04. La "totalità " nell'auto-donazione coniugale

            Abbiamo compiuto un primo passo importante per specificare la natura e il contenuto del dono coniugale di sé che il c. 1057 § 2 presenta come oggetto del consenso matrimoniale. Chi dona - con mutua partecipazione - la propria procreatività, entra con altra persona in una relazione già qualificata da un'intimità totalmente singolare. Come abbiamo visto, niente può esprimere il desiderio di unione quanto quel "partecipare insieme", proprio dell'atto coniugale, del carattere e potere della sessualità. Così si legge nella Familiaris Consortio: "La sessualità, mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra... non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l'intimo nucleo della persona umana come tale" (FC, n. 11).

            Nell'esaminare in primo luogo il senso donativo dell'atto coniugale, ciò che abbiamo fatto in effetti è reinterpretare il "bonum prolis" [1] in chiave personalista, verificando, di conseguenza, come le intuizioni moderne, adeguatamente analizzate, non si staccano dalla tradizione, ma piuttosto si collegano ad essa, arricchendola. Sarà opportuno dedicare adesso un po' di spazio ad una riflessione parallela sul "bonum fidei" e sul "bonum sacramenti", per rilevare come anche questi beni tradizionali si integrano come elementi essenzialmente costitutivi della "traditio suiipsius" coniugale.

Temporalmente totale; personalmente unico

            Il rapporto sessuale perde il suo carattere singolare di atto unitivo di amore se si lo priva dell'orientamento verso la vita. In tale fattispecie, la relazione sessuale fra due persone si converte in una cosa banale, un'eccitazione passagera. Tale relazione non può originare il matrimonio. Ciò nonostante, la relazione è tanto frequente quanto frustrante nella società contemporanea, dove il concetto prevalente della sessualità è quello di una attività casuale, la cui partecipazione coinvolge le persone, e le loro relazioni interpersonali, in una maniera soltanto superficiale e senza conseguenze. Per tante persone oggi, la scelta di un partner sessuale è come la scelta di un amico: senza obblighi speciali che escluderebbero una terza persona da una relazione contemporanea dello stesso genere, o che necessariamente vincolerebbero le due durante un periodo di tempo illimitato. Siffatte relazioni informali - temporanee o "a prova" - ostacolano la realizzazione personale, e tendono a lasciare gli individui isolati in una situazione di insicurezza egocentrica [2].

            Il dono di sé - dono sessuale - che i coniugi si scambiano non si può ridurre alla mera reciproca procreatività. Il dono della sessualità, per essere veramente umano e coniugale, deve essere caratterizzato ancora da due elementi o proprietà: l'indissolu­bi­lità e la fedeltà.

            Infatti, quello che va significato nel "sese tradere" matrimoniale è il dono della pienezza della sessualità coniugale; dono che non è affatto pieno a meno che - oltre ad essere aperto alla vita - non sia permanente ed esclusivo. Una ulteriore conside­razione della natura della sessualità, tale come fu creata da Dio, ci aiuterà ad approfondire questa verità.

            Dio ha creato l'uomo in una dualità: maschio e femmina. Le differenze tra i sessi parlano di un disegno divino: una complementarità fra uomo e donna che li spinge a donarsi reciprocamente, con una mutua autodona­zione che si esprime in un modo specifico e totalmente unico nell'atto generativo, che proprio per il suo orientamento all'unione degli "elementi procreativi" - quello maschile e quello femminile - è capace di esprimere la singolarità della relazione coniugale e perciò merita di chiamarsi "l'atto coniugale".

            Comunque, non esiste una vera autodonazione se il dono non è permanente. Lo ha affermato incisivamente Giovanni Paolo II nella allocuzione alla Rota Romana del 1982: "Un dono, se vuole essere totale, deve essere senza ritorno e senza riserve" (AAS 74 (1982) 451). Un dono di sé per un certo tempo - per un giorno o per cinque anni - non è un vero dono di sé: tutt'al più ha il carattere di un prestito. Quando si fa un prestito, uno si riserva il diritto di proprietà sulla cosa prestata: si vuole essere in grado di reclamarla. Di fatto non la si . E' lecito parlare di un vero dono solo quando questo è irrecuperabile, cioè quando esiste una donazione di cui non si può chiedere la restituzione, con fondamento giuridico. Infatti, chi da, perde ogni diritto di proprietà. Invece chi si riserva un diritto qualsiasi su una cosa, con animo di poter reclamare l'oggetto del suo consenso, non consente ad una vera donazione.

