02. La "traditio suiipsius", oggetto del consenso matrimoniale?

            E' evidente che il matrimonio può spiegarsi soltanto in funzione dell'attrazione che esiste tra i sessi: tra l'uomo e la donna.  E' altrettanto evidente però che questa attrazione opera ad un livello superiore rispetto alla attrazione sessuale semplicemente animale (cfr. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 (1979), p. 1214).  Gli animali in effetti si accoppiano; ma non si sposano.  Soltanto gli uomini si sposano.  Gli animali formano una coppia casuale e temporanea; gli esseri umani invece tendono a formare una unione di due, permanente ed esclusiva.

            Non è soltanto l'istinto sessuale, bensì quello coniugale, che porta uomo e donna al matrimonio.  "E' necessario ripetere il monito di S. Tommaso secondo il quale l'uomo per natura e inclinato al matrimonio: cosa che non va interpretata soltanto in relazione al perseguimento della copula carnale, ma anche nel senso di condurre una comunione di vita così che è stata istituita per volontà divina, e avendo Dio creato l'uomo maschio e femmina.  Infatti l'essere umano non possiede solo l'istinto sessuale, ma e stato arricchito anche da tutte quelle virtù che servono a rinforzare la convivenza coniugale" [1].  Oggi più che mai, studiando il matrimonio, sembra importante non dimenticare questo istinto coniugale.  Altrimenti il matrimonio non corrispondebbe in sé a nessuna esigenza o tendenza della natura umana, rappresentando soltanto qualcosa di artificioso, riducendosi ad una mera formalizzazione - convenzionale - di una convivenza sessuale che alcuni vorranno, mentre altri preferiranno omettere.

              L'attrazione fra uomo e donna può essere meramente fisica; ma, se si parla dell'attrazione che attua l'istinto coniugale - che tende verso il matrimonio - , non sarebbe logico che fosse o rimanesse soltanto a questo livello.  Normalmente sorge una relazione anche e soprattutto affettiva.  E questa relazione, se si sviluppa e cresce, che diventa quella di due persone che si sentono innamorate.  Probabilmente questa crescita del sentimento le porterà a fidanzarsi.  Ma fino a un momento decisivo, possono sciogliere questa relazione.  Il momento decisivo è rappresentato dallo scambio reciproco del consenso matrimoniale.

            Consentendo a sposarsi, i fidanzati introducono un nuovo elemento nella loro relazione: la giustizia.  Il legame anteriore - di attrazione, di affetto, di amore (o soltanto di mero interesse) - diventa un impegno anche giuridico.  In altre parole, consentendo ad essere marito e moglie, si conferiscono vicendevolmente diritti e obblighi, che hanno natura permanente e sono dovuti secondo giustizia.  Il diritto canonico presta speciale attenzione a questi diritti ed obblighi, e all'atto del consenso dal quale derivano.

            "Matrimonium facit partium consensus" (il consenso delle parti crea il matrimonio): così dice il canone 1057, § 1, alla stregua del c. 1081 del Codice anteriore.  Questo antichissimo principio [2] fu sottoposto ad alcuni interrogativi (non troppo profondi, a dire la verità), nel periodo immediatamente posteriore al Concilio Vaticano II.  La Segnatura Apostolica, in una Sentenza del 29 novembre del 1975, prese in considerazione le difficoltà sollevate e, respingendole, ribadì che il principio rimane "principium fundamentale iuris naturale" (Periodica vol. 66 (1977), 301).

            Il nuovo Codice, tramite la semplice riaffermazione del principio, sembrava metter fine a ciò che era rimasto di quel breve dibattito.  Giacché il matrimonio colloca l'uomo e la donna in una relazione interpersonale, permanente, e totalmente singolare, è chiaro che nient'altro che il libero consenso di ciascuno dei due è sufficiente per constituirlo.  E così lo stesso canone 1057 afferma, a continuazione, che questo atto "non può essere supplito da nessuna potestà umana".

            Il consenso pertanto, che contiene l'efficacia causale dello stesso patto coniugale, sta al centro di qualsiasi considerazione giuridica sul matrimonio.  Nell'esa­minarlo, si può considerare:

            a) il soggetto del consenso: i. e. la persona che consente, con particolare riferimento alla sua capacità, conoscenza, libertà, ecc.  Occorre che la persona voglia liberamente consentire, e che sia capace di farlo.

            b) l'oggetto del consenso: i. e. quello a cui la persona consente.  Occorre che ciò a cui si consente sia veramente il matrimonio.

