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Sommario: Il personalismo coniugale ed il Magistero - Il personalismo coniugale ed il Codice di Diritto Canonico - I fini del matrimonio - Due fini istituzionali interconnessi - Le due narrazione scritturistiche dell'istituzione - La natura del "bonum coniugum" - Aiuto mutuo: mutuo perfezionamento? - Il "bonum coniugum": più ampio dal "mutuum adiutorium" - Le esigenze del personalismo matrimoniale - Il personalismo del rapporto e della facoltà procreativa umana - Sintesi - Inseparabilità - Ulteriori prospettive
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Per buona parte di questo secolo, teologi, canonisti e antropologi si sono visti coinvolti in un vigoroso dibattito riguardante i fini del matrimonio e a volte la sua stessa natura. Da una parte c'era la comprensione tradizionale (frequentemente chiamata "procreativa" o "istituzionale") che presentava i fini del matrimonio con una chiara visione gerarchica: un fine "primario" (la procreazione) e due fini "secondari" (l'aiuto mutuo e il rimedio alla concupiscenza). Dall'altra, una nuova visione era apparsa, la quale, senza necessariamente negare l'importanza della procreazione, voleva che si concedesse almeno uno "status" uguale ad altri valori personali che unissero marito e moglie: l'amore mutuo, l'unione coniugale nel suo aspetto spirituale, e non solo fisico, ecc.
Fino a quando la comprensione tradizionale non conosceva rivali - cioè, fino al nostro secolo -, si lasciò la considerazione pratica del matrimonio quasi esclusivamente ai moralisti ed ai canonisti: i primi principalmente centrati sull'aspetto etico della sessualità fisica, i secondi sulla validità del consenso matrimoniale (il cui oggetto si presentava semplicemente come lo "ius in corpus"). Il matrimonio si studiava in virtù del suo fine primario, e le sue propietà essenziali di unità e indissolubilità furono capite e spiegate principalmente in funzione di questo fine.
Per quanto riguarda i fini secondari, il trattamento fu sempre molto sommario. Nell'aspetto di aiuto mutuo si contemplava semplicemente il sostegno e la consolazione che i coniugi potevano darsi nelle vicissitudini della vita, e soprattutto in età avanzata. S. Tommaso accenna ad una opinione (che non necessariamente condivide) che sembra ridurlo ancora di più: «dice la Scrittura che la donna fu creata per aiuto dell'uomo. Ma non si può trattare che della generazione la quale si compie mediante la copula: perchè, per qualunque altro scopo, l'uomo poteva essere aiutato meglio da un altro uomo che dalla donna» [1].
Il "rimedio alla concupiscenza" fu generalmente considerato dai medievali come altro fine secondario del matrimonio, aggiunto, dopo la Caduta, in una specie di "seconda istituzione", allo scopo di compensare una forte tendenza al peccato che già caratterizzava la condizione umana [2].
Negli ultimi cento anni è apparsa una serie di opinioni secondo le quali questa visione sui fini del matrimonio, si centra troppo esclusivamente sulla funzione procreativa, relegando alla periferia aspetti che la maggior parte delle persone (e certamente la maggioranza delle coppie sposate) considererebbe come stanti al centro della relazione coniugale: l'amore tra l'uomo e la donna come motivo principale del matrimonio, la promessa di felicità o "realizzazione" personale che il matrimonio sembra offrire, i valori umani posti alla base della sessualità fisica. Senza dubbio la letteratura romantica moderna (come pure le nuove scienze psicologiche) influenzò lo sviluppo delle idee; comunque sia, è certo che nelle prime decadi di questo secolo molte menti erano propense a mettere in risalto questi valori più personali presenti nel matrimonio.
Tra i primi scrittori "personalistici" più conosciuti sono Dietrich von Hildebrand e Herbert Doms (D. VON HILDEBRAND: Die Ehe, München 1929; Il Matrimonio, Brescia 1931. H. DOMS: Vom Sinn und Zweck der Ehe, Breslau 1935). Von Hildebrand mise in evidenza soprattutto la relazione di amore implicita nel matrimonio; mentre Doms vide l'essenza del matrimonio nell'unione fisica ed il suo fine la piena realizzazione dei coniugi come persone.
Mentre von Hildebrand insiste sul fatto che l'atto coniugale deve mantenersi aperto alla vita, affermando che l'atto «ha già in se un pieno significato» e che deve quindi essere compreso come «piena attuazione dell'amore coniugale» (Il Matrimonio, pp. 49-50), Doms arrivò più avanti, ribadendo che «l'acte conjugal est plein de sens et se justifie dejà en soi-même, abstraction faite de son orientation vers l'enfant» (H. DOMS, Conception personnaliste du mariage d'après S. Thomas, in «Revue Thomiste», 45 (1939), p. 763). B. Krempel, altro scrittore personalistico dell'epoca dell'ante-guerra, non considerò la prole come il fine del matrimonio; suo fine infatti è l'"unione vitale" dell'uomo e la donna, di cui il figlio rappresenta semplicemente l'espressione (cfr. A. Perego, Fine ed essenza della società coniugale, in «Divus Thomas», 56 (1953), pp. 357ss).
Molti scrittori personalistici si mostrarono ostili al - o almeno critici del - concetto di una gerarchia dei fini, sostenendo che offriva una visione del matrimonio eccessivamente istituzionale, nella quale l'importanza data all'aspetto o finalità procreativa andava a danno - o addirittura escludeva - l'aspetto di realizzazione personale che l'uomo e la donna naturalmente tendono a cercare quando si sposano.
