La sacramentalità del matrimonio: riflessioni teologiche (Apollinaris 66 (1993) 315-338)

Nella Chiesa in questo momento storico vi sono molte persone la cui fede è assai debole o apparentemente non-esistente. Alcune professano di essere ancora cattolici, benché la loro pratica religiosa risulti molto difettosa se confrontata alle norme tradizionali. Di rado ricevono i sacramenti, vanno in Chiesa assai sporadicamente, la Messa domenicale non è certamente una pratica costante della loro vita. Altre persone, anch'esse pure battezzate nella Chiesa, non praticano in nessuna maniera, e tendono di fatto a descriversi come "non-credenti".

            Particolari problemi sorgono quando, malgrado la loro situazione, queste persone vogliono sposarsi "in chiesa". La Familiaris Consortio (n. 68) da dei criteri per decidere quando sia conveniente o meno permettere a loro la celebrazione religiosa del matrimonio. In ogni caso, i problemi derivanti da siffatte situazioni sono essenzialmente pastorali, e la corretta (e, magari, adeguata) soluzione nel caso concreto dipenderà dal giudizio e dalla prudenza del pastore.

            L'analisi pastorale e la soluzione pratica del caso diventano comunque molto più difficili se non sono accompagnate da una corretta comprensione teologica della sacramentalità del matrimonio, e in particolare della necessità o meno di una fede conscia e attiva per la valida recezione del sacramento. Il presente studio si propone di offrire alcune considerazioni che sembrano fondamentali per una dovuta analisi della questione.

Sacramentalità: elemento o proprietà del matrimonio?

            La sacramentalità indica il potere soprannaturale che, per volontà di Gesù Cristo, accompagna certe azioni umane o determinate sostanze materiali: il modo singolare con cui la grazia divina si attua attraverso realtà naturali concrete, incorporandole - temporaneamente o permanentemente - in un nuovo ordine; strumentalizzandole (piuttosto che cambiandole) per fini soprannaturali. Non si può dire quindi che la sacramentalità sia un elemento (o una proprietà o un accidente) dell'acqua del Battesimo o del crisma nella Cresima o dell'imposizione delle mani nell'Ordine. E' piuttosto il potere o l'efficacia che permea queste sostanze o azioni naturali, che per mezzo di essa si trasformano in strumenti delle attività di Cristo e producono effetti divini. L'uso sacramentale e non-sacramentale di queste realtà si distingue chiaramente. L'acqua e l'olio non diventano "intrinsecamente" sacramentali per il cristiano, in quanto può adoperarli pure per scopi naturali, senza nessun effetto o significato sacramentale.

            L'Eucarestia è singolare tra i sacramenti visto che le realtà naturali del pane e del vino impiegate come "materia", non solo acquistano efficacia soprannaturale "in usu", bensì cambiano di fatto. Niente, a parte le apparenze, rimane della precedente realtà naturale; la sostanza è diventata completamente altra. Il matrimonio è simile all'Eucaristia e si distingue dagli altri sacramenti, in quanto il sacramento non consiste in un'azione transeunte bensì in una realtà risultante [1] che è sacramentalizzata permanentemente. Dall'altro lato però, in contrapposizione, anche se sacramentalizzato, non cambia sostanzialmente; e così si distingue fondamentalmente dall'Eucaristia. Mentre nel caso dell'Eucaristia la sostanza naturale non rimane, nel caso del matrimonio essa è presente: come realtà naturale dotata di significato ed efficacia soprannaturali.

            Nonostante ciò, se applicata al matrimonio, la sacramentalità sfugge ad una facile classificazione. A volte sembra venga concepito come se fosse una "componente" del matrimonio, una specie di "cosa spirituale" aggiunta al matrimonio per convertirlo in cristiano... E non è questo. Non è nemmeno un mero elemento o proprietà [2], per quanto essenziale, del matrimonio. E' piuttosto un forza soprannaturale che penetra e vivifica ognuno degli elementi e delle proprietà naturali del matrimonio, elevandoli all'ordine del significato e dell'efficacia soprannaturali. Coincide con il matrimonio stesso, che per il fatto del battesimo è stato inserito nell'economia della salvezza [3]. Indica, come afferma Giacchi, il punto di vista soprannaturale dal quale il matrimonio va contemplato [4].

            La sacramentalità si riferisce alla particolare configurazione ontologica del matrimonio tra due persone battezzate. Mentre nell'Eucarestia, il pane ed il vino si trasformano in una realtà sacramentale, divenendo il Corpo e Sangue di Cristo, non risulta ugualmente preciso affermare che il matrimonio "diventa" un sacramento o si "trasforma" in un sacramento. Inoltre, non si parla di pane e vino "elevati" alla dignità o efficacia sacramentale. Invece questo è esattamente ciò che si dice del matrimonio, e la sua elevazione alla dignità del sacramento lo rende operativo ad un nuovo livello.

            Nell'Eucaristia non rimane niente della realtà naturale del pane e del vino, eccetto l'apparenza. La realtà non è più ciò che appare; quello che si presenta esternamente non è altro che il "segno". Al contrario, nel matrimonio, la realtà naturale - il vincolo o relazione coniugale - rimane intatta; però è dotata di grazia e di un nuovo significato, che non appaiono esteriormente.

            Evitare l'affermazione che l'alleanza matrimoniale "diventa" sacramento è forse più importante di quanto potrebbe sembrare, in quanto tale affermazione sembra suggerire che, nel caso di ogni matrimonio celebrato sacramentalmente, avviene un "passaggio" da un realtà all'altra (come nel caso dell'Eucaristia). Se così fosse, si potrebbe iniziare ad ipotizzare ciò che "rimane" quando si esclude la sacramentalità. E diventa possibile suggerire che come ci può essere un'Eucaristia non-sacramentale (es. gr. in una celebrazione protestante) dove il pane ed il vino rimangono nella loro realtà naturale, così può esserci un matrimonio tra cristiani che è completo nella sua realtà naturale anche quando la sacramentalità è stata esclusa. Un punto questo sul quale ritorneremo.

Il battesimo: fondamento della sacramentalità del matrimonio       

            Dietro la sacramentalità di ogni sacramento c'è sempre la volontà di Cristo, che desidera incorporare ogni uomo e la sua vita all'ordine soprannaturale. Il battesimo è la porta per gli altri sacramenti. I battezzati sono "in" Cristo; le loro vite, da quel momento in avanti, portano questo indelebile stampo o carattere di figlio o figlia di Dio. Ora, il Battesimo non è solamente la porta al matrimonio in quanto sacramento, è pure una sua chiave nel senso che, data la positiva volontà istituzionale di Cristo, il Battesimo fa sì che il matrimonio sia sacramentale.

            Se i cristiani si sposano soprannaturalmente, ciò è dovuto al fatto che, grazie al Battesimo, sono "in Cristo". "Mediante il battesimo, l'uomo e la donna sono definitivamente inseriti nella Nuovo ed Eterna Alleanza, nell'Alleanza sponsale de Cristo con la Chiesa. Ed è in ragione di questo indistruttibile inserimento che l'intima comunità di vitae di amore coniugale, fondata dal Creatore, viene elevata ed assunta nella carità sponsale del Cristo, sostenuta ed arricchita dalla sua forza redentrice" (Familiaris Consortio, n. 13).

