Questo secolo è caratterizzata dalla tendenza diffusa di mettere in contraopposizione l'aspetto procreativo e quello personalistico del matrimonio. Molte persone vedono infatti due modi assai differenti di impostazione del matrimonio, che, tra l'altro, non hanno niente o quasi niente in comune. Una comprensione procreativa, da una parte, datata e soprapassata; e, dall'altra, una nuova o rinnovata comprensione personalista. Da circa settanta anni e oltre è in corso un intenso dibattito intorno a questo tema, ed è importante aver una idea chiara di ciò che è in gioco.
Da una parte, si assume il matrimonio come un'istituzione primariamente ed essenzialmente orientata verso la procreazione. Questa è la visione che comunemente è stata definita "tradizionale" (o anche "istituzionale"). D'altra parte, lo si contempla come alleanza d'amore fra l'uomo e la donna, nella quale il matrimonio è orientato ugualmente, almeno, verso l'amore o verso la "realizzazione" personale dei coniugi.
E' facile - ma non è esatto - fare un quadro distinguendo come segue le parti e i punti di vista in questo dibattito:
- visione procreativa o istituzionale; la procreazione, come fine primario del matrimonio;
- visione personalistica; "realizzazione" personale dei coniugi come fine equipollente, o perfino più importante.
Consideriamo queste due visioni - apparentemente opposte - del matrimonio, non tanto per determinare quale sia più corretta, bensì per vedere fino a che punto è possibile armonizzarle e raggiungere una sintesi fra loro.
La questione della gerarchia dei fini
La dottrina cattolica, fino ai nostri tempi, ha sempre insegnato che il matrimonio ha come fine la procreazione, senza però escludere altri fini. Questa dottrina si è concretizzata ancora più con la Codificazione del Diritto Canonico del 1917, ove si stabilisce una netta gerarchia di fini. Infatti, nel canone 1013, § 1 si afferma: "il fine primario del matrimonio è la procreazione e l'educazione della prole; il fine secondario è l'aiuto mutuo e il rimedio della concupiscenza" [1]. E' da notare (benché possa sorprendere) che il Codice pio-benedettino è il primo documento ufficiale della Chiesa in cui, usando i termini «primario» e «secondario», si stabilisce una gerarchia tra i fini [2]. E' proprio questa dottrina della gerarchia dei fini che è stata oggetto di critica da parte dei fautori dell'emergente personalismo, degli anni 1920 e 1930, che voleva dare equipollenza o priorità all'amore coniugale.
Nella Enciclica Casti connubii di Pio XI, dell'anno 1931, si raccoglie l'idea di fine primario-secondario, benché con altre precisazioni che vedremo più oltre. Il pontificato di Pio XII si caratterizzò per la costante difesa di questa dottrina. Nel 1941 Papa Pacelli parló alla Sacra Rota della subordinazione del fine secondario al principale (AAS 33 (1941), 423). E, in una celebre Allocuzione del 1951 alle Ostetriche Italiane, ebbe occasione di ripeterlo, con una più esplicita analisi e critica di determinate tesi personalistiche:
"I "valori della persona" e la necessità di rispettarli è un tema che da due decenni occupa sempre più gli scrittori... [Secondo loro] Il senso proprio e più profondo dell'esercizio del diritto coniugale dovrebbe consistere in ciò: che l'unione dei corpi è l'espressione e l'attuazione della unione personale ed affettiva". [Anche secondo queste tesi] "Se da questo completo dono reciproco dei coniugi sorge una vita nuova, essa è un risultato che resta al di fuori o al massimo come alla periferia dei "valori della persona"; risultato che non si nega, ma non si vuole che sia come al centro dei rapporti coniugali"... "Se questo apprezzamento relativo non facesse che mettere l'accento sul valore della persona degli sposi piuttosto che su quello della prole, si potrebbe a rigore lasciar da parte tale problema; ma qui si tratta invece di una grave inversione dell'ordine dei valori e dei fini posti dallo stesso Creatore... Ora la verità è che il matrimonio... non ha come fine primario e intimo il perfezionamento degli sposi, ma la procreazione e la educazione della nuova vita. Gli altri fini, per quanto anch'essi intesi dalla natura, non si trovano nello stesso grado del primo, e ancor meno gli sono superiori, ma sono ad esso essenzialmente subordinati" (AAS 43 (1951) 2, 848-849).