Fu questo punto sulla gerarchia dei fini o, più esattamente sulla loro inter-relazione, che provocò la forte - sebbene accuratamente precisata - opposizione ufficiale che il personalismo coniugale incontrò durante il pontificato di Pio XII.
Il personalismo coniugale ed il Magistero
In un'Allocuzione del 3 ottobre 1941 alla Rota Romana, Pio XII insistette sul fatto che la tendenza deve essere evitata «che considera il fine secondario come ugualmente principale, svincolandolo dalla essenziale sua subordinazione al fine primario», e biasimò «lo sciogliere o il separare oltre misura l'atto coniugale dal fine primario...» (AAS 33 (1941) 423). A ciò seguì un Decreto del S. Uffizio sui fini del matrimonio, del 1 aprile 1944, il quale rifiutò la tesi che il fine "secondario" potesse venir considerato come indipendente dal fine primario e non subordinato ad esso (AAS 36 (1944) 103). In un'Allocuzione del 1951 (alle Ostetriche Italiane), Pio XII ribadisce chiaramente la teoria sulla gerarchia dei fini matrimoniali, ricordando come la Santa Sede, nel Decreto del 1944, aveva considerato inaccettabile l'opinione di coloro che «negavano che il fine primario del matrimonio fosse la procreazione e l'educazione della prole, o insegnavano che i fini secondari non fossero essenzialmente subordinati al fine primario ma equipollenti e da esso indipendenti» (AAS 43 (1951) 849).
Si può comunque sostenere (e maggiormente con la prospettiva degli anni) che il rifiuto dell'"indipendenza" o non-connessione tra i fini fu l'aspetto più importante del Magistero di Pio XII sul tema, mentre il notevole vigore del suo insegnamento era dovuto al fatto che alcune presentazioni della tesi personalistica, che apparvero negli anni 1930, sembravano omettere completamente la finalità procreativa del matrimonio, sostenendo che l'atto di amore coniugale tra gli sposi può essere, di per sè, pieno di significato, anche quando si annulla il suo orientamento procreativo. Si può quindi vedere come il pensiero di Pio XII sia intimamente collegato con quello di Paolo VI in Humanae Vitae, quando egli insegna l'inseparabilità naturale ed essenziale dell'aspetto unitivo e di quello procreativo dell'atto coniugale. Va notato pure il collegamento che c'è con il pensiero di Gaudium et Spes (n. 51, par. 2). Durante tutte queste decadi, il Magistero ha dimostrato in maniera decisa il suo rifiuto a qualsiasi presentazione del personalismo matrimoniale che tendesse ad appoggiare la filosofia contracettiva.
In ogni caso, malgrado l'opposizione che determinate espressioni del personalismo incontrarono durante il pontificato di Pio XII, la linea generale della teoria non perse forza. Non solo emersero con pieno vigore, nelle aule conciliari, durante i quattro anni del Concilio Vaticano II, bensì conquistarono pure quella che, agli occhi di molti, fu una vittoria definitiva.
Senza dubbio, la visione del matrimonio offerta dalla Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo Moderno è fortemente personalistica. Gaudium et Spes descrive il matrimonio come «intima comunità di vita e d'amore», presenta il consenso matrimoniale come «mutua donazione di due persone...», ed insiste sul fatto che marito e moglie, aiutandosi e servendosi reciprocamente, «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la raggiungono» (n. 48).
Particolare attenzione viene riposta sul ruolo e la dignità dell'amore coniugale (naturalmente, non presentato come un fine). La Costituzione ne esalta l'importanza, descrivendolo come amore «eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà; abbraccia il bene di tutta la persona, e perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità i sentimenti dell'animo e le loro manifestazioni fisiche e di nobilitarli come elementi e segni speciali dell'amicizia coniugale... conduce gli sposi al libero e mutuo dono di se stessi, provato da sentimenti e gesti di tenerezza, e pervade tutta quanta la vita dei coniugi». La Costituzione sottolinea pure «l'uguale dignità personale sia dell'uomo che della donna», affermando che «deve essere riconosciuta nel mutuo e pieno amore» (n. 49).
Mentre si afferma che il matrimonio sia stato istituito da Dio, «dotato di molteplici valori e fini», non si specifica quali siano questi fini (a parte la procreazione), e non viene neppure indicato alcun tipo di gerarchia tra di essi (n. 48). E' particolarmente interessante notare che, mentre l'ordinazione naturale ed intrinseca del matrimonio e dell'amore coniugale alla procreazione viene espressa due volte (nn. 48, 50), si ha solo una breve referenza al "mutuum auditorium" (non chiaramente indicato come fine), mentre il "remedium concupiscentiae" non viene assolutamente menzionato.
Quest'ultima esposizione di idee sembrerebbe appoggiare l'impressione che abbiamo suddetto e che risulta abbastanza comune: solo dopo mezzo secolo, con il Concilio Vaticano II, il personalismo prevalse sulla visione istituzionale del matrimonio e finalmente ricevette il riconoscimento ufficiale - anche se forse riluttante - del Magistero.
Ora però quest'impressione, sebbene comune, non è esatta. Non è corretto suggerire che il personalismo coniugale non incontrò nient'altro che opposizioni da parte dell'insegnamento magisteriale fino al Vaticano II. Se si risale all'età precedente a Pio XII, si può incontrare un primo statuto per lo sviluppo di questa comprensione personalistica, emanato nel 1930 dallo stesso Magistero pontificio, nella Enciclica Casti connubii di Pio XI.