            Non è la semplice manifestazione del consenso (che in niente si differenzia dal consenso prestato nel matrimonio naturale) ciò che effettua il sacramento, ma il fatto che il consenso è stato espresso da persone battezzate. Non è al livello degli effetti giuridici, bensì delle realtà ontologiche che qui ci muoviamo.

            Il battesimo fa sì che la persona entri in una nuova relazione ontologica con Dio. Il matrimonio fa sì che l'uomo e la donna entrino in una nuova relazione umana tra di loro. Se loro vogliono liberamente instaurare questa relazione, essa sarà influenzata dalla loro preesistente relazione ontologica con Dio. Ciò che qui accade trascende il potere della loro volontà. In fatti l'unico modo in cui due cristiani sposandosi potrebbero escludere la sacramentalità, sarebbe smettendo di essere cristiani; però ciò non rientra nel loro potere [5]. La volontà umana, non essendo onnipotente, non può cambiare l'ordine stabilito da Cristo; deve invece operare in esso.

Il rito del matrimonio sacramentale

            L'antico assioma che "Dio produce la grazia per mezzo del rito sacramentale" deve intendersi correttamente nella sua applicazione al matrimonio. Il "rito sacramentale" del matrimonio non si riferisce a nessuna cerimonia liturgica o scenario religioso o celebrazione in una chiesa. Il rito sacramentale è semplicemente il valido scambio di consensi tra due cristiani: il loro "Sì" ad accettarsi come marito e moglie, nella reciproca autodonazione coniugale. Il valido consenso cristiano è quindi sempre un rito sacramentale, anche quando non viene celebrata nessuna cerimonia "religiosa" esterna [6].

            Come abbiamo visto, è in virtù del loro battesimo che due cristiani si sposano "in Cristo". Sposarsi in Cristo è sposarsi "nella Chiesa". Da un punto di vista teologico, quindi, non si potrà mai dire che il matrimonio valido tra due cristiani - non importa il modo in cui verrà celebrato - sia un contratto `privato'. Il matrimonio cristiano è sempre un "evento ecclesiale", e quindi, teologicamente considerato, pubblico. Il matrimonio tra cristiani si celebra sempre "nella Chiesa", anche quando non si celebra "in chiesa" o "in una chiesa" [7].

            Prima del Concilio di Trento, quando i matrimoni clandestini erano frequenti e validi, molte delle persone che contraevano in questo modo, probabilmente non erano coscienti né avevano l'intenzione di realizzare un rito religioso; e nonostante ciò i loro matrimoni erano realmente sacramentali (cfr. S. Thomas, In IV Sent., dist. 28, q. unica, art. 3; Belarmino: De Matr., cap. 6). In quest'epoca moderna, sposarsi "in chiesa" è diventata una frase così frequente che i coniugi possono facilmente concludere che il rito religioso è il sacramento. Qui potremmo aggiungere che per molti battezzati non praticanti o "non credenti" non ha alcuna importanza che il loro matrimonio sia un sacramento o meno; ciò che li infastidisce è la "celebrazione in chiesa". Ed è appunto all'"imposizione" di questa che si oppongono. E' il fatto di "andare in Chiesa" che crea problemi: o nel senso dell'"ipocrisia" che alcuni di questi non-credenti affermano riscontrare verso ciò che viene loro chiesto, oppure nello "scandalo" che alcuni credenti potrebbero provare vedendo persone notoriamente non-praticanti "sposarsi in Chiesa".

            Questa è la ragione per cui l'espressione "matrimonio religioso" deve essere impiegata con circospezione. Ogni valido matrimonio tra cristiani possiede pieno valore religioso, in quanto implica "sposarsi in Cristo". Il matrimonio di due protestanti che scambiano il loro consenso davanti ad un funzionario civile è matrimonio religioso e sacramento. Quindi, mentre si può fare distinzione tra il matrimonio "cristiano" e quello "naturale", ciò non si può fare a rigore tra un matrimonio "religioso" ed uno "civile"; e nemmeno il matrimonio "religioso " e "sacramentale" sono necessariamente la stessa cosa. Un'imprecisione d'espressione che può essere accettabile per il linguaggio volgare, non lo è per il discorso teologico o canonico.

            Suggerire che, senza la presenza di testimoni, "non c'è il sacramento", in quanto manca una "referenza essenziale alla Chiesa", significa non comprendere la natura teologica del matrimonio [8]. Pertanto non posso condividere l'opinione secondo la quale "la presenza del sacerdote e della comunità nella celebrazione del matrimonio è l'espressione e la causa della stessa presenza ed azione di Cristo", allegando che mentre i coniugi sono ministri, non lo sono "indipendentemente dalla funzione apostolica che li collega al Redentore risorto; né separatamente rispetto alla fraternità in cui sono inseriti" [9]. Porre la presenza della comunità cristiana - rappresentata almeno dai testimoni e dal sacerdote ufficiante - come necessaria per raggiungere "l'integra struttura sacramentale del matrimonio", si riduce ad un intento di costruire una tesi teologica su un fondamento giuridico totalmente accidentale.

            In breve quindi, quando si tratta del matrimonio tra cristiani, bisogna distinguere la forma canonica (o liturgica) da quella sacramentale. La forma sacramentale è quella che c'è nel matrimonio naturale (l'espressione di consenso (cfr. S. Tommaso, In IV Sent., d. 26, q. 2, art. 1 ad 1)); e così pure il rito essenziale (materia e forma insieme). Bellarmino si sofferma sull'errore di Melchor Cano su questo punto; Cano infatti affermò che "se il matrimonio è veramente un sacramento, allora, al di là del contratto civile, è necessario che abbia una qualche forma sacra, e un ministro ecclesiastico" (op. cit. cap. 8).

            E' importante tenere presente che la questione della forma canonica è completamente irrilevante rispetto alla considerazione teologica del matrimonio e concretamente della sua sacramentalità. La confusione creata su questo tema negli ultimi decenni si deve in gran parte alla invocazione della questione della forma, come se avesse una rilevanza teologica.

            Di tanto in tanto, si suggerisce che la Chiesa abbandoni completamente il requisito della forma canonica, riconoscendo semplicemente i matrimoni celebrati secondo la legge civile. Mentre da una parte si possono opporre rilevanti difficoltà a questo suggerimento [10], dall'altra è importante non dimenticare che si tratta di difficoltà di ordine socio-giuridico o pastorale-pratico. In altre parole, non esistono difficoltà teologiche che possano andare contro una eventuale legislazione relativo ad un tale cambiamento. I matrimoni così celebrati sarebbero sacramentali [11], così come quelli celebrati "in chiesa". Più precisamente, per insistere su ciò che abbiamo detto, anche essi sarebbero celebrati "in Chiesa" - nel senso teologico, anche se non in quello prettamente umano-sociale.

            Anche se la Chiesa possiede una competenza sulla forma o espressione sociale del matrimonio, il modo concreto in cui decida di esercitare questa competenza è una questione canonico-legale, che lascia intatto il principio teologico secondo il quale ciò che fa sì che ogni matrimonio valido tra cristiani sia sacramentale, non è nessun intervento ecclesiastico bensì la condizione ontologica delle persone battezzate. Qui un discorso poco rigoroso porta a delle difficoltà teologiche insuperabili, come quelle che si riscontrano nelle proposte non infrequenti che sarebbe opportuno consentire a coloro che non desiderano un matrimonio sacramentale, di contrarre un matrimonio non-sacramentale valido (canonico o puramente civile); dando sempre la possibilità, qualora volessero e avessero sviluppato le appropriate disposizioni di fede, ecc., di poter acquisire in un momento successivo - per mezzo di una celebrazione liturgica - la dimensione sacramentale più profonda.