E' importante ricordare anche un decreto del Santo Uffizio del 1 aprile 1944, che dichiarò non ammissibili le opinioni di alcuni autori, i quali negavano che il fine primario del matrimonio fosse la procreazione e l'educazione della prole, o insegnavano che i fini secondari non fossero essenzialmente subordinati al fine primario ma equipollenti e da esso indipendenti (AAS 36 (1944) 103).
Questa gerarchia di fini, invece, non appare negli insegnamenti del Concilio Vaticano II. La Costituzione pastorale Gaudium et Spes ha voluto, da una parte, dare rilievo all'aspetto personalistico del matrimonio (partendo dalla descrizione del matrimonio come "intima comunità di vita e d'amore coniugale" ("intima communitas vitae et amoris coniugalis": n. 48)). Dall'altra, mentre afferma che il matrimonio è dotato di "variis finibus" (ib), ha scelto (con una scelta evidentemente deliberata) di non distinguere fra fini primari e secondari, limitandosi semplicemente a dire: "Per sua indole naturale, l'istituto stesso del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento" [3]. E, più avanti, ribadisce: "il matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole" ("Matrimonium et amor coniugalis indole sua ad prolem procreandam et educandam ordinantur": ib. n. 50)).
Sembra innegabile pertanto il fatto che il Concilio e il magistero susseguente abbiano evitato di sottolineare la gerarchia fra i fini [4]. Comunque, piuttosto che indicare questa dottrina come già datata e quindi di abbandonare, preferirei vedere in essa uno sviluppo: nel senso che la Chiesa vuole adesso che il suo insegnamento sui fini del matrimonio sia integrato in una nuova sintesi. Anzicché su una gerarchia o subordinazione fra i fini, l'insistenza va posta ora sulla loro essenziale interconnessione e inseparabilità. Vale a dire, i due aspetti del matrimonio - quello personalistico e quello procreativo - non stanno in opposizione, né sono indipendenti e separabili, essendo invece intimamente ed essenzialmente collegati e interdipendenti. In altra sede ho cercato di illustrare ampiamente questa tesi (cfr. C. Burke: "I Fini del Matrimonio: visione istituzionale o personalistica?": Annales Theologici 6 (1992), 227-254).
Facciamo un passo indietro per ricordare le affermazioni magisteriali del pontificato di Pio XII, che criticarono aspetti del personalismo matrimoniale. Presi isolatamente, queste dichiarazioni potrebbero confermare l'impressione (per di più, diffusa in certi settori) che la visione personalistica del matrimonio trovò solo opposizione da parte del magistero finché, dopo una insistente pressione, è riuscita a farsi accettare dal Vaticano II.
Questa però sarebbe una visione scorretta. Infatti, fu proprio il magistero pontificio che già, nel 1930 nell'importante Enciclica "Casti connubii" di Pio XI, conferì una chiara legittimazione ufficiale alla ricerca di una comprensione personalistica del matrimonio. In questa Enciclica, più di trenta anni prima del Concilio Vaticano II, si trova la descrizione dell'unione coniugale come qualcosa che comporta la "generosa propriae personae traditio" (AAS (1930) 553. Infatti, nell'affermare che il consenso matrimoniale denota un'auto-donazione, Pio XI, e il Concilio Vaticano II dopo di lui, esprimono un'idea con profonde radici non soltanto nella coscienza popolare, bensì anche nel pensiero ecclesiale. Si ricordi la classica definizione del matrimonio, di Hugo di S. Vittore, come "legitima societas inter virum et feminam, in qua videlict societate ex pari consensu uterque seipsum debet alteri" (De B. Mariae Virginitate, cap. I: PL 176, 859); e il commento di San Tommasso su questo: "sicut dicit Hugo de Sancto Victore, eos qui coniunguntur sic oportet consentire ut invicem se spontanee recipiant" (Suppl., q. 45, art. 2 ad 3)). In brevi, ma importantissime righe, nelle quali occorre vedere delle linee maestre per lo sviluppo del personalismo coniugale, Pio XI assegna al "mutuum adiutorium" - l'aiuto mutuo fra i coniugi, che la dottrina cattolica ha sempre considerato come uno dei fini del matrimonio - lo scopo di puntare al perfezionamento personale degli sposi, al quale tende il matrimonio inteso come comunione di tutta la vita: "il vicendevole aiuto (deve) mirare soprattutto a questo, che i coniugi si aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore... Una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, con l'assiduo studio di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo... si può dire anche primaria ragione e motivo del matrimonio, purché s'intenda per matrimonio, non già, nel senso più stretto, l'istituzione ordinata alla retta procreazione ed educazione della prole, ma in senso più largo, la comunione, la consuetudine e la società di tutta quanta la vita" (ib. 548).