L'affermazione (la cui introduzione suole attribuirsi comunemente al Concilio Vaticano II) che il consenso e l'unione coniugale comportano la «generosa donazione della propria persona», si può già riscontrare in questa Enciclica (AAS 22 (1930) 553), ed anticipa quindi il Concilio di più di 30 anni. Il Papa Ratti loda l'amore tra marito e moglie, che «nel matrimonio cristiano tiene come il primato della nobilità», ed in un passo importante sottolinea come questo dovrebbe condurre al loro sviluppo personale e spirituale: l'amore coniugale «deve estendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo, che i coniugi si aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore...; una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, con l'assiduo studio di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo... si può dire anche primaria ragione e motivo del matrimonio...» [3]. E' un passo sul quale avremo l'occasione di tornare.
Il personalismo coniugale delineato dal Vaticano II aveva quindi un suo precedente, nel magistero di Pio XI; e rappresenta ovviamente una nota dominante dell'insegnamento sul matrimonio di Giovanni Paolo II. La sessualità ed il matrimonio, interpretati in un prisma fortemente personalistico, costituivano, infatti, il tema scelto per una lunga catechesi papale che comprendeva i primi anni dell'attuale pontificato [4]; ed hanno continuato ad apparire spesso da allora. Il risultato - e ciò appare ora fuori da ogni questione - è che una visione personalistica del matrimonio si sia decisamente affermata nell'insegnamento magisteriale.
Il personalismo coniugale ed il Codice di Diritto Canonico
Inoltre, non senza resistenza, il personalismo coniugale si è fatto strada nel Diritto Canonico, che molti classificherebbero come la più conservatrice tra le scienze ecclesiastiche. Uno dei cambi più significativi introdotti dal nuovo Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1983, si ritrova nella definizione dell'oggetto del consenso matrimoniale. Quest'ultimo non consiste più (come nel Codice del 1917) nell'intercambio del "diritto sul corpo", con le sue connotazioni fisiciste, bensì in quel «atto della volontà con cui l'uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio» (can. 1057, § 2). Qui ci si presenta il fondamentale concetto personalistico del matrimonio come auto-donazione: il "se tradere". Potremmo pure aggiungere che la giurisprudenza richiederà non poco tempo di riflessione prima di affermare in modo soddisfacente il contenuto e le conseguenze esatte - in termini giuridici - di questa formula personalistica. Mentre l'effetto delle idee personalistiche si possono ritrovare in vari canoni sul consenso matrimoniale - il dolo (c. 1098), ad esempio, o il «metus» (c. 1103), per non menzionare il c. 1095 - si può notare specialmente nel primo canone sul matrimonio, il quale definisce la natura e la finalità del matrimonio stesso: «Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento» (can. 1055, § 1).
Qui, in quello che Giovanni Paolo II ha descritto come «l'ultimo documento del Concilio Vaticano II» (AAS 76 (1984) 644), ci viene data una breve formula di massima importanza, che sottolinea non solamente un'applicazione magisteriale, bensì un chiaro sviluppo del personalismo coniugale di Gaudium et Spes. Va notato in modo particolare lo sviluppo dall'affermazione piuttosto vaga sul matrimonio istituito con "vari" o "molteplici" fini, oltre alla procreazione (Gaudium et Spes 48; 50), all'enunciazione specifica di due fini del matrimonio [5].
Ciò che ci interessa particolarmente in questa definizione o descrizione del matrimonio, è l'introduzione del concetto altamente personalistico del "bene dei coniugi" - il bonum coniugum - , presentato ora, assieme alla procreazione/educazione della prole, come uno dei fini del matrimonio. In altra sede [6] abbiamo analizzato la genesi del termine "bonum coniugum" e la storia della sua incorporazione al Codice del 1983. E' importante tenere in mente che stiamo trattando, in questo caso, con un termine nuovo, che solo molto eccezionalmente si ritrova nella letteratura ecclesiastica prima che venisse accettato nel 1977 nello schema per il nuovo Codice.
Il termine fu accettato alla fine di un prolungato dibattito - all'interno della commissione Pontificia per la revisione del Codice - sui possibili modi di esprimere il fine o i fini "personali(isti)" del matrimonio (Communicationes 1977, 123). Va notato che la Commissione parlò in un primo momento del "bonum coniugum" come modo per esprimere il "finis personalis" del matrimonio. Alcuni commentatori si servirono di ciò per suggerire che, con il "bonum coniugum", la Commissione desiderava esprimere i fini soggettivi dei coniugi. D'accordo con quest'interpretazione, il "bonum coniugum" verrebbe a significare il "finis" o i "fines operantis": amore, sicurezza, felicità, soddisfazioni personali, ecc. La Commissione stessa, un pò di tempo dopo (precisamente nel difendere la espressione "bonum coniugum" contro alcune critiche), trovò opportuno rifiutare esplicitamente questa interpretazione, lasciando chiaro che il "finis personalis" viene inteso oggettivamente e non soggettivamente: «L'ordinazione del matrimonio al «bonum coniugum» è infatti un elemento essenziale dell'alleanza coniugale, e non un fine soggettivo della persona che si sposa» (Communicationes 1983, 221). E' importante tenerlo presente: l'espressione "bonum coniugum" si riferisce al "finis operis" e non al "finis operantis", cioè, al dinamismo intrinseco del matrimonio, ai fini che possiede in se stesso, e non a quelli che le persone concrete che si sposano possono proporsi [7].