Ministri e riceventi

            Certi canonisti ed ecclesiastici hanno difeso, con costanza ed energia, il diritto della Chiesa di "sposare i cristiani". E' ovvio che l'espressione, teologicamente parlando, non è esatta. La Chiesa non sposaunisce realmente i suoi membri nel matrimonio; sono loro che si sposano. Inoltre, mentre gli sposi tendono psicologicamente a considerarsi come semplici riceventi del matrimonio, il fatto teologico è che essi sono allo stesso tempo ministri e riceventi.

            Nella Chiesa Ortodossa si sostiene in generale che l'essenza del matrimonio consiste nel "coronamento" o "benedizione nuziale", e che quindi il sacerdote è il vero ministro del sacramento. La Chiesa Cattolica, contrariamente alla posizione orientale, ha insegnato costantemente che i ministri sono gli sposi [12]. Ai giorni nostri numerosi sforzi per dimostrare che l'intervento del sacerdote è essenziale, anche se mossi senza dubbio da motivi ecumenici lodevoli, non sono riusciti a presentare una solida base teologica per questa tesi. Va ancora detto che questi sforzi rappresentano di fatto un tentativo per clericalizzare l'amministrazione - sempre laicale - del sacramento.

Vale anche la pena di notare che, se nei tempi pre-conciliari il consenso matrimoniale fu dato in forma di risposta ad una domanda fatta dal sacerdote, questo modello di domanda-risposta fu sostituita nell'Ordo Celebrandi Matrimonium del 1969 da una semplice dichiarazione di accettazione ("ego accipio te..."), fatta da entrambi gli sposi. Ciò ha chiaramente l'intenzione di porre un maggior accento teologico sul ruolo degli sposi (cfr. Barberi, op. cit. p. 206).

L'intenzione richiesta

            Conviene notare una differenza concreta e non insignificante tra il matrimonio e gli altri sacramenti. Negli altri sacramenti (eccetto nel Battesimo dei bambini) c'è bisogno di un specifica intenzione sacramentale per riceverli. Nel matrimonio, l'intenzione di ricevere il sacramento non è necessaria; basta che si desideri la realtà naturale. Non è necessaria nemmeno un'intenzione religiosa; basta semplicemente il desiderio di sposarsi. Se è questa l'intenzione degli sposi, essi ricevono ciò che intendono: elevato (forse anche senza che se ne rendano conto) al livello sacramentale e soprannaturale: arricchito e trasformato dalla grazia.

            Ciò che è richiesto non è un'intenzione sacramentale - neanche implicitamente [13], bensì un'intenzione matrimoniale. Quindi per ciò che riguarda il matrimonio stesso, le persone devono avere piena intenzione personale di sposarsi; per quanto riguarda la sacramentalità, nessuna ulteriore intenzione viene loro richiesta.

            Queste affermazioni tendono senza dubbio a creare difficoltà, comunque direi che esse sono di natura psicologica, non teologica. E' così difficile (come sembra risultare per alcuni) accettare che il semplice atto di consenso al matrimonio possa venir così radicalmente trasformato dal "semplice" fatto che una persona sia stata battezzata (cfr. Barberi, op. cit. p. 312)? La chiara radice ontologica di questa trasformazione si trova precisamente nel significato cristiano del sacramento del Battesimo. Nessuna persona rimane la stessa in qualunque delle sue azioni una volta che ha ricevuto il carattere battesimale, cominciando in questo modo ad "essere in Cristo". Il problema - a parte la sottovalutazione degli effetti del Battesimo stesso - sembrerebbe ridursi ad una confusione tra i piani, le realtà e le intenzioni ontologiche e psicologiche.

Intenzione di fare "id quod Ecclesia facit/intendit"

            Il Concilio di Trento ha definito che, per la validità di un sacramento, il ministro che lo conferisce deve avere l'intenzione di fare ciò che fa la Chiesa (Sessione VII, can. 11; Denz. 854). Questo principio è stato invocato in alcuni studi recenti, come se dovesse essere applicato in maniera identica tanto al matrimonio quanto agli altri sacramenti. Non è possibile fare un'analisi adeguata del nostro tema, fin quando non ci rendiamo conto che le cose non stanno così. La ragione è allo stesso tempo chiara e sorprendente: la Chiesa, in quanto tale, non "fa" niente nel conferire il sacramento del matrimonio.

            La Chiesa ha legiferato su una serie di fattori che riguardano la celebrazione valida del matrimonio. Però queste disposizioni della legge ecclesiastica positiva non influenzano il fatto che il matrimonio è per legge divina l'unico sacramento per la cui confezione la Chiesa, come tale, non ha niente da fare. La Chiesa non "celebra" realmente il sacramento del matrimonio. Non provvede alcuna cerimonia ecclesiastica o liturgica che sia di per sé teologicamente essenziale al sacramento.

            Insistiamo: non esiste alcun rito ecclesiale per mezzo del quale il matrimonio diventi sacramento. Un matrimonio valido tra cristiani è sacramento, con o senza l'intervento della Chiesa. La Chiesa non ha mai sostenuto che un rito religioso concreto fosse condizione di validità; esige semplicemente (come fa lo Stato) che il matrimonio si contragga secondo certe formalità che hanno come finalità quella di stabilire esternamente il fatto del mutuo consenso; però queste formalità non devono necessariamente includere nessun tipo di rito specificamente religioso (cfr. c. 1116). E' per ragioni sociali o comunitarie che la Chiesa pone, come condizione per la validità, il suo atto di "ricevere" il consenso degli sposi; però il significato di questa disposizione è puramente disciplinare, e non teologico.

            Questo punto si presta ad un'ulteriore analisi. L'applicazione pratica del principio "fare ciò che fa la Chiesa" consiste in questo: che il ministro deve avere la volontà interiore di compiere il rito esterno sacramentale prescritto dalla Chiesa. Quale è il peculiare rito esterno sacramentale del matrimonio prescritto dalla Chiesa? Non esiste. Il rito religioso che i cattolici sono soliti seguire quando si sposano è semplicemente la forma canonica che, d'accordo con la disciplina vigente, si esige per la validità. Però non è il rito sacramentale (che, come abbiamo visto, è semplicemente il valido scambio di consensi tra gli sposi). Conseguentemente il principio di "fare ciò che la Chiesa fa", o non si applica al sacramento del matrimonio o altrimenti - causa la peculiare natura di questo sacramento - deve venir inteso in un forma molto diversa da come si applica agli altri sacramenti.

            Niente è "fatto" dalla Chiesa per "confezionare" il sacramento del matrimonio; fanno tutto gli sposi. Se si desidera, si può anche affermare che nel momento del consenso matrimoniale, gli sposi sono la Chiesa... In quanto che "una presenza" della Chiesa sia necessaria per la confezione dei sacramenti, questa presenza - nel caso del matrimonio - la conferiscono gli sposi e non il sacerdote. Ed è per questo motivo che affermazioni, come quella che segue, appaiono fondamentalmente difettose: "La forma canonica-liturgica, attualmente richiesta per il segno del sacramento fa sì che il consenso matrimoniale espresso in questo contesto abbia obiettivamente il senso indicato dall'economia della salvezza, cioè il senso del segno sacramentale" (Barberi, op. cit. p. 429). La forma canonica che attualmente si esige per la validità del matrimonio, è un'introduzione della legge ecclesiastica positiva; è teologicamente inammissibile volerla interpretare come causa o spiegazione del segno sacramentale.

