora in alcune Sentenze rotali, ma meno sovente rispetto agli ultimi decenni. Sembra prendere corpo la coscienza che siffatto "ius" non costituisce un diritto nuovo ed autonomo, con un contenuto a sé suscettibile di essere specificato nei termini positivi. Fra altre, vanno notate queste due osservazioni, che ci sembrano giuste: "Per quanto riguarda lo ius ad communionem vitae, non sembra facile l'individuazione della radice essenziale della comunione di vita e la sua distinzione dagli elementi accidentali e che solo integrano tale consorzio, come in figura autonoma ed indipendente che ad essa si aggiunge" [5]. "Non a torto alcune volte il giudizio del Nostro Tribunale dissertando sul diritto alla comunione di vita, come oggetto del consenso matrimoniale, sottolinea che non è possibile che siano determinati teoricamente ed in modo positivo gli elementi necessari e sufficienti dello stesso diritto; ma solo procedendo da argomenti negativi o per esclusione è possibile definire se un matrimonio sia nullo o meno per incapacità del contraente" [6]; e ancora lo stesso illustre Giudice rotale: "Ammettiamo che non è ancora stata presentata una chiara nozione della stessa comunione di vita nella sua sostanza..." [7].
Non sembra variare sostanzialmente la critica davanti alla proposta che l'oggetto del consenso matrimoniale, e gli obblighi essenziali che ne derivano, deve essere derivato dal concetto della "comunione di vita [ed amore]" o dalla "comunione di persone", termini adoperati dalla Gaudium et Spes per descrivere il matrimonio (nn. 48; 12).
La Sentenza rotale coram Anné, del 25 febbraio 1969, propose che l'oggetto del consenso matrimoniale includesse non soltanto "il diritto nel corpo...", ma anche "il diritto all'intima comunione delle persone e della attività" [9]. La proposta, se si sottopone ad un'analisi adeguata, convince poco, per la stessa ragione che abbiamo indicato con riferimento al «consortium». Un diritto a una "comunione di vita" nel presente contesto non può significare altro che un diritto alla comunione di vita coniugale. Ma allora la proposta di Anné significa semplicemente che prestare consenso al matrimonio origina necessariamente un diritto alla vita coniugale; ciò che risulta ovvio e non comporta un arrichimento nelle nostre conoscenze. E' difficile scoprire una entità autonoma nel proposto diritto, o pensare che attribuirgli una configurazione giuridica possa costituire un vero progresso nella comprensione dell'oggetto del consenso matrimoniale.
L'ulteriore sviluppo del "diritto", come fu proposto da Anné, sembra confermare questa impressione. In modo particolare negli anni '70 e all'inizio degli '80, alcune correnti giurisprudenziali e canonistiche hanno proposto il diritto alla "comunione di vita" o alla "intima comunione di persone", come un diritto - nuovo ed essenziale - del matrimonio, e hanno rivendicato, vigorosamente, la sua incorporazione nel Codice di Diritto Canonico, già in fase di revisione. Il dibattito ha originato la notevole Sentenza della Segnatura Apostolica del 29 novembre 1975. Il "Turnus" speciale di cinque Cardinali (con il Cardinale Staffa come Ponens) ha svolto un lungo esame della nozione dello "ius ad communionem vitae", e ha concluso che significa essenzialmente lo "ius ad individuam unitatem vitae sexualis" (cf. Periodica, 66 (1977), p. 310); cioè, il diritto all'esclusività nell'aspetto unitivo della vita sessuale. Pertanto esso nulla aggiunge ai diritti compresi nei «beni», particolarmente nel «bonum fidei» e nel «bonum prolis».