I fini del matrimonio
Abbiamo visto che Gaudium et Spes non è sufficientemente chiaro, nello specificare i fini del matrimonio. Comunque, è interessante esaminare nel documento le note a piede di pagina che accompagnano l'affermazione, piuttosto generale, che Dio stesso ha assegnato al matrimonio «vari beni e fini». Il primo riferimento è al De bono coniugali di sant'Agostino, specificamente ai passaggi dove espone la sua dottrina dei tre "beni" matrimoniali - "fides, proles, sacramentum" - ; questa è seguita dalla referenza al Supplementum (q. 49, art. 3 ad 1), dove san Tommaso commenta i "beni" agostiniani.
San Tommaso (nell'articolo riferito del Supplemento) afferma che «proles est matrimonii finis». Gaudium et Spes, collocandosi sulla linea di tutta la tradizione ecclesiastica, lo conferma, dichiarando per due volte che il matrimonio e l'amore coniugale sono per loro natura ordinati alla procreazione, come fine. Stupisce, invece, il fatto che la Costituzione in nessuna parte esprima il fine personale [-istico] al quale il matrimonio è ordinato. A parte la predominante nota personalistica dei nn. 48/49 della Costituzione, essa non offre di fatto alcuna frase o formula di cui si potrebbe affermare che esprima il fine personalistico con la stessa chiarezza con la quale segnala il fine procreativo. C'e una breve frase (che ricorda ed in qualche modo vuole senza dubbio esprimere l'antico "fine secondario" del "mutuum adiutorium"): «l'uomo e la donna si prestano un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone»; però non ci viene detto quale sia il contenuto o ultima finalità di questo aiuto mutuo. Penso che una traccia, per arrivare a stabilire la natura del fine personalistico, sia già stata data con l'affermazione che i "diversi" fini del matrimonio sono di somma importanza per «il progresso personale e il destino eterno di ciascuno dei membri della famiglia»; ritorneremo su questo punto in seguito.
Nel frattempo comunque, penso sia necessario riconoscere che una semplice lettura di Gaudium et Spes non rivela con chiarezza il contenuto del fine personalistico. Il fatto è che la formula concisa del can. 1055 - che il matrimonio è ordinato al bene dei coniugi - non si riscontra nei documenti conciliari e che, solamente da essi, non è facile estrarre una nozione chiara riguardo al suo significato esatto.
Questa mancanza di desiderabile chiarezza forse spiega il fatto che alcuni (discutendo pure sulla base che si può dare un solo fine principale) sostengono che il Concilio non ha di fatto introdotto alcuna vera modificazione nella dottrina anteriore a proposito della distinzione e della gerarchia dei fini primari e secondari. Comunque, il fatto è che il Concilio ha deliberatamente voluto evitare l'espressione "gerarchia" di fini, giacché la considerava come "nimis technica", nel contesto di un insegnamento pastorale (cfr. Acta Synodalia, vol. IV, pars VII, p. 478; cfr. ibid. p. 472; ac pars VI, p. 487). Un'opinione assai generalizzata è che la dottrina della gerarchia dei fini sia stata sostituita da una nella quale abbiamo due fini di uguale importanza: il fine procreativo-istituzionale e quello personalistico.
Altri, senza dubitare che il prolungato dibattito delle ultime decadi abbia creato una tensione o opposizione ingiustificata e lamentevole nei vari fini ed aspetti del matrimonio, suggeriscono che l'intenzione del Concilio fu quella di superare questo senso di opposizione e di dimostrare l'unità essenziale in questi aspetti. Così ci viene detto, ad esempio: «il Vaticano II ha cercato di ricomporre in unità i due aspetti, quello personale e quello istituzionale del matrimonio, per cui l'amore coniugale non va separato dalla procreazione» [8].
Due fini istituzionali interconnessi
Personalmente considero che il dibattito sulla gerarchia dei fini sia improduttivo e che sia preferibile evitarlo, essendo l'interrelazione e la inseparabilità dei fini ciò che è importante e che quindi deve attrarre la nostra attenzione. Prima però di inoltrarci in quest'ultimo, c'è un punto molto importante che richiede un chiarimento - un fondamentale malinteso di categoria che ha accompagnato constantemente il dibattito sul tema, e che continuerà a creare confusione se non si mette in luce e soprattutto se non si corregge.
Tanto quelli che insistono sull'uguale dignità dei fini del matrimonio, quanto quelli che continuano a difendere la tesi di una subordinazione gerarchica (come pure quelli che desiderano sottolineare l'unità dei fini: come nella citazione appena data), tendono a contrastare o semplicemente a distinguere questi fini come se uno (il procreativo) costituisse il fine istituzionale, mentre l'altro (il "bonum coniugum"), il fine personalistico.
A mio avviso, un tale contrasto deve essere decisamente rifiutato. Entrambi i fini - il procreativo ed il personalistico - SONO ISTITUZIONALI!
Ciò significa (ed è fondamentale capirlo [9], che entrambi derivano dall'istituzione stessa del matrimonio. Il matrimonio, in altre parole, possiede due fini istituzionali.