            E' interessante notare qui un passo della Familiaris Consortio. "Quando, nonostante ogni tentativo fatto, i nubenti mostrano di rifiutare in modo esplicito e formale ciò che la Chiesa intende, quando si celebra il matrimonio dei battezzati, il pastore d'anime non può ammetterli alla celebrazione" ("Cum... nuptias facturi aperte et expresse id quod Ecclesia intendit, cum matrimonium baptizatorum celebratur, se respuere fatentur" (n. 68); AAS 74 (1982) 165).

            Qui Giovanni Paolo II non utilizza la frase, "ciò che la Chiesa fa" ("quod facit Ecclesia"); parla di quello che essa intende ("quod Ecclesia intendit"). E di fatto sembra che sia l'unico modo esatto di riferirsi al tema in relazione al matrimonio. Anche se non "fa" niente in questo sacramento, la Chiesa (nella misura in cui è presente o sa che un matrimonio si sta svolgendo) senza dubbio intende qualcosa: che due cristiani si sposino. Desidera, in altre parole, un matrimonio tra due persone che stanno "in Cristo". La domanda quindi è: "intendono gli sposi ciò che la Chiesa intende? Intendono essi sposarsi "in Cristo"? Se essi intendono sposarsi, la risposta è affermativa, in quanto - in virtù del loro battesimo - sono in Cristo. Loro intendono ciò che la Chiesa intende [14] (così come la Chiesa intende ciò che essi intendono); essi quindi hanno un'intenzione sacramentale sufficiente [15]. Non sarebbe corretto affermare che la Chiesa vuole che si sposino "come" cristiani, perché già lo sono; anche se si potrebbe affermare che la Chiese vuole che si sposino, perché ricevano la grazia che li aiuti ad essere cristiani migliori.

            Contrariamente a Barberi (op. cit. p. 431), quindi, considero che il contraente non deve "fare" ciò che fa la Chiesa (la quale, ripeto, non "fa" niente), però deve intendere ciò che intende la Chiesa: cioè un matrimonio valido tra due persone battezzate.

            E' importante distinguere quello che la Chiesa intende nel matrimonio dal senso teologico che si riscontra in esso. E' necessario che gli sposi intendano ciò che intende la Chiesa; non si può esigere ragionevolmente, per la validità, che essi possiedano una piena comprensione teologica di tutto quello che la Chiesa vede nel valore di segno che attribuisce al matrimonio. Sarebbe incongruo porre come condizione per la valida ricezione del sacramento, una conoscenza della comprensione teologica del matrimonio che possiede la Chiesa [16]. Quello che si richiede ai contraenti è semplicemente un'intenzione. Per quanto possa essere desiderabile che tale intenzione sia teologicamente informata e coscientemente sacramentale, questo non è richiesto per la validità. L'intenzione necessaria per la validità è la semplice intenzione di sposarsi sul piano naturale.

            Per effettuare un matrimonio sacramentale, quindi, bastano due elementi: il battesimo e ciò che costituisce il matrimonio, cioè un'intenzione matrimoniale naturale. Presupposte intenzione e capacità autentiche, è il fatto del Battesimo che sacramentalizza il matrimonio. Alla domanda quindi se può esistere un matrimonio valido tra due cristiani che non sia sacramentale, la risposta è negativa, perché (e ripetiamo la ragione basilare) la sacramentalità significa semplicemente la speciale configurazione ontologica dei battezzati. La dignità della sacramentalità è propria dell'essenza del matrimonio tra cristiani (cfr. Denz. 1766; 1773).

L'importanza della fede

            In questi anni abbiamo assistito ad una rinnovazione e ad uno sviluppo della tesi secondo la quale la sacramentalizzazione del matrimonio dipende non dal fattore oggettivo del battesimo bensì dalla fede soggettiva dei contraenti; cioè se manca loro la fede, non ricevono né possono ricevere il matrimonio sacramentale validamente. In altre parole - e questo si presenta come un principio teologico - , la fede, attiva e cosciente, è necessaria perché un matrimonio sia sacramentale [17]. Ha questo principio una consistenza teologica?

            E' ovvio che una fede cosciente ed attiva è necessaria affinché un matrimonio concreto sia pienamente fruttifero, in tutte le sue possibilità per la maturazione cristiana dei coniugi e dei figli. Il punto in questione, comunque, non è la fecondità bensì la validità: cioè se alcun grado di fede effettiva sia necessaria per la ricezione valida del sacramento.

            E' importante in questo contesto non confondere "fede" e "intenzione". E' richiesta un'intenzione molto specifica per ricevere il sacramento (però si tratta, ripetiamo, di un'intenzione matrimoniale e non necessariamente sacramentale). Ciò nonostante, la fede nel sacramento non è necessaria per la sua valida ricezione. Non riscontro nessun fondamento teologico per sostenere la tesi che l'assenza di una fede personalmente professata impedisca la valida ricezione del matrimonio. I protestanti, in fin dei conti, i quali non credono che il matrimonio sia un sacramento, nondimeno lo ricevono quando si sposano.

            Il matrimonio di coloro ai quali manca la fede pone problemi pastorali ma non teologici. Nel 1970, la Commissione Episcopale Francese per la Famiglia, dopo aver osservato che "le manque de foi ne mette pas en cause la validité du sacrement", aggiunse: "l'absence de toute foi chez les fiancés porte atteinte à l'authenticité de leur démarche dans la célébration même du mariage" (cfr. Barberi, op. cit. p. 359). Questa è una giusta esposizione del problema. E' pastoralmente importante aiutare i cristiani affinché abbiano un atteggiamento personalmente coerente - "autentico" - nella celebrazione religiosa del matrimonio; però anche quando non si raggiunge ciò, la mancanza di fede da parte loro non tange la validità sacramentale del loro matrimonio.

            La tesi che l'assenza di una fede cosciente rende invalido il matrimonio dei battezzati pone delle formidabili difficoltà dottrinali, le quali - mi sembra - sono state tralasciate piuttosto che risolte. Ciò che abbiamo considerato fino a questo punto pone in risalto una di queste difficoltà: l'effettivo rinnegamento o per lo meno disconoscimento delle conseguenze ontologiche, per la persona, del ricevimento del battesimo. E bisognerebbe dire lo stesso con riferimento alla fede come abito o virtù infusa (cfr. Wood: op. cit., p. 294).

            Non sono di minore rilevanza le difficoltà pratiche con le quali la tesi deve scontrarsi. Come si può calcolare la "quantità" di fede che si richiede [18]? Come è possibile quantificare la fede? E' solamente una perdita assoluta di fede che impedisce la sacramentalità?: in altre parole sarebbe sacramentale il matrimonio di una persona che possiede un "minimo" di fede? Si può perdere la fede gradualmente. Come si può calcolare quando la perdita diventa totale, in modo che neanche il minimo "vestigium" è rimasto?