L'Enciclica, anche se diede nuova spinta alle tesi personalistiche, non aveva alcuna intenzione di prestare appoggio alle siffate teorie che prospettavano una opposizione fra il personalismo e la procreazione. Nondimeno, continuarono a svilupparsi delle teorie che suggerivano questa precisa opposizione, dando in effetti l'impressione di minare o almeno di sottovalutare la finalità procreativa del matrimonio [5]. È stato questo aspetto o sfumatura del personalismo emergente ad andare incontro ad una forte opposizione durante il pontificato di Pio XII, soprattutto, come abbiamo già visto, nell'Allocuzione dell'anno 1951, alle Ostetriche Italiane.
A mio avviso, l'importanza del magistero di Pio XII sul tema fu l'insistenza non tanto sulla subordinazione di un fine del matrimonio all'altro, quanto sulla interconnessione essenziale e inscindibile tra i fini (Ciò che più interessa qui non è tanto la sub-ordinazione, quanto la inter-ordinazione). Ciò che il magistero di Papa Pacelli fondamentalmente respingeva - ossia ogni tesi che proponesse l'indipendenza, cioè la non-connessione, o non-ordinazione, fra i fini - viene espresso in modo positivo dal Concilio quando afferma l'essenziale ordinazione alla procreazione, dell'amore e del matrimonio. Pertanto si può affermare che il Concilio segnala un chiaro sviluppo del magistero precedente, non una rottura con esso.
Comprensione personalistica della procreatività
Potremmo qui ricordare qualcosa già accennato: che non è corretto contrastare una comprensione personalistica del matrimonio da una parte, e una comprensione procreativa-istituzionale, dall'altra. C'è un doppio motivo: a) il matrimonio - istituzionalmente considerato - va ordinato a dei fini personalistici non meno che a quegli procreativi; b) la procreatività, adeguatamente intesa, corrisponde a dei valori altamente personalisti.
Il primo motivo è di grande interesse di per sé, come ho sottolineato altrove [6]. E' di particolare importanza per qualcosa che consideremo più avanti: la corretta comprensione di un concetto di carattere evidentemente personalista introdotto nel can. 1055 del Codice del 1983: il "bonum coniugum", o il bene dei coniugi. Tuttavia, e per il momento, è il secondo punto che ci preme affrontare: cioè la relazione tra procreatività e i valori personalisti.
Senza dubbio, la formula dello "ius in corpus" era molto aperta alle critiche personalistiche; e non pochi vedevano nell'omissione, dal nuovo Codice, di questa formula la conferma del fatto che la Chiesa (pur nella sua legge) vuole attirare maggiore attenzione verso l'aspetto personale del matrimonio. In ogni caso, l'ostilità provocata dallo "ius in corpus" potrebbe ragionevolmente spiegarsi come reazione contro una formula tecnica e relativamente moderna; così rimane come qualcosa abbastanza comprensibile in sé, e carente di ulteriore importanza. Tutt'altro però è il discorso quando si vede che pure il "bonum prolis" - uno dei valori matrimoniali che la Chiesa ha insegnato e difeso da 1500 anni - è stato oggetto di critiche e ostilità in nome di un certo tipo di personalismo coniugale.