Per fini istituzionali del matrimonio si intende, ovviamente, quei fini che vennero stabiliti alla sua stessa istituzione, ossia quelli che gli furono assegnati da Colui che lo istituì o lo creò, cioè, da Dio stesso. E' il progetto di Dio, così come ci fu rivelato originalmente, che deve stare alla base della nostra analisi dei fini per i quali fu istituito il matrimonio.
Mi pare che, nella storia del nostro tema, sia stata data poca importanza a qualcosa che dovrebbe essere enormemente affascinante per quelli che cercano nelle Scritture la chiave ai disegni di Dio: il fatto delle due narrazioni diverse che il Libro della Genesi offre, nel primo e secondo capitolo, della creazione dell'uomo - maschio e femmina - e dell'istituzione del matrimonio. Una narrazione esprime una finalità chiaramente procreativa, mentre l'altra può ragionevolmente venir qualificato come personalistica. Il primo, il cosiddetto testo "elohista", dice così: «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi»...» (Gen 1, 27-28). L'altro, il testo "yahvista" (che si suole considerare come anteriore al primo riguardo alla data di composizione), dice: «Jahve Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui"»; (così Dio creò la donna... e, la narrazione continua) «Perciò l'uomo si unisce alla sua donna e i due diventano una sola carne» (Gen. 2, 18-24).
Le due narrazione scritturistiche dell'istituzione
Non bisogna essere degli esperti scritturisti per suggerire che questa doppia narrazione non è "accidentale", nè corrisponde ad un "lapsus calamae" da parte dello Spirito Santo. Non sarebbe giustificato attribuire la presenza delle due narrazioni al caso, nè considerare la connessione tra esse come semplicemente estrinseca. Sicuramente, stiamo piuttosto davanti a qualcosa di deliberato: due narrazioni complementari, connesse in modo da corrispondere alla logica dei piani divini, secondo i quali la finalità istituzionale del matrimonio si presenta tanto procreativa quanto personalistica.
Nel testo eloista si sottolinea la relativa perfezione dell'uomo. E' creato a immagine di Dio, ed è quindi la massima espressione visibile della bontà della creazione. La distinzione dei sessi («maschio e femmina li creò») appare come una chiave alla missione che l'uomo ha di portare avanti, tramite la procreazione, l'opera di creazione. L'idea della bontà di questa missione che è stata assegnata, caratterizza il passo.
Nella versione yahveista, è piuttosto l'incompletezza dell'uomo che si sottolinea. L'uomo (maschio o femmina) è incompleto, se rimane solo; e ciò non è cosa buona: «non est bonum». Il piano normale di Dio è che l'uomo incontrerà la bontà che gli manca in unione con un membro dell'altro sesso, e questa unione deve portare al bene di ognuno e di entrambi: al "bonum coniugum".
Come appare dalla Scrittura, quindi, il disegno di Dio all'istituire il matrimonio è pure personalistico. Il matrimonio è istituzionalmente diretto non solo all'incremento della razza umana attraverso una procreazione razionale all'interno di un ambiente familiare, ma pure all'"incremento" delle persone che si sposano, al loro sviluppo o perfezionamento in relazione al destino personale di ognuno.
Se non è bene che l'uomo o la donna stiano senza un compagno, quale è il bene, il vero "bonum coniugum" che Dio aveva in mente, nell'istituire il piano della collaborazione e della relazione sessuale all'interno del matrimonio? Che tipo di "adiutorium" - aiuto - voleva che ogni coniuge fosse per l'altro? Pensava unicamente ad un "solacium" per questa vita, niente più, preoccupato solamente del bene temporale dell'uomo? Sembrerebbe ragionevole affermare che la prospettiva divina arrivò più avanti.
La natura del "bonum coniugum"
La natura e l'ultimo fine dell'"aiuto" che gli sposi dovrebbero darsi deve mirare al perfezionamento integrale di ognuno come persona chiamata alla vita eterna. In ciò consiste l'autentico "bonum coniugum". Questa tesi viene fortemente appoggiata dal Magistero recente.
La recente opera ufficiale che raccoglie le "fonti" del nuovo Codice (Libreria Editrice Vaticana 1989) segnala la Casti connubii, come fonte principale del can. 1055. In quello stesso importante passaggio dell'Enciclica a cui ci siamo riferiti prima, ritroviamo delle parole che, a parere mio, descrivono l'essenza del "bonum coniugum". Pio XI insiste sul fatto che l'amore coniugale «non comprende solo il vicendevole aiuto, ma deve estendersi altresi, anzi mirare soprattutto a questo, che i coniugi si aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore sicchè nella loro vicendevole unione di vita crescano sempre più nella virtù, massimamente nella sincera carità verso Dio e verso il prossimo» (AAS 22 (1930) 548). Pio XI sembra affermare che le interpretazioni, per tradizionali che siano, secondo le quali il "mutuum adiutorium" consisterebbe nel solo appoggio fisico e psicologico per gli affari mondani, sono insufficenti. E' in relazione al loro "bonum" definitivo - lo sviluppo in virtù e santità - che i coniugi dovrebbero aiutarsi.