Malgrado la Sentenza della Segnatura, il preteso «ius» è entrato per un certo tempo in uno degli "schemata" per i canoni sul matrimonio. Alla fine è stato comunque escluso perché, come appare dalle riunioni della Commissione Pontificia incaricata della revisione, lo si teneva come equivalente al "matrimonium ipsum", e pertanto ridondante (cf. Communicationes, 1977, p. 374; 1983, pp. 233-234). In altre parole, lo «ius ad communionem vitae» significa semplicemente uno «ius ad matrimonium». Una Sentenza del 31 gennaio 1976 coram Lefebvre sostiene infatti che lo «ius ad vitae communionem» "non è indipendente dal diritto all'atto coniugale con le sue proprietà essenziali, bensì significa o denota più propriamente tutte queste realtà nel contesto di ciò che siffatto diritto comprende: i.e. l'ordinazione alla prole, la perpetuità e l'esclusività" [9]. Secondo Mons. Egan, è giuridicamente assurdo sostenere che per il consenso matrimoniale si conferisce uno "ius ad matrimonium" (cfr. Sent. 19 luglio 1984: vol. 66, p. 471).
Qualsiasi possibile "ius ad consortium vitae", "ius ad vitae communionem", "ius ad relationem interpersonalem", o "ius ad amorem", patiscono tutti dello stesso difetto di specificazione. In ciascun caso, va inteso necessariamente un riferimento al "consortium" coniugale, alla comunione coniugale, alla interpersonalità coniugale, all'amore coniugale. Soltanto dopo aver specificato ciò che sia essenziale e costitutivo della coniugalità, potremmo iniziare una utile ad accurata analisi di questi possibili diritti.
L'"onus difficillimum"
Un "diritto" ad una "comunione di vita" è tanto elegante quanto ampio e vago. Per un discorso giuridico pratico, sembra inutile proporre siffatto diritto come "essenziale" o "costitutivo" del matrimonio, a meno che si specifichi il suo contenuto: compito che sempre è andato incontro a parecche difficoltà. Nella pratica, il carattere indubbiamente attraente del concetto della comunione di vita non ha mai potuto compensare la sua non meno indubbia indeterminatezza. In effetti, tutti i tentativi di dargli solido corpo giuridico sembrano aver fallito.
Lo stesso Mons. Anné, nella sua Sentenza del 1969, descrisse come «onus difficillimum» il compito di definire ciò che occorre in termini giuridici per questa «communio vitae»: "onus est difficillimum modo accurato et exhaustivo definire et explicare quid - sub respectu iuridico - requiratur ad substantiam istius «consuetudinis et communionis vitae»..." (R.R.Dec.: vol. 61, p. 184). Di questo si occupò una posteriore Decisione della Segnatura Apostolica del 17 ottobre 1972. Avendo espresso dei seri dubbi se lo «ius ad communionem vitae» possa considerarsi come costitutivo del matrimonio, con indipendenza dei diritti compresi nei tre «bona», la Decisione continuò: "Sed etiam si ius et officium ad communionem vitae essent proprium matrimonii - et quidem uti ius et officium diversum a iuribus et officiis quae tria bona matrimonii constituunt - , definiri accuratissime deberet quaenam sint elementa constitutiva huius iuris et officii, id quod nondum factum est a doctrina vel a iurisprudentia" (Periodica 62 (1973), p. 579).
Va detto che alcuni autori, senza spaventarsi di fronte a questo «onus dificillimum», hanno provato a stilare un elenco di elementi che considerano essenziali per la «communio vitae», arrivando perfino ad affermare che il consenso matrimoniale dà uno stretto diritto a ognuno di questi elementi in modo tale che la persona che sia incapace di viverli o di farli vivere risulta incapace di prestare un vero consenso. Si elenca, per esempio: "L'amore oblativo"; "La responsabilità per stabilire l'amicizia coniugale"; "Maturità del comportamento personale attraverso gli avvenimenti normali della vita quotidiana"; "Comportamento stabile e capacità di adattarsi alle circostanze"; "Benevolenza e gentilezza di carattere nelle relazioni mutue", ecc. [10].