            Non è l'unica difficoltà quella di determinare qual'è il minimo di fede necessario. Bisognerebbe inoltre specificare che tipo di fede è necessaria per la validità: la fede cristologica che ammette la divinità di Cristo? La fede ecclesiastica che accetta l'istituzione e l'autorità della Chiesa? La fede sacramentale? O solamente la fede matrimoniale, che accetta la natura del matrimonio così come la Chiesa la propone? Dopo bisognerebbe determinare se la fede richiesta dovrebbe essere esplicita o implicita, ecc. (cfr. Baudot, op. cit., pp. 362-363)

            Le difficoltà pratiche non finiscono qui. Chi esclude un cristiano non praticante dal matrimonio in Chiesa? A chi bisogna assegnare il compito per niente invidiabile di "classificare" i cattolici secondo "l'accettabilità" o no del grado della loro fede; concludendo che una persona non ha fede o non ha "abbastanza" fede? Alcuni sacerdoti sarebbero più liberali nel compiere questa responsabilità, mentre altri più conservatori. Il pericolo della discriminazione o della violazione del diritto fondamentale di contrarre il matrimonio è ovvio; come lo è il rischio di fomentare un tipo di "elitismo".

            Vorrei qui aggiungere che l'idea di escludere gli "infideles baptizati" dalla vasta categoria dei "Christifideles" [19] sembra essere non solamente inaccettabile dal punto di vista teologico, bensì correre pure un grave rischio di "elitismo". Il Concilio, in termini ampi ma specifici, descrisse come "Christifideles" coloro che sono "Christo per baptismum incorporati" (Ad Gentes 15). Non è la fede cattolica, bensì il fatto del battesimo, che costituisce una persona come membro del Popolo di Dio. Sulla base di questo fatto, si possono distinguere vari gradi di incorporazione a Cristo e alla sua Chiesa (Lumen Gentium 14ss; canoni 204-205). Quale è il grado di incorporazione che esigiamo? Forse vanno inclusi soltanto quelli "perfettamente" incorporati a Cristo?

Fede e frutto

            Non è teologicamente certo che tutti i sacramenti richiedano una fede cosciente (il battesimo dei bambini non la richiede); però è certo che tutti l'aumentano. Si può ragionevolmente sostenere che sono coloro la cui fede è debole quelli che hanno più necessità delle grazie che derivano dal sacramento del matrimonio. Il compito dei pastori è istruirli perché comprendano il potere di queste grazie; e denoterebbe un'impazienza pastorale poco ponderata pensare che si possa adempiere questo compito nelle poche settimane dell'istruzione pre-matrimoniale. Un matrimonio "in chiesa" può segnalare l'inizio di un lungo e fecondo processo di catechizzazione di coloro che hanno una fede notoriamente debole, e può assicurare pure la possibilità dell'educazione cattolica dei loro figli. Il rifiuto di un matrimonio "in chiesa" potrebbe precluderle entrambe. La tesi che i non-credenti battezzati non possono contrarre un valido matrimonio sacramentale, non risulta - inconsciamente - penale? Priva le persone delle risorse divine per rivolgersi a Cristo (cfr. Familiaris Consortio, n. 68, par. 5).

            Vi è chi dice che le persone sposate, a cui manca la fede, non possono significare l'unione di Cristo con la Chiesa. Questo però significa confondere segno e testimonianza. Ogni matrimonio cristiano rappresenta la relazione Cristo-Chiesa, anche quando alcune coppie non testimoniano una unione fedele ed amorosa. Non è lecito reputare la loro mancanza come un difetto che rende invalido il sacramento; è semplicemente un esempio della non-corrispondenza alla grazia sacramentale.

            Quando si legge che "la carenza di fede ostacola l'assunzione di impegni matrimoniali conformi al dato sacramentale" (S. GHERRO, Diritto matrimoniale canonico, Padua, 1985, p. 237), ci si domanda: quali sono questi "impegni" che stanno al di là di quelli del matrimonio non-sacramentale? Si ammette facilmente che l'assenza di fede è un ostacolo al compimento - facilitato dalla grazia - dei doveri matrimoniali, però non alla loro assunzione. Forse qui ci si presenta nuovamente un passaggio inconsapevole dal piano ascetico-pastorale a quello teologico-giuridico, e allo stesso tempo un'interpretazione della mancanza di fede come garanzia contro il dover assumere degli obblighi, e non come ostacolo per il ricevimento di benefici.

            L'assenza di fede può impedire il ricevimento fruttuoso del sacramento (cioè la feconda operazione della grazia sacramentale, nel matrimonio "in facto esse"); però non il ricevimento attuale del sacramento, nel momento del consenso (matrimonio "in fieri"). Il non percepire la chiarezza di questa distinzione, può favorire frasi equivoche quali quelle che caratterizzano il seguente passo: "la profonda unità tra la realtà umana e quella sacramentale, nel caso dei coniugi battezzati, non si realizza in assenza di fede. Anche quando continuano ad essere ordinati allo stato sacramentale attraverso il carattere battesimale, la loro mancanza di fede impedisce loro l'attuazione di questo stato" [20].

            Anche per quanto riguarda la fecondità del sacramento del matrimonio non è affatto detto che l'assenza di fede in una persona battezzata, impedisca assolutamente la realizzazione di questi frutti. La sacramentalità, invece, offre una nuova forza di efficacia soprannaturale (della quale la persona può non essere affatto cosciente) per vivere una donazione più amorosa al suo sposo e ai suoi figli. La mancanza della fede di due protestanti che si sposano non li priva necessariamente del ricevimento delle grazie sacramentali proprie del loro matrimonio.

            Coloro che propongono un valido matrimonio non-sacramentale per i cattolici, danno l'impressione di passare molto alla leggera sul fatto che la sacramentalità del matrimonio conferisce grazie - vantaggi - anche a coloro che le ignorano. Questo spiega le costanti direttive della Santa Sede, sotto l'antico Codice, secondo le quali, anche se si devono impegnare tutte le forza per istruire coloro che sono ignoranti su ciò che riguarda la dottrina cattolica, non va negata la celebrazione del matrimonio agli sposi che rifiutano questa istruzione [21].

            Se è l'intera alleanza coniugale tra gli sposi che diventa una fonte di grazia, allora i coniugi cristiani sono sempre "in" uno stato sacramentale, anche quando l'uno o l'atro o entrambi, non sono personalmente in uno "stato di grazia". La grazia del matrimonio facilita di fatto il loro "ritornare" allo stato di grazia, se lo hanno perso. Sembrerebbe pure dedursi che quei cristiani con poca o nessuna fede, che contraggono un matrimonio sacramentale, avranno più grazia - per l'incontro o la restaurazione della loro fede - di quella che avrebbero avuto contraendo un'unione non-sacramentale. Lo stato sacramentale del matrimonio riconferma o torna a collocare le persone "in" Cristo, anche se ignorano la natura e la dimensione di questo beneficio. I pastori devono superare la tendenza a considerare ed analizzare in chiave sociologica quello che è essenzialmente una realtà teologica, un "grande mistero in Cristo", dove il potere della redenzione è costantemente - anche se occultamente - operante.

            Il tema offre alcuni aspetti ed implicazioni ecumeniche che vanno soppesate attentamente. Se diventasse dottrina cattolica che sono necessarie una fede attiva e/o una positiva intenzione sacramentale per la valida ricezione del matrimonio, allora la Chiesa dovrebbe considerare non validi la maggior parte dei matrimoni dei nostri fratelli separati (cfr. Familiaris Consortio, n. 68, par. 6).