Questa tesi potrebbe essere confermata da altre fonti indicate del can. 1055 che includono (ed è interessante constatarlo) l'Allocuzione del 1951 di Pio XII nella quale si parla del «personale perfezionarsi dei coniugi» come fine secondario del matrimonio (AAS 43 (1951) 848-849). Anche Gaudium et Spes (n. 48) viene indicata, come pure i nn. 11 e 41 di Lumen Gentium ed il n. 11 di Apostolicam Actuositatem. Gaudium et Spes parla in termini della umana e soprannaturale crescita degli sposi: «prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la raggiungono... Compiendo il loro dovere coniugale e familiare... tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione»
Che il matrimonio sia diretto essenzialmente alla santificazione dei coniugi, è una conclusione che sembra dedursi necessariamente dalla sua sacramentalità. In questo senso, il personalismo di Casti connubii non faceva altro che sviluppare l'insegnamento del Concilio di Trento, che la grazia (nel matrimonio) è diretta ad «amorem perficere..., coniugesque sanctificare» [10]. In altre parole, la grazia sacramentale del matrimonio porta gli sposi alla santità tramite il perfezionamento (nel senso più autentico) del loro amore coniugale [11].
Aiuto mutuo: mutuo perfezionamento?
Doveroso è riconoscere che un grande aiuto, per una comprensione personalistica del matrimonio, non si riceve dalla tradizione teologica classica. Ci siamo già riferiti al poco interesse che si ebbe per l'idea del "mutuum adiutorium" (ed al poco contenuto che le venne attribuito). I teologi del XII secolo, ad esempio, menzionano raramente il concetto; e quando lo fanno, è generalmente con un riferimento - non sviluppato - all'"humanitatis solacium" di Sant'Agostino [12]. Rimane sorprendente il fatto che, sebbene l'espressione "mutuum adiutorium" sia chiaramente presente nella Scrittura («faciamus ei adiutorium simile sibi»: Gen 2, 18), sia stata, nei secoli, oggetto di così poca considerazione per i teologi.
La posizione di san Tommaso merita un accenno speciale. Se facciamo una domanda tipica del XX secolo - se l'Aquinate vide nella sessualità, in quanto tale, una funzione per la "realizzazione" della persona umana - la risposta sarà senza dubbio che egli, con il resto del Medioevo, non pensò mai in tali termini (cfr. M.-J. Nicolas: Remarques sur le sens et la fin du mariage, «Revue Thomiste» 45 (1939), p. 792). Ne consegue che egli non si soffermò mai sull'arrichimento mutuo - all'infuori della sfera puramente procreativa - della relazione complementare tra marito e moglie, e sul suo ruolo nello sviluppo della maturità umana?
No. In giustizia alla ricchezza germinale del pensiero di San Tommaso, bisognerà riferirsi ai suoi testi fondamentali che rivelano chiari elementi di una comprensione personalistica.
Riferendosi specificatamente al testo yahveista della Genesi, parla dell'amicizia speciale che esiste tra marito e moglie: «fra il marito e la moglie apparisce esservi grandissima amicizia; imperocchè si uniscono non tanto nell'atto della copula carnale, che pur produce una certa soave amicizia fra gli animali, ma pel consorzio di tutta la conversazione domestica; laonde, in segno di ciò, l'uomo lascia, per la moglie, e la madre el il padre, come è detto nel Genesi» [13]. Cita Aristotele con approvazione: «A detta del Filosofo, l'amicizia tra marito e moglie è naturale, e racchiude in sé il bene onesto, utile e dilettevole» [14]. Afferma: «la forma del matrimonio consiste nella indivisibile unione degli animi: che obbliga ciascuno dei coniugi a mantenersi perpetuamente fedele all'altro» [15], ed in un'altra parte insiste dicendo che «nel matrimonio non c'è soltanto un'unione corporale, ma anche spirituale» [16].
Insegna che l'uomo tende naturalmente al matrimonio, non solo per causa della prole, bensì pure per «l'aiuto reciproco dei coniugi nella vita di famiglia». Presenta la differenza tra i sessi come una particolare espressione dell'aiuto degli altri, che l'uomo necessita: «Infatti la ragione naturale come spinge gli uomini ad abitare insieme, perché uno non basta a se stesso nelle necessità della vita, ragion per cui si dice che l'uomo è «per natura un animale politico»; così nelle necessità della vita umana alcuni uffici spettano agli uomini ed altri alle donne». E così conclude: «Perciò la natura consiglia una convivenza dell'uomo con la donna, nella quale appunto consiste il matrimonio» [17].
Un passo nel "Supplemento" dimostra che, a parere suo, il ruolo della moglie come aiutante dell'uomo non la colloca ad un livello inferiore, visto che essa si mantiene in parità con lui, come socia: «rispetto al fine secondario che è il governo della famiglia e lo scambio dei servizi, la moglie è unita al marito come compagna» (quantum ad secundum finem, qui est dispensatio familiae et communicatio operum, uxor coniungitur viro ut socia (q. 65, art. 5)). Sottolinea il fatto che il matrimonio non esiste solamente in funzione della procreazione, bensì possiede altri fini, più personalistici: «Gli uomini non si sposano soltanto per procreare ed allevare dei figli, ma anche per vivere insieme, scambiandosi i servizi». Quindi si pone la domanda se questa "operum communicatio", questa mutua condivisione tra uomo e donna non andrebbe descritta come un "bonum matrimonii", alla pari con il "bonum prolis": «Quindi, come tra i beni del matrimonio si enumera la prole, dovrebbe [così sembra] anche enumerarsi l'aiuto reciproco» [18].