            Nell'auto­donazione matrimoniale, il dono di sé è permanente; altrimenti non sussiste affatto. Chi consente al matrimonio pertanto emette necessaria­mente un consenso irrevocabile. "L'intima comunità di vita e d'amore coniugale... è stabilita ... dall'irrevocabile consenso personale" (Gaudium et Spes, n. 48). Consentire in una relazione revocabile significa non consentire al matrimonio. Come afferma S. Tommaso: "non enim consensus ad tempus matrimonium facit" (Suppl., q. 49, art. 3, ad 4).

            Tutta l'analisi che stiamo portando avanti in una prospettiva rigorosamente giuridica, rileva che l'istinto sessuale-coniugale conduce l'uomo e la donna ad un impegno ed ad una autodonazione totale, che rispondono appunto alle intime aspirazioni dell'essere umano. Così comprendiamo la logica della permanenza o indissolubilità del matrimonio, che corri­sponde alle aspirazioni dello stesso amore umano: "Ti amo; ti amerò per sempre". Desiderare una unione coniugale permanente possiede in sé qualcosa di profondamente naturale. L'indissolubilità pertanto non costituisce soltanto un obbligo; attrae, perché rappresenta un valore, un bene, per coloro i quali abbiano una visione normale della vita umana (cfr. decis. coram Burke, in una Romana, del 19 aprile 1988: R.R.Dec., vol. 80, pp. 251-256).

            "Soltanto in tale ottica [è] possibile giustificare intrinsecamente, come esigenza giuridica propria del rapporto scaturiente dall'atto, consona alla dignità personale, la perpetuità del vincolo (e l'indissolubilità, che ne deriva sul piano giuridico positivo); la quale, altrimenti, apparirebbe come imposizione di una legge estrinseca, giustificabile finché questa si dia, e, se legge divina, finché in questa si creda" (Lo Castro, Gaetano: Tre Studi sul matrimonio, Giuffrè, Milano, 1992, p. 34).

            La Familiaris Consortio afferma che la sessualità "si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegnano totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna, se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente: se la persona si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente" (n. 11); e più tardi descrive l'indisso­lubilità come "radicata nella personale e totale donazione dei coniugi" (n. 20).

            Come non esiste termine medio tra il permanente e il transeunte, così non esiste una scelta intermedia fra la relazione duratura e inscindibile del matrimonio, e una temporanea relazione sessuale: fra lo sposo, a cui uno si dà per la vita, e il "partner" sessuale, che si può cambiare a volontà. In effetti se la norma per la "partnership" sessuale è che dipende dalla volontà dell'una o dell'altra parte non soltanto iniziarla ma anche scioglierla, allora il "matrimo­nio" non ha nessun significato; o, se si preferisce, non signi­fica nulla che abbia importanza. Il "matrimonio", in tale ipotesi, conferisce una forma legale ad alleanze transitorie; ma non si può dettare giustificazione alcuna - tranne le "convenzioni" sociali - del perché si dovrebbe rispettare tale forma o perché due persone non potrebbero preferire rimanere in una relazione carente di siffatta formalità.

            L'essere umano è stato sempre spinto verso la donazione coniugale, ma allo stesso tempo, con la sua natura caduta e diffidente, la teme; forse oggi più che mai. Nell'angoscia di questa situazione esistenziale - paura della donazione impegnata da una parte; paura di rimanere solo, dall'altra - non è possibile predire come ciascuno sceglierà. Tuttavia, il desiderio di una donazione coniugale corrisponde ad uno dei livello più profondi del bisogno umano.

Coniugalità "non divisa"

            La fedeltà o esclusività coniugale ha una simile logica e corrisponde ugualmente alla natura dell'amore umano. L'"Io" è indivisibile e irripeti­bile; dunque non si può donare a parecchie persone simultaneamente; si può donare soltanto a una. "Ti do il mio Io", è l'affermazione coniugale. Ma se uno sposo propone di conferire lo stesso dono dell'"Io coniugale" anche ad altre persone - se propone di condividerlo - , allora al massimo è soltanto una parte del suo "Io" coniugale che dà ad ognuno. In altre parole, chi dona la sua sessualità coniugale a diverse persone contemporaneamente, la dà a ciascuna in modo diviso, e non la dà totalmente a nessuna.

            D. von Hildebrand rileva che "l'amore coniugale - non soltanto il vero matrimonio - esclude ogni poligamia. E' nell'essenza dell'amore coniugale volgersi ad un oggetto solo" (Il Matrimonio, Brescia 1931, p. 41). Come fa notare lo stesso autore, non vi è niente di male nell'amare parecchi amici, con amore di amicizia; ma sarebbe ripugnante cercare di amare parecche donne o parecchi uomini con amore coniugale.