            E' quest'ultimo aspetto che qui c'interessa.  Se il matrimonio è un libero accordo tra un uomo e una donna, quale è l'oggetto di questo accordo?

            A che cosa consentono i coniugi?  Ovviamente consentono a sposarsi, ed a sposare una persona in particolare.  "Consento a contrarre matrimonio con questa persona in concreto.  Consento a una relazione che è il matrimonio".  In questo senso, l'oggetto del consenso matrimoniale è il matrimonio stesso.

            S. Tommaso avvia infatti la sua analisi del consenso affermando che "consensus qui matrimonium facit, est consensus in matrimonium" (Suppl., q. 48, art. 1).  Tuttavia, dopo questa affermazione di ciò che è ovvio, l'Aquinate - secondo lo stile che lo contraddistingue - approfondisce la sua analisi.  Anche per noi risulta conveniente tentare un approfondimento.  In fin dei conti, affermare che l'oggetto del consenso matrimoniale è lo stesso matrimonio non risulta molto istruttivo dal punto di vista giuridico, poiché da questa prospettiva si è portati a spingere l'analisi dell'impegno matrimoniale verso un aspetto più prettamente tecnico, che si sostanzia nel precisare quali siano i diritti e gli obblighi specifici - e soprattutto essenziali - ai quali il consenso dà luogo.

            Come è evidente, si tratta di una questione di massima rilevanza, tanto ecclesiale quanto pastorale, e non di mero interesse specula­tivo.  Il matrimonio oltre tutto riveste una grandissima importanza per il bene degli individui e per quello della società.  Le persone che pensano di sposarsi devono conoscere e soppesare i diritti e gli obblighi che esso comporta, per poterli accettare come essenzialmente integranti il matrimonio stesso; o per scegliere di non sposarsi qualora non siano di­sposti ad accettare qualche obbligo essenziale, o a conferire qualche diritto essenziale.  Se realizzano una celebra­zione del matrimonio, escludendone un elemento essenziale, eccoci evidentemente di fronte a un caso di nullità.

            Dunque, lo scopo del nostro studio è determinare: quando una persona si sposa, a che cosa si impegna?  Quale è l'oggetto del suo consenso matrimoniale, considerato soprattutto dalla prospettiva dei diritti e doveri essenziali, cioè giuridicamente esigibili, che ne derivano?

1917 e 1983

            Le differenze fra il Codice pio-benedettino e quello del 1983 sono particolarmente notevoli nell'area del nostro studio (cfr. Sentenza c. Burke: 3 marzo 1994, nn. 3ss).  Il canone 1057 del nuovo Codice corrisponde al canone 1081 del Codice anteriore.  Il primo paragrafo, in ambedue i casi, è: "L'atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti manifestato legittimamente tra persone giuridicamente abili; esso non può essere supplito da nessuna potestà umana" [3].  Essendo identico questo primo paragrafo, il paragrafo secondo, nella sua nuova versione, costituisce - almeno così sembra - uno dei più importanti cambiamenti nell'intero diritto matrimoniale.

            Il Codice anteriore era concreto e conciso: il consenso matrimoniale coinvolge, soprattutto, lo scambio di un diritto particolare.  Nel c. 1081; § 2, si definiva infatti il consenso come: "un atto di volontà col quale ambedue le parti concedono e accettano il diritto sul corpo, perpetuo ed esclusivo, in ordine agli atti per sé idonei alla generazione" [4].

            Il canone 1057, 2 del Codice attuale precisa l'oggetto del consenso matrimoniale in termini molto diversi: "Il consenso matrimoniale è l'atto della volontà con cui l'uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio" [5].

            Il matrimonio dunque appare come conseguenza del reciproco dono di sé, che sarebbe l'oggetto del consenso matrimoniale.