Dico un "certo" tipo di personalismo perché credo che ciò che è operativo qui non è in effetti il vero personalismo coniugale cristiano, ma lo pseudo-personalismo, forma piuttosto dell'individualismo, a cui abbiamo già accennato. Prosegue la via che Pio XII cercava di precludere, sostenendo che il matrimonio può essere pienamente umano e perfino personalistico, anche senza riferimento alla prole, cioè, anche se la procreazione ne sia esclusa.
Gli ultimi decenni hanno infatti testimoniato l'emergere di una intera "filosofia contraccettiva" del matrimonio. Qui occorre dedicare un pò di tempo ad analizzare questa filosofia, la quale ci porta in definitiva ad un'analisi personalista del significato dell'atto coniugale [7].
L'atto coniugale
Esaminiamo l'apparente base personalista dalla quale la filosofia contraccettiva vuole argomentare. Considerando l'atto coniugale come una espressione singolare dell'unione matrimoniale, pretende che l'atto possegga, in se stesso, un senso ed un valore pienamente personalista ed unitivo, anche nell'ipotesi che sia contraccettivo. Possiamo esporre l'argomento in questi termini: l'atto coniugale unisce gli sposi, esprimendo il loro reciproco amore in un modo singolare; qui risiede la sua funzione personalista. Questo atto può, senza dubbio, avere un effetto "collaterale" - generare un figlio - ma poiché questo effetto dipende da fattori biologici già controllati dalla scienza moderna, si può annullare la funzione procreativa dell'atto coniugale, lasciando intatta la sua funzione unitiva. La contraccezione, mentre frustra l'aspetto biologico o procreativo dell'atto coniugale, rispetterebbe pienamente l'aspetto spirituale ed unitivo.
Come è evidente, l'argomento dei difensori della contraccezione muove da una presupposizione essenziale: l'aspetto procreativo e quello unitivo dell'atto coniugale sono separabili, vale a dire, l'aspetto procreativo si può annullare senza viziare l'atto coniugale né ledere la sua capacità di esprimere - in maniera propria e singolare - la realtà dell'amore e dell'unione coniugale. Proprio questa tesi è stata esplicitamente respinta dalla Chiesa. La ragione principale per la quale la contraccezione è inaccettabile per la coscienza cristiana è, così come Paolo VI afferma nell'Humanae vitae, "la connessione inscindibile, che Dio ha voluto... tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo" (HV, n. 12).
Paolo VI ha affermato inseparabile questa connessione; non è però giunto a precisare perché questi due aspetti dell'atto coniugale sono tanto inseparabilmente connessi, o perché questa connessione è tale che viene ad essere il fondamento stesso della valutazione morale dell'atto. Penso comunque che una serena riflessione può condurci a scoprire le ragioni per le quali ciò è così: a scoprire cioè che la connessione tra i due aspetti dell'atto coniugale è di fatto tale che la distruzione della sua capacità procreativa necessariamente distrugge il suo significato unitivo e personalistico.
"Gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità, ... compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano" [8]. Perché l'atto coniugale è considerato l'atto di autodonazione, l'espressione più peculiare dell'amore coniugale? Perché in questo atto - che tutto sommato è qualcosa di passeggero e fugace - si ravvisa un atto di unione (cfr. Sentenza, c. Burke, del 1 marzo 1990: R.R.Dec., vol. 82, pp. 177ss )?
In fin dei conti, gli innamorati esprimono il loro amore e il loro desiderio di unione in molte maniere: guardandosi, scrivendosi lettere, scambiandosi regali, camminando stretti per mano... Che cosa conferisce singolarità all'atto sessuale? Perché quest'atto unisce gli sposi in irripetibile maniera come nessun altro atto? Che cosa c'è in esso da trasformarlo non solo in una esperienza fisica, ma anche in una esperienza d'amore - e, più concretamente, di unione - coniugale?...