Nessuno metterà in dubbio che tali elementi siano vivamente da desiderare nella vita coniugale, e che contribuiscano notevolemente alla sua riuscita e felicità, così come la loro assenza può portare il matrimonio alla infelicità e al naufragio. E' altrettanto evidente che la persona che possiede stabilmente queste qualità ha già raggiunto un alto grado di maturità psicologica. Occorre però chiedersi: è così che soltanto quelle persone che abbiano raggiunto tale grado di sviluppo psicologico sono capaci di un consenso matrimoniale valido? Vale a dire, è così che il consenso conferisce un diritto giuridico e costitutivo a trovare una maturità così globale nell'altro coniuge? Se realmente fosse così, sembra che pochi matrimoni potrebbero considerarsi validi. Qui è assai facile incorrere nell'errore contro il quale il Romano Pontefice volle mettere in guardia, nella sua Allocuzione alla Rota del anno 1988; l'errore, cioè, di giudicare "non in riferimento alla capacità minima, sufficiente per un valido consenso, bensì all'ideale di una piena maturità in ordine ad una vita coniugale felice" (AAS vol. 80 (1988) 1183).
Non soltanto dall'angolazione della fede, ma pure da quello di qualsiasi antropologia seria, il matrimonio appare non come un punto di arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza nel processo di maturazione che deve essere la vita intera di ciascuno [11]. La maturità richiesta per il consenso matrimoniale valido è quella di coloro che cominciano la vita adulta, e non di coloro che abbiano già raggiunto la meta ideale della crescita umana. Così si legge nella Sentenza coram Pompedda del 3 luglio 1979 già citata: "Il matrimonio non può considerarsi come la coronazione della maturità già acquistata, bensì come un passo nel processo verso l'acquisizione di una maturità sempre più piena" [12]. Il canone 1095 parla di un (grave) difetto di discrezione, non di un (mero) difetto de maturità; si tratta di una differenza, a mio avviso, della quale è importante prendere nota.
A conclusione di questa breve considerazione dello «ius ad communionem vitae», possiamo dire che più di venti anni dopo la Decisione della Segnatura già citata, né la dottrina né la giurisprudenza sono riusciti a fornire una spiegazione accettabile di come siffatto diritto avrebbe una entità autonoma a se, né a dimostrare che dovrebbe comprendere alcun elemento essenziale del matrimonio che non sia già specificato nei tre «bona».
L'interpersonalità
Il can. 1095 riferisce il grave difetto di discrezione e la "incapacitas assumendi" agli obblighi essenziali del matrimonio. Bisogna pertanto misurare questi obblighi con riferimento all'istituto del matrimonio, e non al partner concreto che una persona ha scelto come sposo. Per misurare la capacità di apprezzare o di assumere gli obblighi "per se" del matrimonio, è sempre possibile stabilire alcuni criteri giuridici accettabili. Invece non è possibile stabilire alcunchè per misurare la capacità personale di fare una scelta giusta del partner, o di riuscire a vivere una vita coniugale felice con lui o con lei. E' ragionevole chiedere ai Tribunali che giudichino sulla capacità "persona-istituzione" perché, essendo certamente delicato il compito, i parametri che devono usare saranno, da una parte, quelli costanti della natura umana e, dall'altra, gli aspetti essenziali di una istituzione che è la più naturale fra quelle umane. La base principale per le loro decisioni va dunque proporzionata da elementi oggettivi (cf. c. Pompedda, 19 febbraio 1982, R.R.Dec., vol. 74, p. 90, n. 9). Non risulta invece ragionevole chiedere ai Tribunali che giudichino della capacità "persona-persona", giacché in questo caso tutti gli elementi in gioco sono soggettivi [13].
Benché scorga un enorme arricchimento (anche per la scienza canonistica) nella comprensione personalista del matrimonio presentata dal Concilio Vaticano II e dal Papa attuale, non sono sicuro fino a che punto le teorie "interpersonali" ci permettano di fare un'analisi giuridica più profonda dell'istituto matrimoniale. In fin dei conti, le relazioni interpersonali sono costanti ed abituali nella società umana. Quando queste relazioni sono nobilitate dall'affetto o dall'amore - come nel caso dell'amicizia puramente umana oppure, in un piano più soprannaturale, della vita religiosa - permettono molti gradi di "unione" o "comunione" di vita. E' chiaro che la forma di tale comunione esemplificata dal matrimonio è totalmente singolare. Tuttavia, come è altrettanto chiaro, non è la inter-personalità bensì la coniugalità che caratterizza il matrimonio, e che offre il criterio definitivo per specificare i diritti matrimoniali essenziali. Pertanto se si afferma che il matrimonio è per definizione una relazione inter-personale, si afferma ciò che è ovvio ma non ciò che è specifico. In più, si corre il pericolo di subordinare la coniugalità alla inter-personalità, e così di assumere dei criteri sbagliati per la determinazione dei diritti/obblighi essenziali che il consenso comporta.