            Perciò, mentre nel Codice del '17 il consenso implicava una "traditio iuris", la concessione di uno "ius" essenziale: lo "ius in corpus", nel Codice del 1983 invece il consenso coinvolge - così appare - la "traditio suiipsius".  L'oggetto adesso è il dono di se stesso.  Così ci troviamo di fronte a due espressioni dell'oggetto del consenso matrimoniale che appaiono decisamente differenti, tanto che risulta difficile scoprire qualsiasi relazione, qualsiasi connessione logica, o qualsiasi evidente punto di sviluppo tra le due.  Comunque, come sappiamo, la scienza raramente procede in base a una rottura totale con il passato.  Il vero progresso - nella scienza canonistica non meno che nelle altre - di solito mostra molti punti di continuità con ciò che preesisteva.  Sarebbe prudente non dimenticarlo proseguendo nel nostro studio.

            Possiamo fare qualche commento su queste due formulazioni differenti.  In quanto oggetto del consenso matrimoniale, lo "ius in corpus" possedeva un contenuto giuridico ben definito, mentre i diritti e gli obblighi che coinvolgeva erano chiari.  Questo era logico, essendo il risultato naturale di decenni di attenta considerazione nella dottrina e nella giurisprudenza.

            Il concetto giuridico di questo "ius" era pertanto preciso; si può sostenere però che era anche molto povero.  Sembrava infatti offrire una visione esclusivamente corporale e biologica della sessualità coniugale.  L'oggetto del consenso si presentava come ridotto al diritto all'atto fisico coniugale.

            La "traditio suiipsius" invece esprime con maggiore ricchezza concettuale ciò che è il patto coniugale.  L'antica formula "oggettivava" l'altro sposo; dava cioè l'impressione che soltanto il suo corpo era l'oggetto del consenso.  La nuova formula indica che è nelle loro stesse persone che i coniugi si compromettono.  La formula, che si mantiene saldamente nella linea del personalismo del Vaticano II, sembra prospettare una visione più vicina alla realtà umana del matrimonio, e concretamente al desiderio di auto-donazione caratteristico dell'istinto coniugale.  Comunque né il preciso significato né l'esatto contenuto giuridico di questa formula­zione risultano immediatamente chiari; cosa per di più abbastanza logica giacché ci troviamo ancora allo stadio iniziale dell'analisi che si impone.

            Non causa nessuna sorpresa pertanto scoprire che la nuova formula ha provocato diverse reazioni e critiche.  Per quanto riguarda la giurisprudenza rotale, alcuni giudici, dando talvolta perfino l'impressione di non voler vedere nessuna differenza sostanziale nella nuova formula, continuano a definire l'oggetto del consenso nei termini del c. 1081, § 2 del Codice del 1917.  Leggiamo, per esempio: "Il consenso matrimoniale e l'atto di volontà con il quale i due contraenti reciprocamente danno e accettano lo ius in corpus, perpetuo ed esclusivo, in relazione agli atti per se idonei alla generazione della prole" [6].  Una Sentenza coram Huot del 2 maggio 1985 insiste che la formula del can. 1081, § 2 nel vecchio Codice "viene sostanzialmente riassunta nel nuovo Codice" [7].  Altra decisione, coram Agustoni, del 15 ottobre 1985, citando la vecchia formula, fa il seguente commento: "Il Nuovo Codice ha modificato la dizione, ma non ha mutato l'oggetto del consenso, né avrebbe potuto in quanto si parla di un patto fondato sul diritto naturale" [8].  Nella stessa linea fondamentale, pure con qualche arrichimento, sembra essere il principio offerto da una sentenza più recente: "L'oggetto formale e sostanziale del consenso matrimoniale è soprattutto e necessariamente il diritto sul corpo perpetuo ed esclusivo in rapporto agli atti per se idonei alla generazione della prole, il diritto al consorzio e alla comunione di tutta la vita, dai quali scaturisce lo stato coniugale e ne consegue il bene dei coniugi, fatte salve la fedeltà e la perpetuità del vincolo" [9].

            Altri giudici si schierano su posizioni opposte.  C'è chi sembra rifiutare totalmente il concetto dell'auto-donazione, come giuridicamente carente di significato: "Come a tutti senza dubbio risulta chiaro, giuridicamente nessuno può disporre fino a tanto di sé da donarsi a qualcuno e tanto meno può giuridicamente accettare qualcuno per se" [10].  C'è chi non sembra attribuire alcun apparente limite allo scopo di questa donazione: "Il matrimonio è senza dubbio una mutua, piena e perfetta donazione dei contraenti" [11]; ancora ci si dice che il consenso rechiede "la donazione delle persone in quanto la loro intima struttura e verità interiore"... [chi consente al matrimonio] "deve donarsi pienamente e completamente all'altro coniuge [12].