E' il piacere singolare che lo accompagna? Il significato unitivo dell'atto coniugale rimane contenuto soltanto nella sensazione, per quanto intensa sia, che è capace di produrre?
Se l'intimità sessuale unisce due persone semplicemente perché dà un piacere speciale, potrebbe allora riuscire argomentazione persuasiva che uno dei coniugi possa talvolta sperimentare una unione più profondamente significativa fuori del matrimonio piuttosto che in esso. Ne seguirebbe logicamente che un rapporto sessuale senza piacere è carente di significato, e che il sesso accompagnato dal piacere - addirittura in una relazione omosessuale - ha pieno significato.
Non è così: l'atto coniugale può essere accompagnato o meno dal piacere, ma il senso dell'atto non consiste nel piacere. Occorre pertanto cercare questo senso altrove.
Per quale ragione, allora, tale atto deve essere più significativo rispetto a qualunque altra manifestazione d'affetto tra gli sposi? Perché quest'incontro coniugale è l'espressione più intensa di amore e di unione? Evidentemente, è per ciò che accade in questo incontro, che non è un semplice contatto, né una mera sensazione, bensì una comunicazione, uno scambio, un'offerta e un'accettazione di qualcosa che rappresenta in maniera completamente singolare il dono della persona e l'unione di due persone.
E' importante non dimenticare che il desiderio degli sposi di donarsi reciprocamente, di unirsi, rimane solo a livello intenzionale. Ogni sposo può e anzi deve vincolarsi all'altro; ma, come abbiamo visto, non può dare realmente sé stesso all'altro. E' per questo che nella "traditio suiipsius" occorre sempre scorgere un elemento di metafora. L'espressione più concreta del desiderio di dare sé stesso è dare il seme di sé.
Va notato [9] che per "seme" s'intende qui tanto l'elemento generativo femminile quanto quello maschile; i.e. l'"elementum procreativum" di ciascuno sposo [10]. Pertanto, usiamo il termine non soltanto in un senso biologico allargato, ma anche con delle connotazioni giuridiche [11].
La donazione e l'accettazione del seme è una manifestazione impareggiabile della comunione personale e dell'amore umano, dell'amore coniugale incarnato in una singolare e privilegiata azione fisica attraverso la quale si esprime l'intimità - "Ti do ciò che non do a nessuno" - e si raggiunge l'unione: "Prendi ciò che ti do: il seme di un nuovo io. Unito a te, a ciò che tu stai per darmi, al tuo seme, si convertirà in un nuovo "tu-e-io", frutto della nostra reciproca conoscenza e del nostro reciproco amore". In termini umani, è questa la massima approssimazione al dono coniugale di sé e all'accettazione della reciproca donazione sponsale.
Non si tratta di un mero scambio di doni fra marito e moglie, come è per esempio lo scambio degli anelli. Ciò che l'uno dà all'altra non va semplicemente recepito dall'altra come realtà che sta per diventare la sua proprietà. È invece un scambio singolare dove i doni si riscontrano e uniscono; e dove le categorie di "mio" e "tuo" spariscono, o piuttosto vanno superati e trasformati. Il mio dono non diventa semplicemente tuo, né il tuo mio. Si uniscono per diventare un nuovo essere che non è né tuo né mio, bensì nostro: nostro figlio.
Pertanto, quel che fa sì che l'atto coniugale sia una relazione e una unione singolari, non è la partecipazione a una sensazione, bensì la partecipazione ad un potere: un potere fisico e sessuale che è straordinario proprio perché possiede un orientamento intrinseco alla creatività, alla vita. Nell'autentico rapporto coniugale, ogni sposo dice all'altro: "Io ti accetto in maniera tale che in misura maggiore non accetto nessun altro. Tu sei unico per me, così io per te. Tu, e tu solo, sei mio marito; tu sola sei mia moglie. E la prova della tua singolarità per me è il fatto che con te, e solo con te, sono disposto a essere partecipe a questo potere divinamente dato e orientato alla vita" [12]. In altre parole, il dono di sé viene rappresentato, e per così dire materializzato, in maniera singolarmente espressiva nel dono della partecipazione complementare alla propria capacità procreativa.