Vale la pena insistere su questo punto. Ciò che deve essere sottomesso ad analisi giuridica non è tanto l'aspetto interpersonale (che caratterizza tanti rapporti umani, anche un rapporto di semplice amicizia), bensì l'aspetto coniugale. Se non si fa quest'analisi in maniera adeguata, una frase tale come "il diritto ad una relazione interpersonale essenziale" risente di una tale mancanza di concretezza che rimane virtualmente senza significato.
Incapacità relativa
Le teorie interpersonali tendono anche a mettere l'accento sulla reciproca capacità degli sposi di adattarsi l'uno all'altro. Da lì è facile arrivare all'idea della "incapacità relativa" e di postulare la compatibilità di caratteri come requisito di un consenso valido.
Chi si sposa, ha il diritto di trovare nel partner certe capacità essenziali (la capacità, per esempio, per una relazione fedele di "unico coniuge"); non può però vantare un diritto a concrete qualità di temperamento o di disposizione. Se non fosse così, si finirebbe per far dipendere la validità del matrimonio dalla capacità ad una relazione facile ed armoniosa. Così si arriva alla "incapacità relativa", come fece un Tribunale nel giudicare che al convenuto "le faltaba la dinámica de esa relación interpersonal armoniosa y viable que representa un componente esencial del «consortium omnis vitae»"; o come fece un altro, perché la convenuta non possedeva "l'aptitude a écouter l'autre, à se dévouer a lui, à le respecter, à lui montrer un minimum d'«affectus maritalis», etc... et enfin à se conduire en adulte cohérent et responsable, en particulier devant les difficultés concrètes de la vie de couple et de parent".
A mio avviso, la teoria della incapacità relativa va altresì giudicata alla luce del fenomeno pastorale, non infrequente, in cui molti matrimoni altamente "integrati" si manifestano tra coppie con caratteri assai differenti e perfino apparentemente opposti, che potrebbero facilmente essere giunti alla "incompatibilità" se non si fosse deciso (in uno sforzo che evidentemente li ha portati ad una maggiore maturità) per l'opzione contraria [14].
Alla Rota Romana, Mons. Serrano è stato il principale sostenitore della teoria dell'incapacità relativa. Essendo il matrimonio per lui essenzialmente una relazione interpersonale, sostiene che, per determinare la capacità consensuale, non basta esaminare le personalità dei coniugi separatamente (l'uno dall'altra). Prima di tutto vanno considerate queste personalità nella loro mutua interazione; soltanto quest'analisi permette un giudizio sulla capacità delle parti di stabilire questa relazione interpersonale essenziale per il matrimonio.
Non trovo alcuna base solida né nel diritto né nella teologia o antropologia cristiane, che faccia da fondamento a questa tesi. Lo stesso Mons. Serrano, con riferimento a questa teoria in una Sentenza del 26 maggio 1988, cita a sostegno soltanto alcune opinioni di Mons. Pinto [15]. Mons. Mario F. Pompedda, attuale Decano della Rota Romana, dopo un attento studio del tema, formula una chiara e prudente opinione: "I must conclude and hold that to this point in time, a juridic foundation for such a "relative" incapacity has not been proven" [16].
Come consta dal c. 1095, l'incapacità consensuale è l'incapacità nei confronti dei diritti/obblighi del matrimonio nella loro essenza giuridica. Essa implica, come abbiamo visto, incapacità per il matrimonio considerato essenzialmente, in sé, e non a livello esistenziale, con riferimento al "partner" concreto che si è scelto [17]. L'incapacità consensuale va vista in relazione al matrimonio e non al coniuge. Occorre insistere: è una incapacità "persona‑istituzione", e non "persona-persona": "come la natura del connubio non dipende dalla volontà degli uomini, allo stesso modo i diritti-obblighi essenziali del matrimonio hanno una forza ed una esistenza oggettiva. Dunque, non è il modo di essere e di agire delle persone che conferisce agli atti umani una bontà morale ed una validità giuridica, ma la conformità di questi all'oggettivo ordine morale e giuridico. Perciò anche la loro capacità... si riconduce e deve essere ricondotta non da soggetto a soggetto, ma in modo obiettivo alle obbligazioni essenziali del matrimonio" [18].