I documenti dell'anno 1977 della Commissione Teologica Internazionale

            Sarebbe opportuno fare un riferimento ai due documenti pubblicati nel 1977 dalla Commissione Teologica Internazionale: "La sacramentalità del matrimonio cristiano" e il "Foedus matrimoniale" (Enchiridion Vaticanum, VI, EDB, 1983, pp. 352-397). La dottrina tradizionale a proposito dell'inseparabilità tra alleanza e sacramento viene chiaramente presentata in paragrafi quali i seguenti: "Tra due battezzati il matrimonio, come istituzione voluta da Dio creatore, non può venir separato dal matrimonio-sacramento, perché la sacramentalità del coniugio tra battezzati non costituisce per esso un elemento accidentale, sì che possa esserci o non esserci, ma è così legata all'essenza di esso da non poter esserne separata" (p. 385, n. 495). "Per la Chiesa, infatti, tra due battezzati non esiste un matrimonio naturale separato dal sacramento, ma solo il matrimonio naturale elevato a dignità di sacramento" (p. 389, n. 498).

            Ci sono comunque altri passi meno chiari, che vengono citati a volte in sostegno della tesi che una fede cosciente ed attiva è essenziale per la validità del matrimonio sacramentale, o che si dovrebbe lasciare aperta ai cristiani la possibilità di un'unione valida non-sacramentale. Ci viene detto ad esempio che l'alleanza matrimoniale "diventa sacramento solo se i futuri sposi accettano di entrare nella vita coniugale passando attraverso Cristo al quale, mediante il battesimo, sono incorporati. La loro libera adesione al mistero del Cristo è talmente essenziale alla natura del sacramento che la Chiesa vuole assicurarsi, attraverso il ministero del presbitero, circa l'autenticità cristiana del loro impegno. Quindi l'alleanza coniugale umana non diventa sacramento in forza di uno statuto giuridico, efficace per se stesso indipendentemente da ogni adesione liberamente data al battesimo. Lo diventa invece in virtù del carattere pubblicamente cristiano che comporta nel suo intimo l'impegno reciproco" (p. 363, n. 471).

            Difficilmente si possono descrivere queste affermazioni come un modello di chiarezza. Cosa si intende col "passare" degli sposi "attraverso Cristo": un "passare" - così sembra si voglia dare a capire - che non venne effettuato grazie alla loro incorporazione a Lui nel Battesimo? Gli sposi sono già passati "attraverso" Cristo e stanno ontologicamente in Lui, in virtù di questo stesso Battesimo; questa è la ragione per cui si sposano in Cristo. Non ci viene dato nessun argomento teologico per appoggiare l'idea che un ulteriore "passare attraverso Cristo" è necessario affinché il loro matrimonio "diventi" sacramento.

            Uno rimane perplesso di fronte all'imprecisione dell'espressione "talmente essenziale..." (l'essenzialità non ammette livelli, una cosa è essenziale o non lo è affatto). Probabilmente il senso è che "l'adesione al mistero di Cristo" è importante per il frutto del sacramento (piuttosto che essenziale per la sua costituzione); un punto con il quale siamo d'accordo, ma che si sarebbe dovuto esprimere con maggiore precisione [22].

            Per quanto riguarda l'intervento del sacerdote - che è semplicemente quello di un testimone qualificato - è in dubbio che possa venir propriamente chiamato "ministero". Aggiungeremo che ciò che la Chiesa desidera assicurare per mezzo della presenza del sacerdote o di un altro testimone qualificato, piuttosto che la "autenticità cristiana del impegno degli sposi" (affermazione assai confusa) è la loro intenzione di scambiarsi un genuino consenso matrimoniale. Per questo motivo, come indica l'Ordo Celebrandi Matrimonium, il sacerdote interroga gli sposi sulla "loro libertà, sui loro propositi di mutua fedeltà e di accettare ed educare i figli" (Ordo Celebrandi Matrimonium, cap. I, n. 24). Al contrario di ciò che la Commissione sembrerebbe intendere, non si riscontra nell'Ordo nessuna domanda a proposito della "libera adesione al mistero di Cristo".

            Il secondo documento afferma che: "in ultima analisi la vera intenzione nasce e si nutre di fede viva; dove quindi non c'è nessuna traccia di fede in quanto tale... sorge il dubbio di fatto se vi sia o no la predetta intenzione generale e veramente sacramentale, e se il matrimonio contratto sia valido o no. Come s'è notato, la fede personale dei contraenti per sé non costituisce la sacramentalità del matrimonio, ma mancando del tutto la fede personale resterebbe inficiata la validità stessa del sacramento" (p. 383, n. 492).

            Ancora una volta, bisogna notare l'imprecisione del linguaggio. Cos'è una "traccia di fede"? Cos'è il minimo accettabile? Quand'è che la fede si estingue del tutto? Inoltre, anche quando alcuni considerano l'ultima frase (che in assenza totale di fede, la validità del sacramento "resterebbe inficiata") come conclusione del passo, è d'obbligo domandarsi quale conclusione sicura possa scaturire da un dubbio ("sorge il dubbio"). Infatti il testo continua: "Questo fa nascere nuovi problemi ai quali finora non s'è trovata una risposta sufficiente, e impone responsabilità pastorali assai gravi per quanto riguarda il matrimonio cristiano". Le considerazioni teologiche si mescolano in questi documenti con quelle pastorali. Le opinioni teologiche che si offrono, in formule non esenti da confusione [23], non hanno ricevuto nessun appoggio dal magistero posteriore, mentre le preoccupazioni pastorali chiaramente esposte hanno accolto una dettagliata risposta da Giovanni Paolo II, nella Familiaris Consortio.

            La Commissione Teologica Internazionale è un corpo con funzione di consiglio per la Congregazione della Dottrina della Fede, e in nessun modo un organo del Magistero. Siccome è composta da teologi nominati dal Papa, i loro punti di vista vanno studiati con particolare attenzione. E' chiaro, comunque, che non hanno più peso del loro valore intrinseco. Il valore teologico intrinseco dei documenti ai quali ci siamo riferiti (anche alla luce delle molte ambiguità o contraddizioni interne) è discutibile. Per la finalità dell'argomento che stiamo trattando, è evidente che non rappresentano nessuna autorità magisteriale.

La separabilità

            Secondo la teoria della "separabilità", il matrimonio può in certi casi esistere come una valida alleanza o contratto naturale tra due cristiani, senza essere un sacramento. La teoria si fonda sull'opinione menzionata precedentemente: se ad una coppia manca la fede, non può ricevere e di fatto non riceve validamente il matrimonio sacramentale. In rispetto ai diritti umani, sempre secondo questa tesi, bisognerebbe riconoscere che in tal caso indipendentemente dal loro battesimo, possono ricevere e di fatto ricevono validamente il matrimonio "solo" nella sua entità naturale; vale a dire tali persone, secondo le circostanze, possono validamente ricevere sia un matrimonio sacramentale sia un semplice matrimonio "naturale". Questa teoria viene proposta spesso al giorno d'oggi, anche se non concorda con l'insegnamento ufficiale del magistero [24].