            Tali estremi vanno evitati da un'altra opinione che si potrebbe dire intermedia.  Ritiene che il can. 1057, § 2 propone effettivamente un nuovo oggetto del consenso, che colloca semplicemente nella "costituzione del matrimonio": "Il consenso matrimoniale è uno specifico atto di volontà, il quale contiene un oggetto concreto, cioè: «L'uomo e la donna costituiscono fra loro il consorzio di tutta la vita, per sua indole naturale ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole» (can. 1055, § 1), questo è il matrimonio" [13]; cfr. "Oggetto del consenso, che è la costituzione del matrimonio (cfr. can. 1057, § 2)" [14].  Questa impostazione, collocando l'oggetto del consenso non in ciò che gli sposi scambiano fra loro, bensì nella finalità di questo interscambio - il "consortium totius vitae" del c. 1055, § 1 - sembra omettere l'analisi del "se tradere".

            A nostro parere, siffatti apprezzamenti si sfociano praticamente in una espressione tautologica ("l'oggetto del consenso matrimoniale è la costituzione del matrimonio"), che non sembra appunto approfondire la questione.  Dedurre l'oggetto del consenso, in definitiva, dal c. 1055, § 1, anzichè da un esame più attento del c. 1057, § 2, potrebbe suggerire una certa riluttanza ad affrontare l'analisi giuridico-personalista che la formulazione del c. 1057, § 2 sembra logicamente chiedere.  Sembra invece imprescindibile affrontare tale analisi.  Seguendo le orme di San Tommaso che prima afferma che 'il consenso matrimoniale significa consentire al matrimonio', e poi sviluppa un'analisi più precisa, anche noi dobbiamo passare al di là di ciò che è generale e ovvio fino a raggiungere il contenuto più sottile ma essenziale, che sta al di sotto.

            Per stabilire il contenuto dell'espressione "sese mutuo tradunt et accipiunt", sarà con­veniente rivolgersi alla Costituzione conciliare Gaudium et Spes, n. 48, da dove si estrae la frase: "è dall'atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce... l'istituto (del matrimonio) che ha stabilità per ordinamento divino" [15].  Va tenuto presente che la Gaudium et Spes è una costituzione pastorale, e non un documento giuridico [16], e senza dubbio i Padri conciliari (almeno quelli che erano canonisti) si resero conto che ci sarebbe voluto del tempo prima che la frase "sese tradunt" - piena di senso personalistico - potesse assumere un preciso valore giuridico.  Comunque, in base al testo conciliare, sembra che la risposta semplice e diretta alla questione di quale sia l'oggetto del consenso matrimoniale inteso in tale formulazione, debba essere: i coniugi stessi [17]; e che, per quanto riguarda i diritti/doveri derivanti dal consenso così inteso, ognuno dei coniugi ha il diritto di ricevere il dono di sé dell'altro e il dovere di fare il reciproco dono di sé all'altro.

            Tuttavia si può obiettare - non senza ragione - che pure con questa semplice risposta si afferma ciò che risulta ovvio, senza fare nessun autentico apporto alla nostra indagine.  In fin dei conti, si può domandare: il concetto di "donum suiipsius", è suscettibile di un'analisi adeguata ed utile per la prassi canonica?  Tale concetto ci permette di specificare - in termini giuridici - il contenuto dei diritti e doveri coniugali?  Il problema è tutto qui.