Sembra pertanto che cada al di fuori della competenza del diritto giudicare la capacità morale relativa. Come conseguenza, il semplice fatto che una persona si senta moralmente incapace di sostenere la vita coniugale con il partner concreto che scelse, mentre potrebbe giustificare il consiglio pastorale di chiedere la separazione, non presterebbe nessun fondamento giuridico per il giudizio di nullità del consenso matrimoniale.
Mons. Serrano sostiene che la relazione interpersonale coniugale è ontologicamente anteriore alle qualità o proprietà - i «bona» - che le qualificano; conseguentemente, se manca l'interpersonalità non ha alcun senso parlare dei «bona», giacché non si può predicare proprietà di qualcosa inesistente [19]. Io preferirei inquadrare il tema nel senso inverso. La relazione coniugale non gode di esistenza autonoma indipendentemente dai «bona»; né si può correttamente affermare che siffatta relazione sia anteriore ai «bona», o che esista "prima"; perché sono i «bona» che la definiscono e le conferiscono sostanza. Questo è così vero fino al punto in cui l'assenza o l'esclusione di uno qualsiasi dei «bona» (p. e. nel caso della simulazione) renda impossibile la costituzione della relazione coniugale. Senza i «bona», in altre parole, non ha senso parlare della relazione interpersonale coniugale, giacché non può esistere.
NOTE
[1] "Prae oculis habendum est non quemlibet defectum sufficere ad matrimonii nullitatem declarandam, sed tantum debere esse, qui contrahentem liberae electionis peragendae vel trium bonorum essentialia onera assumendi incapacem reddat": R.R.Dec., vol. 66, p. 501.
[2] "Non quivis defectus aequilibrii vel maturitatis sufficit ad inducendam matrimonialis consensus nullitatem: istam inducere tantummodo valet defectus talis qui contrahentem efficiat incapacem liberae electionis vel adsumendi onera essentialia atque in specie tria connubii bona": vol. 71, p. 388.
[3] cf. c. Felici, 18 gennaio 1955, vol. 47, p. 54.
[4] cfr. il mio studio già segnalato: "Il matrimonio: comprensione personalistica o istituzionale?", in Annales Theologici, 1992-2, pp. 227ss.
[5] "Ad [ius ad] communionem vitae quod attinet, haud facile videtur individuatio radicis essentialis communionis vitae eiusdemque seiunctio ab elementis accidentalibus et integrantibus tantum tale consortium, ut in figura autonoma et independenti ei adiudicetur": c. De Lanversin, 18 luglio 1985: R.R.Dec., vol. 77, p. 381.
[6] "Haud immerito Nostri Fori prudentia aliquando disserens de iure ad vitae communionem, utpote obiectum consensus matrimonialis, animadvertit non posse modo positivo et theorice determinari elementa sufficientia et necessaria eiusmodi iuris; sed tantummodo procedendo ratione negativa seu per exclusionem definiri posse utrum necne aliquod peculiare matrimonium nullum fuerit ob contrahentis incapacitatem": c. Pompedda, 30 gennaio 1989: vol. 81, p. 85.
[7] "libenter concedimus hucusque nondum traditam fuisse claram notionem eiusmodi vitae communionis in sua substantia...": Sent. 11 aprile 1988: vol. 80, pp. 200.
[8] "Obiectum, exinde, formale substantiale istius consensus est non tantum ius in corpus... sed complectitur etiam ius ad vitae consortium seu communitatem vitae quae proprie dicitur matrimonialis, necnon correlativas obligationes, seu ius ad intimam personarum atque operum coniunctionem" (R.R.Dec.. vol. 61, p. 183).