Deve essere già evidente la conclusione alla quale ci porta questo ragionamento. Se si annulla deliberatamente l'apertura alla vita, propria dell'atto coniugale, si distrugge il suo potere intrinseco di significare l'unione coniugale. La contraccezione trasforma difatti l'atto coniugale in un tipo di auto-inganno o in semplice bugia: "Ti amo tanto che con te, e con te solo, sono disposto a partecipare a questo singolarissimo potere... " Ma, quale potere singolare? In un atto contraccettivo non si partecipa ad alcun potere peculiare, tranne ad un potere di produrre piacere. Ma allora la singolarità dell'atto coniugale si riduce al piacere: il suo significato è scomparso.
La contraccezione non è infatti soltanto un'azione carente di senso; contraddice il significato essenziale che il vero rapporto sessuale sponsale deve avere, al fine di poter significare la mutua autodonazione totale ed incondizionata ("la contraccezione contraddice la verità dell'amore coniugale": Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, 2 (1983), p. 563). Invece di accettarsi nella loro totalità, gli sposi che fanno uso dei contraccettivi si rifiutano in parte, perché la fertilità è parte di ognuno di loro; essi rifiutano una componente del loro mutuo amore: la propria capacità di dare frutto. L'amore di ciascuno verso l'altro è un amore incompleto (cfr. Janet E. Smith: Humanae Vitae: a Generation Later, Catholic University of America Press, 1991, pp. 250-256).
Quando si vuole analizzare il concetto del dono maritale di sé, né l'antropologia né la scienza giuridica possono dimenticare che la mascolinità e la femminilità comprendono la paternità e la maternità potenziali, come elemento costituzionale della persona sessuata. L'amore fra i sessi che esclude questo elemento, può essere un amore vero, ma non è amore coniugale, giacché, escludendo quel concreto aspetto dell'identità dell'altro o della propria identità, né accetta l'altro totalmente né fa un dono totale di sé. Non si realizza nessuna "traditio suiipsius"; l'altra persona è amata soltanto in modo parziale. Una vera comprensione della coniugalità armonizza l'amore maritale e la procreazione [13]; la separazione, o peggio ancora, l'opposizione, fra questi due elementi, deriva da - o crea - una falsa comprensione dell'intera relazione coniugale.
Il consenso matrimoniale si dirige all'altra persona, nelle sue dimensioni coniugali di mascolinità o femminilità. Con il consenso all'alleanza maritale, l'attrazione sessuale naturale si converte in un debito di giustizia riferito ai fini del matrimonio (dai quali non si può escludere la paternità e la maternità potenziale)
Più avanti considereremo il tema della rilevanza giuridica dell'amore coniugale. Qui possiamo già affermare che lo scambio mutuo dell'"elemento procreativo", proprio sia del marito sia della moglie, conferisce una assoluta singolarità all'amore coniugale, e lo distingue da ogni altro tipo di amore: amore di amicizia, amore platonico, amore meramente sentimentale, ecc.
Nel vero rapporto sessuale sponsale ciascun coniuge rinuncia a qualsiasi attitudine di auto-possesso difensiva, al fine di possedere pienamente l'altro ed essere pienamente posseduto dall'altro. Questa pienezza dell'autentico dono sessuale e dell'autentico possesso sessuale si consegue soltanto nell'atto coniugale aperto alla vita. E' solo nel rapporto sessuale procreativo che i coniugi si scambiano l'uno l'altro la vera "conoscenza" coniugale reciproca [14], che si parlano umanamente e intelligibilmente, che realmente si rivelano nella pienezza della propria attualità e potenzialità umane. Ognuno dona e ognuno accoglie la piena conoscenza coniugale dell'altro.
Il rapporto sessuale normale tra coniugi realizza pienamente la mascolinità e la femminilità. L'uomo si afferma come uomo e sposo, e la donna si afferma come donna e sposa. Nel rapporto contraccettivo si esprime soltanto una sessualità menomata. A rigore di logica, in tal caso la sessualità non si afferma assolutamente. La contraccezione costituisce una tale negazione a lasciarsi conoscere, da non rappresentare una vera conoscenza carnale in assoluto.