            Il valore - la specifica bontà - del "bonum fidei" consiste nel fatto che ciascuno sia unico coniuge dell'altro. Come si sa, il consenso matrimoniale valido richiede l'intenzione di vincolarsi proprio in tale relazione esclusiva. Se si esclude tale intenzione, risulta invalido il consenso: principio che nessuno mette in dubbio. Più difficile e contestata e la questione se sia valido il consenso quando una parte abbia la positiva intenzione di rompere - al meno periodicamente - la fedeltà. A mio parere, il "bonum fidei" va escluso soltanto se l'intenzione della parte, nel caso, sia di riservarsi il diritto ad avere una relazione coniugale con una terza persona; cioè se ha l'intenzione di conferire diritti coniugali a un'altro. La semplice intenzione di avere o mantenere una relazione sessuale con un altro, per quanto immorale, non prova necessariamente l'esclusione, a effetti giuridici, dell'aspetto di un unico coniuge che costituisce l'essenza del "bonum fidei" [3].

            Dunque, se si esclude l'unità o l'indissolubilità, non si realizza il dono sponsale di sé. Il mio "Io coniugale" non diventa tuo; tutt'al più diventa parzialmente tuo o temporalmente tuo. La "traditio suiipsius" coniugale, bono fidei vel bono sacramenti excluso, non si effettua.

            Una volta in più, vale la pena sottolineare che, nel riferirci alle proprietà della procreatività, l'esclusività, e la perpetuità, stiamo parlando di valori del matrimonio, di elementi che lo rendono attraente alla natura e alla comprensione umane. Si ricorderà che Sant'Agostino, nella sua difesa del matrimonio contro la visione pessimista dei Manichei, descrisse le sue proprietà essenziali come "bona", cioè "valori" - cose buone. In quanto buoni, questi valori sono desiderabili; e risulta naturale desiderarli. Naturale, perché corrisponde alla natura dell'amore umano. L'esclusione di uno di questi valori matrimoniali rivela un atteggiamento innaturale, perfino patologico, verso il matrimonio, che contraddice in modo profondo e sorprendente la comprensione naturale che l'uomo possiede dell'unione coniugale. L'esclusione sorprende precisamente perché non è naturale. E' perciò che la Chiesa, pur accettando che l'esclusione possa capitare, ne richiede la dovuta prova, prima di emettere una dichiarazione di nullità a motivo di un consenso simulato.

Donazione della sessualità

            La nostra analisi di quello che va coinvolto nel "sese tradere" coniu­gale, consacrato dal Concilio, sta portando a questa conclusione: quello a cui consentono i coniugi è la donazione - permanente ed esclusiva - non di sé stessi, bensì della personale e coniugale sessualità complementare [4]: cioè della sessualità nel preciso aspetto in cui è più personale a ciascuno e in cui completa coniugalmente la sessualità dell'altro.

            "Il consenso matrimo­niale... coinvolge integralmente non l'assolutezza dell'umanità di un uomo e di una donna, ma la loro relatività sessuale" (Bonnet: op. cit., p. 180). Con parole di un altro canonista: "In effetti uomo e donna diventano sposo e sposa quando, per mezzo di un determinato tipo di alleanza impegnata, si donano realmente l'uno all'altra tutta quanta la mascolinità e tutta quanta la femminilità, formando così tutti e due una unica unità nell'aspetto coniugabile delle loro persone" (P.J. Viladrich: "L'Habitat Primario della Persona in una Società Umanizzata": Anthropotes, 1988, IV, n. 1, p. 178).

            Il diritto acquistato da ciascuno sposo non è, e non può essere, un diritto su ogni aspetto della persona o della vita dell'altro coniuge. Esistono infatti aspetti di ogni persona che sono assolutamente inalienabili, come la dignità, la libertà o la responsabilità personali, ecc. [5] Prescindendo dal grado di compenetrazione o di unità morale che gli sposi possono cercare e perfino raggiungere, rimane evidente che il consenso non conferisce nessun diritto giuridico sui quelli aspetti personali, che si possono considerare come sopra-coniugali o meta-coniugali. Ogni sposo infatti - con i diritti e gli obblighi propri del impegno coniugale - conserva il dovere intrasferibile di gestire la propria salvezza; dovere di cui l'adempimento può e deve essere fortemente aiutato del matrimonio, non però assorbito in essa.