            Il fatto è che la nozione di "dono di sé" o di "mutua donazione delle persone", non è realmente così semplice come può apparire a prima vista.  E' vero che la giurisprudenza talvolta sembra proporla senza particolare riserva.  Così, per es. leggiamo: "Affinché questo consenso abbia un suo oggetto, è necessario intendere e volere il consorzio di vita... fra maschio e femmina...  Tale consorzio suppone una mutua donazione fra maschio e femmina.  Questa donazione si realizza attraverso il consenso" [18].  "La donazione e l'accettazione, che i coniugi fanno di se stessi «come mutua donazione di due persone» ha il fine di completare il consenso coniugale" [19].  "Nella Gaudium et spes il matrimonio è la donazione delle persone più che un dare diritti" [20].  "Ne dobbiamo dimenticare che, secondo quanto è nel Concilio Vaticano II Cost. Gaudium et spes, che il matrimonio, più che una donazione e accettazione di diritti costituisce la mutua donazione di due persone" [21].  Il consenso matrimoniale "è l'atto di volontà della mutua donazione delle persone (can. 1057, § 2)" [22].

            Comunque, deve rimanere chiaro che la "traditio suiipsius" o la "donatio personarum" sono concetti che non possono essere intesi in un senso totalmente letterale.  Una Sentenza coram Pinto, del 31 maggio 1985, insiste su questo punto.  Con riferimento alla formula di Gaudium et Spes - "sese mutuo tradunt at accipiunt" - già incorporata nel can. 1057, §2, osserva: "La cui formula... di nessun modo implica che l'oggetto formale e sostanziale del consenso non siano diritti e doveri matrimoniali essenziali donati e accettati, ma piuttosto le stesse persone...  Da quanto detto appare che non possiamo concordare con la sentenza appellata quando afferma che l'oggetto del consenso è stato modificato dal momento che (oggetto) non sono diritti e doveri ma le stesse persone dei coniugi" [23].  In precedenza, già Mons. Anné era sembrato aprire una prospettiva interessante nel scrivere: "... la mutua donazione delle persone» e locuzioni simili, che si incontrano sia nella Cost. Gaudium et spes, sia nella Lett. Enciclica Humanae vitae, siano più correttamente interpretate come «donazione ed accettazione di diritto al»... «consorzio di vita»" [24].  Manca invece l'analisi del contenuto essenziale di questo «consortium vitae».

            La ragione per la quale queste espressioni non vanno intesi in un senso letterale è chiara.  Un vero dono implica il transferimento, dal donante al ricevente del dominio, cioè della proprietà, di ciò che si dona.  Ma è ovvio che nessuno sposo trasferisce la proprietà della sua persona all'altro [25].  Del resto un tale trasferimento sarebbe impossibile perché nessuno è "proprietario" assoluto della sua persona o del suo "io".  Parimenti lo sposo che riceve il dono coniugale non diventa proprietario dell'"io" dell'altro, con il diritto di disporre di esso a piacimento.  Nessun coniuge possiede l'altro in proprietà: né l'"io" dell'altro, e neppure il corpo dell'altro [26].

            La giurisprudenza, d'accordo con la legge in vigore fino al 1983, badava di non parlare di una "traditio corporis", bensì di una "traditio iuris", concretamente di uno "ius in corpus".  Il moralista D'Annibale ne manifestò la ragione con chiarezza: "ciò che si acquista per il matrimonio non è il corpo dell'altro coniuge, nel senso di acquisirne il dominio, ma soltanto un diritto di usarlo" [27].  S. Tommaso afferma: "L'uomo per mezzo del matrimonio non dà alla donna una potestà assoluta sul proprio corpo, ma solo nella misura in cui è richiesto dal matrimonio" [28].

            Per queste ragioni, si corre il pericolo di mancare alla dovuta esattezza giuridica nel affermare, per es: "Il vero amore coniugale è la totale e perpetua donazione dell'anima e del corpo..." [29].  Se attraverso il matrimonio un coniuge non diventa proprie­tario del corpo dell'altro, ancora meno acquista la proprietà della persona dell'altro [30].  Sembra pertanto che, in termini giuridici, la nozione della "traditio personarum" vada piuttosto raffinata nel senso del trasferimento di uno "ius in personam", di un diritto, cioè, su un qualche elemento personale, così proprio dell'individuo, così "rappresentativo" di lui o di lei, che la sua "traditio/acce­ptatio" costituisca il dono coniugale di sé, misurabile in parametri giuridici [31].