Pertanto il rapporto sessuale contraccettivo non è vero rapporto sessuale. Nella contraccezione c'è un rapporto o scambio di sensazione, ma nessuna conoscenza sessuale vera, né autentico amore sessuale: non c'è nessuna rivelazione o comunicazione sessuale di sé, come pure nessuna donazione sessuale reciproca. Ne segue che la scelta della contraccezzione costituisce di fatto il rifiuto della sessualità [15]. Perciò, nel rapporto contraccettivo non si realizza la "traditio suiipsius coniugalis", riservandosi di fatto uno o ambedue i coniugi la concessione effettiva della sessualità coniugale. E' perciò che una copula contraccettiva, non essendo una copula coniugale, non è capace di consumare il matrimonio.
Questa analisi antropologica giustifica una prima conclusione riguardante il contenuto giuridico dell'autodonazione coniugale che costituisce l'oggetto del consenso matrimoniale. Una delle espressioni essenziali di questa donazione consiste nel consegnare all'altra parte un diritto a partecipare alla propria e personale procreatività. O, per usare dei termini più tradizionali, la donazione coniugale è essenzialmente caratterizzata dalla proprietà del "bonum prolis".
Non c'è dubbio che sia urgente recuperare il senso del valore personalista del "bonum prolis": non vederlo soltanto o principalmente in termini degli obblighi che impone (risultando perciò invalido il consenso matrimoniale se l'obbligo sia escluso con un atto positivo della volontà), ma capire pure che, essendo un valore - qualcosa di buono - risulta desiderabile, ed è naturale desiderarlo e antinaturale escluderlo.
Inoltre, l'amore coniugale normalmente necessita l'appoggio che significano i figli. I figli rafforzano la bontà del vincolo coniugale, di modo che non ceda sotto le tensioni che seguono l'inevitabile declino o sparizione dell'amore romantico e facile, che di solito accompagna i primi tempi della vita insieme. Il vincolo matrimoniale - che Dio vuole sia mai spezzato da nessuno - viene costituito allora non tanto per i variabili fattori affettivi tra marito e moglie, bensì costantemente in più per i loro figli, essendo ogni figlio un legame in più che dà forza a quel vincolo.
Le coppie che, pensando troppo al peso della prole, sono facilmente tentate di limitare il numero dei figli, dovrebbero ricordare l'insegnamento del Concilio Vaticano II che "i figli sono il dono più prezioso del matrimonio e contribuiscono in grandissima maniera al bene dei genitori" (Gaudium et Spes, no. 50). Può essere che sia giusta la loro decisione di privarsi di ulteriori figli; ma si tratta proprio di una privazione. Non devono perdere la coscienza che questo è così: sono loro stessi, insieme forse con i figli che già hanno, a essere privati di un unico "bene", di un dono prezioso, di un'esperienza singolare della vita umana - il frutto naturale dell'amore degli sposi.
NOTE
[1] "Matrimonii finis primarius est procreatio atque educatio prolis; secundarius mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae".
[2] "Etsi mirum videtur, certum est canonem 1013, 1 esse primum documentum Ecclesiae quod recenset fines easque hierarchice disponent... Hic canon est quoque primum documentum Ecclesiae in quo adhibetur terminologia: 'primarius'. 'secundarius'.": U. Navarrete, Periodica 56 (1967) 368.
[3] "Indole autem sua naturali, ipsum institutum matrimonii amorque coniugalis ad procreationem et educationem prolis ordinantur iisque velut suo fastigio coronantur": ib.).
[4] Nessuna gerarchia appare nel nuovo Codice né nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Non ne se fa menzione nella Familiaris Consortio. L'unica eccezione di cui ho conoscenza è un accenno passeggero in una Allocuzione pontificio del 10 ottobre del 1984.