            Confesso tra l'altro che non mi soddisfa pienamente l'uso del termine "contratto", nel trattare questo tema (come se avesse necessariamente a che vedere con le teorie "contrattualistiche" del matrimonio). Una formulazione più precisa della questione è se il matrimonio in se stesso sia divisibile per i cristiani in due realtà: un matrimonio valido, naturale, non-sacramentale, da una parte; e dall'altra, un matrimonio sacramentale. Altro punto - più importante - è che "separabilità" o "inseparabilità" non mi sembrano essere adeguati termini di lavoro. Questi termini suggeriscono infatti che nel matrimonio cristiano si possono distinguere due elementi o "componenti", mentre in realtà, come abbiamo cercato di dimostrare, esiste un'unica realtà indivisibile. Certamente si può discutere se la realtà matrimoniale esiste dentro o fuori dell'ordine sacramentale; questione però che si risolve non in base ai principi costituzionali del matrimonio, bensì alla condizione ontologica dei coniugi.

            La teoria della separabilità concederebbe al contraente il potere di frazionare il matrimonio cristiano: separando ed escludendo il suo aspetto specificamente cristiano (che è la sacramentalità), trattenendo il suo valido aspetto naturale. Questo è un potere che il o la contraente non ha - non più di quanto una persona abbia il potere di "separare" Cristo dall'Ostia consacrata. "Io riceverò l'Ostia come cena commemorativa, però non riceverò il vero Corpo e Sangue del Signore"... Invece sì che la ricevi.

            D'accordo con la dottrina della Chiesa, se una persona realizza le azioni di qualsiasi degli altri sacramenti, però esclude l'efficacia soprannaturale che la Chiesa vede in essi, l'aspetto sacramentale va perso però rimane quello naturale. Se il ministro del battesimo esclude l'intenzione di conferire un sacramento, di fatto questo non si conferisce, ma l'azione naturale di versare l'acqua - la naturale abluzione - rimane. Non sarebbe logico affermare che la stessa cosa può succedere nel caso del matrimonio: cioè che una persona possa contrarre il matrimonio solamente nel suo senso naturale, escludendo il senso soprannaturale che la Chiesa gli attribuisce? La risposta negativa, che si presenta un'altra volta, corrisponde ad una ragione che sottolinea la singolarità del matrimonio tra i sacramenti, e spiega perché non vale l'analogia. Gesù Cristo non volle che ogni abluzione dei cristiani fosse sacramento; però è precisamente questo ciò che volle per ogni matrimonio tra i cristiani (cfr. Palazzini, op. cit., p. 756). La sacramentalità è conseguenza non della volontà dei contraenti, bensì della loro condizione di cristiani, incorporati nell'economia della salvazione.

            A questo punto potremmo menzionare la conclusione alquanto sorprendente dello studio di Michael Lawler al quale ci siamo già riferiti (una conclusione che, afferma, "è evidente e non necessita nessuna ulteriore elaborazione"): "se i matrimoni dei non-credenti, i battezzati inclusi, non sono sacramentali, allora sono pure dissolubili secondo le norme del canone 1143" (op. cit., p. 731). Visto che la dissoluzione del matrimonio d'accordo con il c. 1143 esige, come condizione sine qua non, che si tratti di un matrimonio tra due persone non-battezzate, non è evidente come l'autore avrebbe elaborato la sua conclusione in relazione con il nostro tema. Susan Wood ha sicuramente ragione quando afferma che coloro che propongono un matrimonio non-sacramentale valido per i battezzati non-credenti sostengono pure che il matrimonio sarebbe indissolubile (Wood: op. cit. 295-296). L'opinione teologica più comune è stata quella secondo la quale il matrimonio tra una persona battezzata ed una non-battezzata non è sacramentale. Comunque, senza dubbio, questi matrimoni (ammessi dalla parte cattolica con una dispensa dell'impedimento di disparità di culto) si considerano non meno indissolubili di un matrimonio tra due cattolici.

Conclusione

            A mio giudizio, determinati punti di vista che sono stati avanzati nel dibattito sul tema della «separabilità» denotano non solamente una valutazione difettosa della finalità, bellezza e dignità del sacramento del matrimonio, bensì (forse paradossalmente) un concetto devalorizzato del matrimonio visto pure sul piano naturale.

            Si percepisce una certa tendenza a considerare le proprietà dell'alleanza coniugale (la procreatività, l'esclusività, la permanenza) con un'ottica negativa piuttosto che positiva. In questo contesto, penso che alcune opinioni pastorali e canoniche del matrimonio siano rimaste ad un livello di comprensione parziale di queste proprietà, che sottolinea le obbligazioni che comportano, piuttosto che la bontà fondamentale che rappresentano. Bisognerebbe identificarsi nuovamente con la comprensione agostiniana di questi aspetti del matrimonio come "bona" - cose buone - che evidenziano la sua dignità e lo rivestono di un nobile potere di attrazione (cfr. C. BURKE: La Felicità Coniugale, Ed. Ares, Milano 1990, pp. 52ss). Esiste un pessimismo di base ogni qual volta se accetta l'idea che l'aspetto dell'impegno dell'alleanza matrimoniale risulta temibile piuttosto che attraente per la natura umana. Siccome la permanenza del vincolo matrimoniale ha perso molta stima al giorno d'oggi, un'analisi antropologica di come l'indissolubilità corrisponde all'aspirazione "per sempre" dell'amore umano, è particolarmente richiesta. Però è necessario fare pure una profonda rivalorizzazione degli aspetti della procreatività e dell'esclusività del patto coniugale.

            Sembrerebbe esserci pure l'idea che il matrimonio naturale richieda dalle persone un minor impegno di quello cristiano; che sia meno esigente, o che le sue esigenze possano essere ignorate o dispensate più facilmente. Torniamo a ripetere però che il matrimonio naturale rappresenta un impegno ed una donazione pari a quello cristiano. La differenza sta nel fatto che è meno ricco. Non conferisce la stessa forza né riceve lo stesso aiuto dall'alto, per raggiungere in pratica la felicità che promette.

            La sacramentalità è un'espressione della generosità di Dio, non della sua esigenza. E' un qualche cosa che fortifica, rimedia ed arrichisce. Sotto questo aspetto non impone nessun obbligo peculiare di più, a confronto del matrimonio naturale, a parte forse una particolare gratitudine - per i doni singolari che concede.

 

 

NOTE

[1] il vincolo. Alcuni applicherebbero la sacramentalità soltanto al momento del consenso. Secondo S. Tommaso, non è soltanto il consenso bensì il vincolo da lui stabilito, che è il sacramento del matrimonio: "actus exteriores et verba exprimentia consensum directe faciunt nexum quendam, qui est sacramentum matrimonii" (Suppl. q. 42, art. 3 ad 2).

[2] nell'Enciclica Arcanum, Leo XIII insegnava che è falso sostenere "esse Sacramentum decus quoddam adiunctum, aut proprietatem allapsam extrinsecus, quae a contractu disiungi ac disparari hominum arbitratu queat" (ASS, XII, p. 394).

[3] "è dottrina della Chiesa cattolica che il Sacramento non è una qualità accidentale aggiunta al contratto, ma è di essenza al matrimonio stesso" (Lettera di Pío IX al Re di Sardegna, 9 sett. 1852: in "Acta SS.D.N. Pii PP. IX ex quibus excerptus est Syllabus" (Roma, 1865), p. 105).