E' importante non sopravvalutare e nemmeno trascurare questi testi. Offrono una base sulla quale una comprensione più profonda dell'"aiuto mutuo" potrebbe essersi sviluppata (cosa che di fatto non successe). Ho voluto richiamarle specialmente, non per mettere in dubbio il fatto che il concetto procreativo del matrimonio è stato dominante nei secoli, bensì semplicemente per suggerire che certe note di un personalismo matrimoniale si possono riscontrare pure nelle opere di grandi autori ecclesiastici del passato [19]; e quindi il personalismo moderno può giustamente affermare di basarsi su una tradizione della quale è di fatto uno sviluppo.
Dobbiamo comunque riconoscere che il concetto del "mutuum adiutorium" mantenuto da san Tommaso (ed in generale dai suoi successori) si muove su un piano fondamentalmente naturale e terreno, con poca o nessuna referenza alla finalità soprannaturale - santificazione personale - dell'aiuto mutuo come suo ultimo fine.
L'Angelico, assieme ad altri prima di lui incluso sant'Agostino, e soprattutto a coloro che seguirono fino ai giorni nostri, sembra interpretare il piano Divino, nel dare un compagno all'uomo o alla donna, come quello di aiutarsi negli affanni e vicissitudini solamente di questa vita. E a noi sembra che questa interpretazione sia inadeguata.
Una visione così limitata può derivare solamente da una tendenza generale e prolungata a considerare il matrimonio esclusivamente come un "officium" o "munus", e da una incapacità di contemplarlo pure come mezzo di perfezione personale cristiana (cfr. Nicolas: op. cit., p. 779). L'importanza della formulazione del can. 1055 sta precisamente nel fatto che supera questa prospettiva limitata, sottolineando che il matrimonio è stato istituito non solo per la procreazione, ma anche per l'autentico bene di marito e moglie, così come Dio lo intende.
Il "bonum coniugum": più ampio dal "mutuum adiutorium"
Risulta naturale domandare qual è la relazione tra il "mutuum adiutorium" ed il "bonum coniugum". Devono semplicemente identificarsi? E se è così, possiamo affermare che l'antico fine secondario è stato elevato al rango di un fine uguale co-principale? Anche se questa potrebbe sembrare un tesi logica, ha contra di essa il fatto che Gaudium et Spes in nessuna parte parla del "mutuum adiutorium" come fine (afferma semplicemente che i coniugi «mutuum sibi adiutorium... praestant»: n. 48). Inoltre, i Consultori del nuovo Codice ignorarono l'opzione (piuttosto ovvia) di scegliere "aiuto mutuo" per esprimere il fine personalistico (istituzionale) del matrimonio, preferendo il nuovo termine, "bonum coniugum" [20].
A mio avviso, mentre il "bonum coniugum" abbraccia il tradizionale contenuto del "mutuum adiutorium" (il quale va quindi considerato come assorbito in esso), è di fatto molto più ampio. Questo è un punto di non poco interesse visto che, mentre il diritto canonico fu la prima disciplina a ricevere e dare uno "status" ufficiale al "bonum coniugum", il termine racchiude in sè una tale ricchezza che è capace di suscitare riflessioni particolarmente fruttuose in ampi settori della teologia.
Per quanto innovativa l'espressione "bonum coniugum" possa apparire, le sue credenziali scritturistiche sono, almeno, tanto valide quanto quelle del "mutuum adiutorium", provenendo dallo stesso passo nella Genesi. Fu precisamente perchè non era bene per l'uomo o per la donna essere soli, che gli fu dato un aiuto: «non est bonum esse hominem solum; faciemus ei adiutorium...» L'aiuto, quindi, fu dato per il suo bene: suo "bonum". Dio volle che la donna, come sposa, fosse un aiuto per il raggiungimento del bene dell'uomo, suo marito; e che l'uomo, come marito, fosse un aiuto per il raggiungimento del bene della donna, sua moglie. Il "mutuum adiutorium" appare come chiaramente ordinato al "bonum coniugum".
E' interessante ricordare, a questo punto, un passo di sant'Agostino. Egli scrive che Dio, dopo aver creato l'uomo, «gli fece anche la donna come aiuto... affinché l'uomo avesse gloria dalla donna, in quanto la precedesse nel cammino di Dio, e si offrisse come esempio da imitare nella santità e la pietà» [21]. Così considerato, l'aiuto mutuo consiste specialmente nell'essere un'ispirazione per un avanzamento verso Dio «in santità e pietà». Questi scrittori antichi non estendono le loro considerazioni all'aspetto reciproco della relazione uomo-donna, divinamente istituita. Noi invece possiamo fare questa estensione, affermando che come è l'uomo per la donna, così è la donna per l'uomo: un aiuto ed una ispirazione nel tentativo condiviso di avanzare verso Dio in questo "bonum" fondamentale (quest'ultima "auto-realizzazione") rappresentato dalla santità personale.
Cosa bisogna dire sul "remedium concupiscentiae" che, assieme al "mutuum adiutorium", era solito essere classificato come uno dei due fini secondari del matrimonio? F. Bersini sostiene che, assieme al "mutuum adiutorium", sia ora incluso nel "bonum coniugum" (Il Nuovo Diritto Canonico Matrimoniale, Torino 1985, p. 18). Io preferirei credere che il concetto di "rimedio alla concupiscenza" sia stato definitivamente abbandonato dal pensiero cattolico.