            Il consenso coinvolge la persona nelle sue dimensioni coniugabili. Il patto coniugale infatti converte ciò che è inclinazione naturale in qualcosa di dovuto. I diritti derivanti dall'alleanza matrimoniale, sono dei diritti sugli aspetti o attributi coniugali della persona, cioè sulla sua sessualità coniugale e complementare. Insegna infatti San Tommaso che l'oggetto del consenso matrimoniale della moglie non è tanto il marito quanto l'unione coniugale con il marito; e similmente il consenso del marito è relativo all'unione coniugale con la moglie [6].

            Il matrimonio va necessariamente caratterizzato da un impegno sessuale. I diritti e i doveri creati - accettati e conferiti - dal consenso matrimoniale devono essere esclusivi e perpetui. Ma - torniamo ad insistere - devono soprattutto essere sessuali; cioè devono corrispondere al carattere procreativo o co-creativo della complemen­ta­rità sessuale da cui, come abbiamo visto, il rapporto sessuale fisico deriva la sua capacità di esprimere la singolarità delle relazione e donazione coniugali. E' chiaro che la sessualità coniu­gale non si esau­risce nella copula corporale [7]; ma è altrettanto chiaro che trova in essa una espressione così singolare che la violazione della natura e dell'orientamento procreativo della copula priva la relazione coniugale, nel modo più assoluto, della sua natura sessuale. E' per questo che il primo e il più fondamentale diritto conferito dal consenso matrimoniale è il diritto a un vero rapporto sessuale, cioè a tutta la verità della copula coniugale, anche nelle sue conseguenze naturali.

            La nostra analisi dell'impegno o della donazione sessuale, che caratterizza di maniera fondamentale l'alleanza matrimoniale, potrebbe riassumersi del modo seguente:

            a) Una persona può proporsi di partecipare la sua sessualità a diversi individui e, in questo modo, di stabilire con essi una relazione permanente caratterizzata da diritti ed obblighi sessuali (nella poligamia, per esempio). In tale caso vi è una donazione ed una unione sessuali, ma non sono tali da poter costituire il matrimonio cristiano. La donazione sessuale che questa persona vuole fare è reale ma difettosa, cioè essa non è disposta a limitare questa donazione a una sola persona: rifiuta l'unicità o l'esclusività (I diritti scambiati potrebbero chiamarsi "quasi-coniugali"; non sono coniugali).

            b) Può anche aver l'intenzione di concedere veri diritti sessuali ad un altro, anche i modo esclusivo. ma di farlo soltanto per un certo tempo o con la condizione di una dissoluzione volontaria. Anche in questo caso, la persona dona la sua sessualità in qualche modo (o piuttosto, come abbiamo visto, la presta), e fa uno scambio di diritti ed obblighi sessuali; ma anche in questo caso lo fa in una maniera che non costituisce vero matrimonio. La permanenza viene esclusa.

            c) Invece, se ciò che rifiuta ed esclude è precisamente la donazione e l'accettazione della procreatività, allora NON DONA affatto la sua sessualità, nè concede NESSUN DIRITTO alla sessualità. Nei primi due casi, c'era una vera - per quanto limitata - unione sessuale. Nel terzo caso, c'è nessuna vera unione sessuale, e pertanto non esiste nemmeno vera donazione umana della propria sessualità [8].

            Benché siano molteplici le relazioni - più o meno caratterizzate dal sesso - che possono stabilirsi fra l'uomo e la donna, c'è una sola in cui la distinzione sessuale risulta realmente necessaria. La distinzione non è assolutamente necessaria né per l'amicizia, né per l'amore né per l'aiuto mutuo, così che tutte queste finalità possono essere raggiunte anche da persone dello stesso sesso. E' la procreatività che, in ultima analisi, spiega, specifica e dà una singolarità tale alla relazione sessuale da renderla capace di fondamentare la stessa coniugalità.

            Come abbiamo già dimostrato, un atto contraccettivo non è né veramente sessuale né veramente coniugale: non è - e non può essere - l'atto coniugale. Mediante tale atto i coniugi non "si conoscono" veramente, e non diventano "uno" [9].

            Soltanto un atto di vero rapporto sessuale, che non sia mutilato nella sua natura, fa si che i coniugi diventino una sola carne. E' questa verità naturale che sta alla base del principio giuridico formulato nel canone 1061, per cui soltanto una copula sessuale vera - cioè, "per se apta ad prolis generatio­nem", ed eseguita "humano modo" - consuma il matrimonio [10]. Per­tanto quando la giurisprudenza ribadisce che il matrimonio conferisce uno "ius ad actos per se aptos ad prolis generationem", non sta esprimendo una pretesa meramente fisica o biologica, bensì un vero diritto personalistico: il diritto a diventare "uno".