            Urbano Navarrette afferma, "la proposizione "coniuges sese mutuo tradunt atque accipiunt", la si può accettare soltanto se riferita ad una dona­zione-acettazione specificata, giacché ripugna all'autonomia e dignità della persona umana l'essere oggetto di una donazione semplicemente tale.  La donazione della propria persona riguarda necessaria­mente soltanto l'attività della persona, non però la persona stessa.  E nemmeno tutta l'attività può essere oggetto di donazione, giacché ci sono zone della propria attività assolu­tamente intransferibili, ad esempio, l'attività riguardante i doveri religiosi.  L'oggetto della mutua donazione si limita necessariamente a certe azioni e prestazioni della propria persona, sebbene trattandosi della donazione propria del patto coniugale, queste azioni e prestazioni tocchino il più intimo e vitale della persona ed impegnino in certo modo tutta la vita dei coniugi" ("Consenso Matrimoniale e Amore Coniugale", in AA.VV. L'Amore Coniugale, Lib. Ed. Vaticana, 1971, p. 211).  Perciò non possiamo accogliere la formula "ius ad personam coniugis", proposta da S. Lener ("L'Oggetto del Consenso e l'Amore nel Matrimonio"; in op. cit. L'Amore Coniugale, p. 257).  Si tratta, insistiamo, in uno "ius in personam" [32].

            Quale sarebbe questo "ius in personam"?  Ecco l'indagine che dobbiamo affrontare.  A mio avviso, proseguendo su questa linea di ricerca, possiamo raggiungere una comprensione ed espressione dell'oggetto del consenso matrimoniale fermamente radicate nel personalismo coniugale del Concilio Vaticano II, e allo stesso tempo contraddistinta da forti vincoli di continuità con i punti principali del pensiero tradizionale sul tema.

            Con l'intento di precisare ciò che comprende questo diritto, occorre mantenere idee chiare tanto sulla natura di un dono quanto sul senso della coniugalità.  Un dono implica la donazione definitiva e permanente di qualcosa, che comprende pure la concessione di diritti di proprietà.  Mancando il passaggio del diritto di proprietà, si tratterebbe di un semplice prestito, anziché di un dono.

            La coniugalità implica una relazione tra un uomo e una donna che non soltanto è permanente, bensì pure esclusiva, sulla base di "uno-a-una" (non è possibile fare lo stesso dono a parecchie persone allo stesso tempo).  Comunque è chiaro che due persone possono costituire una relazione esclusiva e permanente (p. es. di amicizia) senza che sia coniugale.  La coniugalità richiede un altro elemento specifico, che è quello della sessualità.  Il dono coniugale di sé deve avere l'effetto di stabilire una relazione esclusiva, permanente e sessuale.  Il nostro elenco non è tuttavia completo; occorre aggiungere ancora due elementi.  La relazione coniugale deve essere aperta alle possibilità procreative della sessualità; e (proprio di conseguenza) deve essere eterosessuale, cioè fra un uomo e una donna.

            Questi due ultimi punti rivestono una speciale importanza oggi, considerate le rivendicazioni alla legittimità tanto di una coniugalità non-procreativa, quanto (più recentemente) dei "matrimonii" omosessuali.  Va notato che entrambe le rivendicazioni sono presentate in nome di una comprensione "personalistica" della sessualità; d'altronde, c'è una interconnesione fra le due.  Se è legittimo l'argomento che una vera relazione coniugale può esistere fra un uomo e una donna, senza nessun necessario riferimento all'aspetto procreativo della loro complementarità sessuale, difficilmente si vede quali obiezioni convincenti si possano offrire all'argomento che un'attiva relazione omosessuale può essere stabilita su una valida base "matrimoniale", implicando cioè un simile "dono di sé"

            Pertanto sembra che il primo passo nell'analizzare l'auto-donazione coniugale - con lo scopo di determinare il suo oggetto e i diritti/obblighi che ne derivano - sia esaminare la relazione fra la coniugalità e la procreatività; fra il dono coniugale di sé e la sessualità aperta-alla-vita.

 

NOTE

[1] "Repetendum est monitum divi Thomae iuxta quod homo natura inclinatur ad matrimonium: quod intellegendum non est tantum relate ad copulam carnalem peragendam, sed etiam ad illam ducendam vitam communem quae ex divina ordinatione instituitur, cum Deus hominem fecerit masculum et feminam.  Homo enim non sexuali tantum instinctu, sed illis quoque ornatur virtutibus quibus coniugalem convictum confortare valet": c. Agustoni, 27 maggio 1980: R.R.Dec., vol. 72, p. 404; cfr. c. Burke, 19 aprile 1988: vol. 80, p. 251, n. 2; 5 dic. 1989: vol. 81, p. 744, n. 3.