[5] Tra gli autori "personalistici" più conosciuti di quegli anni c'è H. Doms (Vom Sinn und Zweck der Ehe, Breslau, 1935). Doms vuole che l'atto coniugale sia unitivo senza nessun riferimento al suo orientamento procreativo, essendo la procreazione un semplice effetto biologico della copula maritale. Cfr. Baldanza, G.: "La grazia matrimoniale nella riflessione teologica tra l'enciclica «Casti connubii» e il Vaticano II", Ephemerides Liturgicae, 103 (1989), p. 117-118.
[6] op. cit.; Annales Theologici, 1992-2; cfr. "Marriage: a personalist or an institutional understanding?" in Communio, 19 (1992), pp. 278-304.
[7] Significato che, non ostante alcuni suggerimenti poco oggettivi, mai venne ignorato dal magistero della Chiesa. Al contrario, il valore personale dell'atto coniugale, benché non se ne abbia un'esposizione approfondita, è stato sempre riconosciuto. E' interessante ricordare questo brano della citata allocuzione di Pio XII alle Ostetriche italiane: "L'atto coniugale, nella sua struttura naturale, è un'azione personale, una cooperazione simultanea e immediata dei coniugi, la quale, per la stessa natura degli agenti e la proprietà dell'atto, è l'espressione del dono reciproco, che, secondo la parola della Scrittura, effettua l'unione «in una carne sola»" (AAS 43 (1951) 850) e del valore del "bonum prolis", e in particolare dello stesso atto coniugale. Ciò ci permettera di giungere alla conclusione che, senza un orientamento procreativo, cioè senza l'apertura alla vita: a) non esiste né vero atto coniugale né vero rapporto coniugale capace di significare ed esprimere l'auto-donazione - il "sese tradere" - coniugale; b) il matrimonio stesso va privato del "bene" del "bonum prolis" (e, come si sa, se questa chiusura alla vita è fatta con atto positivo della volontà, escludendo il "bonum prolis", il consenso è nullo).
[8] GS 49. cfr. "actus coniugalis ad prolis generationem pervius uti signum efficax donationis suipsius seu utriusque coniugis": c. Colagiovanni, 13 giugno 1989: R.R.Dec., vol. 81, p. 415.
[9] Ciò può servire anche a sottolineare che queste considerazioni di tipo antropologico non ci discostano dal nostro argomento giuridico essenziale.
[10] "Cum igitur elementum procreativum, in ordinatione ad bonum prolis consistens, essentiam matrimonii ingreditur atque obiecti formalis consensus matrimonialis elementum essentiale constituat, nemini ex contrahentibus proprio arbitrio illud fas est excludere, quin ipsum coniugium irritum reddat": c. Stankiewicz, 29 ottobre 1987: R.R.Dec., vol. 79, p. 598.
[11] cfr. Sentenza coram Burke, 11 aprile 1988, n. 2: Monitor Ecclesiasticus CXIV (1989) IV, pp. 468-477; R.R.Dec., vol. 80, pp. 212ss; e anche il mio saggio, "Procreativity and the Conjugal Self-Gift": Studia Canonica 24 (1990), pp. 43-49.
[12] Senza dubbio il processo per cui l'idea dell'essenziale diritto/obbligo coniugale venne ristretto ad un (perpetuo ed esclusivo) "ius in corpus" può aver reso più difficile per i giuristi il comprendere come una determinata intenzione contraccettiva (ex. gr. il proposito di abortire), benchè lasci la copula fisica intatta, annulla assolutamente il suo valore e significato coniugale.
[13] "la procreazione... significa l'accettazione piena dell'altro": Evangelium Vitae, n. 23.
[14] La Bibbia, nel riferirsi al rapporto sessuale, dice che marito e moglie "si sono conosciuti": Adamo conobbe Eva, afferma Genesi (4: 1).
[15] cfr. C. Burke: La Felicità Coniugale, Milano, 1990, pp. 33-50 e 63-65; cfr. Covenanted Happiness, Ignatius Press, 1990, pp. 30-41 e 51-52; "La Inseparabilidad de los Aspectos Unitivo y Procreativo del Acto Conyugal", in Scripta Theologica, vol. XXI, fasc. I, 1989, pp. 197-209.