            Sembra pertanto che anche il canone 1081 § 2 del Codice piobenedettino abbia recepito un vero elemento personalistico nel descrivere il consenso matrimoniale. Comunque non lo espresse nel modo più appropriato. Un diritto "in corpus" - sul corpo dell'al­tra parte - sembra infatti piuttosto "fisicista" e carente di pieno carattere umano. Invece con un diritto sulla personale sessualità - anche nella sua dimensione procreativa - si esprime un diritto sul mezzo specifico per il quale uomo e donna compiono il desiderio coniugale di unirsi in una singolare unione delle loro persone.

            Talvolta si suggerisce che l'unione tra gli sposi è piuttosto di spirito che di corpo. Occorre commentare a proposito che ambedue le realtà dovrebbero essere coinvolte in questa unione coniugale. Non si deve però esasperare il contrasto fra l'"una caro" e l'"unus spiritus". Tutte e due sono espressioni metaforiche, giacché una reale unione - di corpi o di spiriti - non si realizza. Invece, si può effettuare un'unione della procreatività complementare sessuale (unione che ha una incarnazione fisico-reale nel figlio). E sarà evidente che, mentre la sessualità è un affare dello spirito non meno che del corpo, il dono e l'unione della sessualità corporale è più "impegnativo" che un desiderio d'unione che rimanga su un livello puramente spirituale, senza "incarnarsi".

 

NOTE

[1] inteso come "apertura-alla-vita" - caratteristica o proprietà del matrimonio - e non necessariamente come effettiva procreazione.

[2] La ricerca psichiatrica rileva come la scelta di convivere, invece di sposarsi, facilmente induce ad una ansia e insicurezza radicate: cf. Nadelson-Notman: "To Marry or Not to Marry: a Choice": American Journal of Psychiatry, 138 (1981), p. 1354.

[3] cfr. Sentenza, 8 febbr. 1990, coram Burke, in Monitor Ecclesiasticus, vol. CXV (1990-IV), pp. 502-520; e il saggio dell'autore, "Il Contenuto del «bonum fidei», in Apollinaris 64 (1991), pp. 649-666.

[4] "... negli insegnamenti del Concilio la totalità personale di quanto viene reciproca­mente donato non può intendersi altro che la sessualità": P.A. Bonnet: L'Essenza del Matrimonio Canonico, Cedam, 1976, p. 157.

[5] cfr. U. Navarrete: "Structura iuridica matrimonii secundum Concilium Vaticanum II", Periodica 57 (1968), pp. 135-137.

[6] "non est directe consensus in virum, sed in coniunctionem ad virum, ex parte uxoris: et similiter, ex parte viri, consensus in coniunctionem ad uxorem": Suppl., q. 45, art. 1.

[7] Come è ovvio, molti atti danno espressione alla relazione maritale. Ma, come abbiamo già visto, l'unione fra gli sposi risulta così singolarmente espressa nel rapporto sessuale fra i coniugi, che quest'atto merita di chiamarsi proprio l'atto coniugale.

[8] Come si vede, la contraccezione distrugge la coniugalità in un modo molto più radicale rispetto all'esclusione dell'unità o della permanenza. E' precisamente a cagione dell'importanza dell'"intentio prolis" (oggi diremmo "l'apertura-alla-prole") che S. Tomasso afferma che il «bonum prolis» è "essentialissimum" fra i «bona» del matrimonio (Suppl. q. 49, art. 3).

[9] Questo è applicabile, a fortiori, a una relazione fra omosessuali. L'idea di un "matrimonio" omosessuale non ha nessun senso. La "copula omosessuale" rappresenta un maggiore diniego del significato della sessualità, perfino più della stessa contraccezione. L'atto fisico non contiene ne esprime nessun istinto o aspirazione coniugale, ed è infatti caratterizzato da una radicale incapacità di significare o di realizzare un'auto-donazione che possa considerarsi matrimoniale. Porta con sé un (ab-) uso delle facoltà corporee tale da contraddire l'essenziale significato sponsale del corpo.

[10] Talvolta si propone la questione se un matrimonio è consumato per mezzo di una copula "per se apta...", ma accompa­gnata da una intenzione permanente di abortire, o di frustrare in altro modo i possibili effetti della copula. La contestazione negativa si impone, come è palese. Infatti il problema viene mal formulato. In realtà, non entra la questione della consumazione perché il matrimonio sarebbe invalido ob exclusum boni prolis. Non ha senso discutere la consumazione o meno di un matrimonio non-esistente.