[2] Petrus Lombardus: Sententiarum lib. IV, dist. 27, n. 3; S. Thomas: Sent. IV, dist. 27, q. 1, art. 2; dist. 28, a. 4, sol. 1; Suppl., q. 45, art. 1; q. 48, art. 1; S. Bonaventura: In IV, d. 28, a. unicus, q. 6.; etc.

[3] Matrimonium facit partium consensus inter personas iure habiles legitime manifestatus, qui nulla humana potestate suppleri valet.

[4] "actus voluntatis quo utraque pars tradit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actos per se aptos ad prolis generationem".

[5] "actus voluntatis, quo vir et mulier foedere irrevocabili sese mutuo tradunt et accipiunt ad constituendum matrimonium".

[6] "Matrimonialis consensus est actus voluntatis quo contrahentes mutuo sibi tradunt et accipiunt ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem": c. Fiore, 4 dicembre 1984, p. 593; cfr. c. Huot, 26 giugno 1984, ib. vol. 76, p. 433; 26 luglio 1984, ib. p. 500; Decreto c. Masala, 5 marzo 1985, n. 5; c. Funghini, 17 aprile 1991, vol. 83, p. 249.

[7] "quod novus Codex substantialiter reassumit in can. 1057, § 2": vol. 77, p. 225.

[8] "Novus Codex modum dicendi contraxit, sed obiectum consensus non mutavit, nec mutare potuisset cum agatur de foedere in iure naturali fundato": vol. 77, p. 437; cfr. c. Di Felice, 8 novembre 1986, vol. 78, p. 599.

[9] "Obiectum formale et substantiale matrimonialis consensus est potissimum et necessario ius in corpus perpetuum et exclusivum in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem, ius ad totius vitae consortium et communionem, quibus efficitur coniugalis status et bonum coniugum consequitur, fide et vinculi perpetuitate servatis": c. Funghini, 8 novembre 1989: vol. 81, p. 659

[10] "Prout omnibus sane liquet, iuridice nemo eatenus de se disponit ut possit iuridice se tradere alteri tantoque minus potest quis alterum sibi iuridice acceptare": c. Egan, 29 marzo 1984: vol. 76, p. 205.

[11] "Matrimonium est profecto mutua, plena ac perfecta contrahentium donatio": c. Bruno, 17 decembre 1982: vol. 74, p. 648.

[12] "donationem personarum quoad earum intimam structuram et veritatem interiorem..." [qui matrimonio consensit] "plene et complete se tradere debet alteri coniugi": c. Di Felice, 14 gennaio 1978: vol. 70, p. 17.

[13] "consensus matrimonialis est specificus actus positivus voluntatis, qui fertur in obiectum concretum, idest: «Vir et mulier inter se totius vitae consortium constituunt, indole sua naturali ad bonum coniugum atque prolis generationem et educationem ordinatum» (can. 1055, § 1), hoc est matrimonium": c. de Lanversin, 28 febbraio 1984, vol. 76, p. 146, n. 6

[14] "consensus obiectum, quod est constituendum matrimonium (cfr. can. 1057, § 2)": c. Pompedda, 4 decembre 1984, ib. p. 573.

[15] "...actu humano, quo coniu­ges sese mutuo tradunt atque accipiunt, institutum ordinatione divina firmum oritur". cfr. n. 49: "...mutuum sui ipsius donum".

[16] cfr. Sent. Segnatura Apostolica del 29 novembre, 1975, coram Staffa (Periodica, 1977, 1-2, 305).

[17] Nella stessa Sentenza appena citata, la Segnatura Apostolica, con riferimento a GS, n. 48, commenta: "obiectum consensus declaratur esse coniuges ipsos": ib., 306.

[18] "Ut hic consensus suum enim habeat obiectum, intelligat velitque oporteat consortium vitae... inter marem et feminam...  Quod consortium supponit mutuam donationem maris et feminae.  Haec autem donatio fit per consensum": c. Fagiolo, 30 ottobre 1970: vol. 62, p. 984.