[4] "La dignità sacramentale alla quale... Cristo Signore elevò il contratto matrimoniale, non è un elemento dell'istituto matrimoniale, che si possa considerare a fianco dell'unità, della perpetuità, ecc.; essa è la considerazione soprannaturale del matrimonio, il punto di vista dal quale è considerato sul piano soprannaturale" O. GIACCHI: Il Consenso nel Matrimonio Canonico, Milano, 1950, p. 69.

[5] cfr. T. RINCÓN PÉREZ: "Fe y sacramentalidad del matrimonio", en AA.VV. Cuestiones fundamentales sobre matrimonio y familia, Pamplona, 1980, p. 193.

[6] Bellarmino, nel commento all'insegnamento di Trento (Sessione XXIV: Denz. 970) afferma che le differenze tra il matrimonio nel Nuovo e nell'Antico Testamento non stanno nel rito (il quale essenzialmente rimane lo stesso), ma nel semplice fatto che il matrimonio nel Nuovo Testamento è causa di grazia, mentre nell'Antico Testamento non lo era. "Concilium non agnoscit differentiam inter Matrimonia veterum, sive ante peccatum sive post peccatum Adae, et Matrimonium ut est novae legis Sacramentum, quod attinet ad ritum: sed discrimen in eo ponit, quod hoc est causa gratiae, illa non erant. Materia igitur, forma, et minister Sacramenti Matrimonii ex Tridentino Concilio eadem sunt, quae erant in Matrimoniis veterum, quae Sacramenta non erant" De Matr. cap. 7.

[7] Affermare che la forma canonica ha l'effetto di trasformare il matrimonio in un evento pubblico, è esprimersi in termini ecclesio-sociologici e non teologici.

[8] come pure degli altri sacramenti. Si potrebbe sostenere che non c'è nessuna "referenza essenziale" alla Chiesa in un Battesimo effettuato in un'emergenza da un'infermiera?

[9] S. MAGGIOLINI, Sessualità umana e vocazione cristiana, Brescia 1970, p. 140; in P. BARBERI: La celebrazione del matrimonio cristiano, Roma 1982, p. 57.

[10] cfr. quelle proposte da Corecco, Navarrete, Tomko ed altri, in Barberi, op. cit. pp. 242-243; 394-395; 489; 527; 535.

[11] cfr. HERVADA-LOMBARDIA: El Derecho del Pueblo de Dios. III Derecho Matrimonial (1), Pamplona 1973 p. 273.

[12] "benedictio quae fit per sacerdotes in nuptiis, non est de essentia matrimonii...; est quoddam sacramentale" (Suppl. q. 42, art. 1). Il Decreto degli armeni stabilì che lo scambio del consenso e non la benedizione del sacerdote è la causa effettiva del sacramento (Denz 702); cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1623.

[13] Non è quindi necessario premettere la difficoltà, come fa J.M. Aubert, che "Il semble donc difficile d'admettre que l'intention générale de se marier vraiment soit automatiquement considérée comme incluant l'intention implicite de recevoir le sacrement du mariage, si on n'y croit pas": La Maison-Dieu 104 (1970), p. 130.

[14] cfr. Susan WOOD: "The Marriage of Baptized Nonbelievers: Faith, Contract, and Sacrament" Theological Studies, 48 (1987), p. 292.

[15] "minister sacramenti agit in persona totius Ecclesiae, cuius est minister; in verbis autem quae proferuntur, exprimitur intentio Ecclesiae; quae sufficit ad perfectionem sacramenti, nisi contrarium exterius exprimatur ex parte ministri et recipientis sacramentum" (Summa Theol. III, q. 64, art. 8 ad 2). "Quando un sacramento viene celebrato in conformità all'intenzione della Chiesa, la potenza di Cristo e del suo Spirito agisce in esso e per mezzo di esso, indipendentemente dalla santità personale del ministro": Catechismo della Chiesa Cattolica, 1128.

[16] "Ce qui est requis, c'est donc bien de faire ce que fait l'Eglise et non pas de comprendre ce que l'Eglise comprend - le pacte conjugal comme sacrement. Aucun minimum de foi n'est donc requis" (D. BAUDOT: L'inséparabilité entre le contrat et le sacrement de mariage: la discussion après le Concile Vatican II, Roma 1987, p. 358). Questo pensiero è giustamente espresso anche se, come abbiamo segnalato, preferiremmo dire "intende" invece di "fa".

[17] cfr. Michael G. LAWLER: "Faith, Contract, and Sacrament in Christian Marriage: a Theological Approach" Theological Studies, 52 (1991)-4, p. 721.

[18] cfr. Rincón Pérez, op. cit., p. 192; O. FUMAGALLI CARULLI: "La dimensione spirituale del matrimonio e la sua traduzione giuridica", Ius 27 (1980), p. 45.

[19] cfr. R.C. FINN: "Faith and the Sacrament of Marriage", in Marriage Studies, III, Washington 1985, pp. 104-105; Lawler, op. cit., p. 728. Lawler arriva perfino a dire che "I non-credenti battezzati non hanno alcun diritto di essere equiparati ai credenti cristiani" (p. 729). Se a questa affermazione si attribuisse un peso unicamente pastorale la si potrebbe anche tralasciare. Però, è accettabile in termini teologici?

[20] R.C. Finn: op. cit., p. 106. Questo articolo non è l'unico ad asserire che Sant'Alberto, S. Tommaso, S. Bonaventura, ecc. insegnano la necessità di una fede attiva per la ricezione del matrimonio; mentre, così come dimostra una semplice lettura del testo Latino incluso nell'articolo, essi valutano la fede come elemento necessario per l'efficacia del sacramento una volta costituito, ma non per la sua valida costituzione.

[21] cfr. Barberi, op. cit. pp. 351-354. I canoni 1063-1072 del nuovo Codice di Diritto Canonico si mantengono sulla linea di questi insegnamenti, come lo fa la Familiaris Consortio, n. 68.

[22] La Commissione stessa, in contraddizione con quello che suggerisce qui, sembrerebbe riconoscere in seguito questo punto: "la fede viene presupposta come «causa dispositiva» dell'effetto fruttuoso del sacramento; però, la validità del matrimonio non implica necessariamente che questo sia fruttuoso" (p. 383, n. 492).

[23] Un passo particolarmente oscuro tratta di cattolici mal formati i quali pensano di poter contrarre il matrimonio, anche se escludono il sacramento. La Commissione considera, da un lato, il loro difetto tanto di fede quanto dell'intenzione di fare quello che "fa" la Chiesa - che li rende "incapaci di contrarre un matrimonio valido sacramentale " - e dall'altra, il loro "diritto naturale di contrarre matrimonio". Continua: "in siffatti circostanze essi sono capaci di darsi e di accettarsi a vicenda come sposi..."; e nonostante ciò conclude: "Questo rapporto, pur presentando i caratteri del matrimonio, in nessun modo può essere riconosciuto dalla chiesa come società coniugale, anche se non sacramentale" (pp. 387-389. n. 498).

[24] L'inseparabilità di sacramento e contratto si è ritenuta "fidei proxima" (cfr. P. PALAZZINI, "Il Sacramento del Matrimonio", in I Sacramenti, Roma 1959, p. 756). Per un elenco dei documenti magisteriali, vedere Barberi, op. cit., p. 412, note 174.