[9] "non est quid independens a iure ad coniugalem actum cum eius essentialibus proprietatibus, sed rectius significat seu denotat ista omnia ratione habita eorum quae illud complectantur scilicet ordinationis ad prolem, perpetuitatis et exclusivitatis": R.R.Dec., vol. 68, p. 39.
[10] La Sentenza della Signatura del 29 novembre 1975 censurò questi suggerimenti come inadeguati (cf. Periodica, 66 (1977), pp. 312-313); lo stesso fece la Sentenza rotale coram Raad alla quale ci siamo già riferiti: R.R.Dec., vol. 67 (1975), p. 244-245.
[11] Giovanni Paolo II, nel suo Discorso dell'anno 1987 alla Rota Romana, parlava del pericolo di "confondere una maturità psichica che sarebbe il punto d'arrivo dello sviluppo umano, con la maturità canonica, che è invece il punto minimo di partenza per la validità del matrimonio" (AAS vol. 79 (1987) 1457).
[12] "Matrimonium haberi nequit culmen maturitatis acquisitae, sed potius gradus in processu ad pleniorem maturitatem acquirendam": vol. 71, p. 388.
[13] cfr. C. Burke: "Some reflections on canon 1095": Monitor Ecclesiasticus 117 (1992-I), p. 142; "Reflexiones en torno al Canon 1095": Angelicum 49 (1992), p. 505.
[14] ciò indica pure che il «bonum coniugum» non va ridotto a una questione di compatibilità naturale, e che l'apparente "incompatibilità" non è necessariamente nemica del bene dei coniugi.
[15] R.R.Dec., vol. 80, p. 359). Infatti la teoria non è stata recepita dalla corrente dominante del pensiero rotale []Fra altre Sentenze rotali che respingono il concetto, cfr.: c. Raad, 14 aprile 1975 (vol. 69, p. 260); c. Di Felice, 12 nov. 1977 (vol. 69, p. 453); c. Lefebvre, 4 febb. 1978; c. Agustoni, 20 febb. de 1979; c. Parisella, 15 marzo 1979; c. Bruno, 22 febb. de 1980 (vol. 72, p. 127); c. Fiore, 27 maggio 1981 (vol. 73, pp. 314-317); c. Pompedda, 19 febb. 1982 (vol. 74, p. 90); c. Egan, 19 luglio de 1984 (vol. 76, p. 471); c. Stankiewicz, 24 ott. 1985 (vol. 77, pp. 448ss); c. Ragni, 24 maggio 1988, n. 5; c. Burke, 22 luglio 1991 (vol. 83, p. 503) e, più a lunga, 27 ottobre 1994.
[16] "Incapacity to assume the essential obligations of marriage", in Incapacity for Marriage, P.U.G., Rome 1987, p. 206
[17] Mons. Pinto sostiene che la discrezione necessaria per la validità significa la deliberazione intorno ai diritti/obblighi essenziali "non in abstracto sed in casu concreto considerata" (22 de nov. de 1985: R.R.Dec., vol. 77, p. 538). Questo non mi sembra logico. L'imprudenza o la irresponsabilità nello sposarsi con una persona concreta non può essere elevata al livello di un difetto invalidante di discrezione riguardante gli obblighi matrimoniali essenziali. cfr. c. Colagiovanni, 11 dic. 1985 (vol. 77, p. 571).
[18] "sicuti connubii natura a voluntate hominum non pendet, ita pariter iura-obligationes essentialia matrimoni suam habent obiectivam vim et exsistentiam. Non igitur agendi et essendi ratio personarum moralem bonitatem et validitatem iuridicam confert actibus humanis, sed istorum conformitas cum ordine morali-iuridico obiectivo. Exinde, etiam capacitas eiusmodi... refertur ac referri debet non de subiecto ad subiectum, sed obiective ad matrimoni obligationes essentiales": c. Pompedda, 19 febbraio 1982, loc. cit.
[19] "La consideración existencial del matrimonio en las causas canónicas de nulidad por Incapacidad psíquica" Angelicum, vol. 48 (1991), p. 177.