[19] "Traditio et acceptatio, quam coniuges de seipsis faciunt «utpote mutua duarum personarum donatio» ad consensum coniugalem perficiendum": c. Di Felice, 14 gennaio 1978: vol. 70, p. 17.

[20] "In Gaudium et spes matrimonium est traditio personarum plus quam deditio iurium": c. Raad, 14 aprile 1975: vol. 67, p. 240.

[21] "Neque obliviscendum est iuxta Concilii Vaticani II Const. Gaudium et spes matrimonium, potius quam donationem et acceptationem iurium, constituere donationem mutuam personarum contrahentium": c. Pompedda, 3 luglio 1979: vol. 71, p. 388

[22] [consensus matrimonialis] "qui est actus voluntatis mutuae donationis personarum (can. 1057, § 2)": c. Stankiewicz, 19 maggio 1988: vol. 80, p. 328).

[23] "quae formula... minime implicat consensus obiectum formale et essentiale iam non esse iura et officia matrimonialia essentialia tradita et accepta, sed potius personas ipsas...  Ex dictis apparet nos concordare non posse cum sententia appellata cum affirmat consensus obiectum mutatum fuisse quatenus iam non essent iura et oficia, sed coniugum personae ipsae": vol. 77, p. 281.

[24] "...«mutua personarum donatio» similesque locutiones, quae occurrunt sive in Const. Gaudium et spes, sive in Litt. Encycl. Humanae vitae, rectius interpretantur uti «traditio et acceptatio iuris ad»... «vitae consortium»": d. 26 aprilis 1977: R.R.Dec., vol. 69, p. 222

[25] Giovanni Paolo II parla dell'impossibilità "di appropriarsi ed impossessarsi della persona da parte dell'altra"... cfr. Uomo e Donna lo creò: catechesi sull'amore umano, Libr. Ed. Vaticana, 1987, p. 431.

[26] "locutiones "traditio suiipsius" vel "donatio personarum" in sensu omnino litterali minime intellegi possunt. Ad veram donationem efficiendam, oportet ut dominium rei donatae, a persona donante in personam accipientem, transferatur.  In consensu vero matrimoniali praebendo, unusquisque coniux, uti patet, dominium propriae personae in alterum non transfert.  Talis enimvero translatio impossibilis erit, ex eo quod nemo proprie est "dominus" suiipsius, nempe dominus propriae "personae".  Pari modo, coniux qui coniugalem donationem recipit non fit dominus alterius personae, cum iure disponendi de ea ad libitum.  Coniux non est alterius coniugis dominus; nec dominus "personae" alterius, nec etiam corporis alterius": c. Burke, 11 aprile, 1988: Vol. 80, p. 214.

[27] "per matrimonium, non corpus alterius acquiritur, quod esset dominium acquirere, sed ius eius utendi" (Summ. Theol. Mor., Roma, 1908, vol. III, p. 368

[28] "vir per matrimonium non dat sui corporis potestatem uxori quantum ad omnia, sed solum quantum ad illa quae matrimonium requirit": Suppl., q. 65, art. 2 ad 6.

[29] "verus amor coniugalis [est] totalis cum perpetua donatione animae et corporis...": c. Bruno, dec. 19 luglio, 1991: vol. 83, p. 466.

[30] cfr. S. Tommaso: "unus coniugum non obligatur alteri quasi possessio eius... sed per modum societatis cuiusdam". Suppl., q. 59, art. 4 ad 1).

[31] "Si autem coniux per matrimonium corporis alterius non fit dominus, adhuc minus alterius personae dominium acquirit. Rationabiliter igitur concludere possumus quod expolitior "personarum traditionis" notio in traditionem alicuius "iuris in personam" iuridice resolvi oportet; ius scilicet traditur in quoddam elementum personae ita proprium ut "repraesentati­vum" ipsius aliquo modo considerari possit": c. Burke, Sent. cit. 11 aprile, 1988: ib.

[32] Molteplici sono le questioni che insorgono, nella considerazione del matrimonio, al voler equilibrare "la totalità della persona e la dualità della relazione coniugale"; cfr. Rinaldo Bertolino: Matrimonio Canonico e 'Bonum Coniugum' (Giappichelli, Torino, 1995), pp. 103ss, dove il lettore può trovare una finissima presentazione in merito.