Mentre non è possibile negare la forza della tradizione teologica che considera il matrimonio come un sacramento "di rimedio", istituito, almeno in parte, per essere un rimedio al peccato più che un aiuto verso la virtù [22], si può metter in dubbio il merito di questa tradizione che è stata segnalata da un'ingiustificata (sebbene duratura) tendenza a parlare della concupiscenza come se fosse sinonimo solamente dell'appetito sessuale. Quest'appetito sessuale, in quanto tale, è totalmente buono e non necessita un "rimedio". E' l'aspetto disordinato di questo appetito, presente fin dal Peccato Originale, che viene definito, propriamente, come concupiscenza. Se la concupiscenza non è nè piacere nè passione sessuale, bensì un disordine in entrambe le realtà, quindi non è il matrimonio, ma la castità (inclusa la castità coniugale), quella che offre un vero rimedio a questo disordine (cfr. il saggio dell'autore: Sant'Agostino e la Sessualità Coniugale, in «Annales Theologici» 5 (1991) 185-206). La sessualità come tale non ha bisogno di un rimedio; il suo disordine, la concupiscenza, sì. Il matrimonio è lo sbocco legittimo per la sessualità, però non per la concupiscenza, la quale ha bisogno di essere purificata, non legittimata; questa purificazione è precisamente il compito della virtù della castità.
L'uso del termine "remedium concupiscentiae" sembrava aver avuto effetti altamente negativi, e meritare l'oblio nel quale ora sta rapidamente cadendo [23]. Già prima del Concilio, alcuni scrittori tendevano a altre espressioni a quella del "remedium" [24]. Tra l'altro si può far notare che nè il Concilio, nè il Codice lo menzionano.
Le esigenze del personalismo matrimoniale
Alcuni critici fanno consistere il "bonum coniugum" nell'"integrazione" psichica, affettiva, fisica o sessuale dei coniugi. Tale criterio appare inadeguato dal punto di vista cristiano, non solo perchè non considera il bene dei coniugi nell'aspetto soprannaturale, ma anche perchè tende a ridurre il "bonum coniugum" ad una questione di naturale "compatibilità". Da ciò è facile arrivare a sostenere che l'apparente incompatibilità è nemica del bene dei coniugi, quando l'esperienza pastorale dimostra invece che molti matrimoni, particolarmente "integrati", sono formati da coppie con caratteri estremamente diversi e apparentemente opposti, che avrebbero potuto diventare "incompatibili" se non avessero deciso (con uno sforzo che evidentemente li ha maturati) di non permettere che ciò avvenisse.
Similmente, far consistere il "bonum coniugum" nel raggiungimento di una vita comoda, senza problemi nè preoccupazioni, non è in armonia con la comprensione cristiana dell'autentico bene della persona umana. Infatti, difficilmente si riesce a comprendere il "bene dei coniugi" con un'ottica cristiana, se non viene visto come il risultato dell'aspetto d'impegno dell'alleanza matrimoniale.
Ciò spiega perchè non possiamo accettare determinate analisi, che vedrebbero nel personalismo coniugale solamente un rinnovato riconoscimento della dignità dell'amore tra gli sposi. Quest'interpretazione rimane facilmente alla superficie dell'assunto, specialmente se insiste nei "diritti" o aspettative dell'amore e non, almeno in uguale misura, nei suoi "doveri" ed esigenze. Il vero personalismo guarda alla maturazione della persona, ed è, ripetiamo, l'impegno del matrimonio - con le esigenze di un amore fedele e santificato - che porta i coniugi alla completa maturazione personale: la loro santificazione, nella quale consiste il "bene" autentico e definitivo.
Abbiamo scritto da un'altra parte (La Felicità Coniugale, Ed. Ares, Milano 1990, pp. 51ss) a proposito della moderna tendenza di vedere, nei "bona" agostiniani, non principalmente dei "valori" e "benefici" della condizione matrimoniale, ma piuttosto la pesante obbligazione che essa impone. Ciò vale principalmente per il "bonum sacramenti" (l'indissolubilità) e per il "bonum prolis" (la prole). E' vero che la piena accettazione di questi beni richiede uno sforzo prolungato, però è pure vero che questo sforzo, a parte il fatto che è fonte di felicità, opera una profonda maturazione sulle persone che lo affrontano.
Gaudium et Spes (seguendo Casti connubii) insegna che è «in vista del bene sia dei coniugi e della prole che della società» che il vincolo matrimoniale è stato istituito come inspezzabile (n. 48; cfr. Casti connubii AAS 22 (1930) 553). L'indissolubilità quindi favorisce positivamente il "bonum coniugum". Il punto è certamente che lo sforzo ed il sacrificio necessari per la fedeltà all'aspetto inspezzabile del legame - nei momenti felici e in quelli tristi, ecc.- serve a sviluppare ed a perfezionare le personalità dei coniugi. Una simile lettura va senza dubbio fatta al passo nel n. 50 di Gaudium et Spes il quale afferma che «i figli contribuiscono pure alla santificazione dei genitori». I figli arricchiscono la vita dei loro genitori in molti modi umani, e non meno in virtù della generosa dedicazione che tendono ad evocare in essi.
Il fatto è che non è facile per due persone vivere assieme per tutta la vita, in un'unione fedele e fruttuosa. E' più "facile" per ognuno vivere separatamente, o unirsi casualmente o per un breve periodo, o evitare di aver figli. E' più facile, ma non più felice, e tanto meno contribuisce al loro sviluppo come persone. «Non est bonum homini esse solus»: non è bene per l'uomo vivere da solo, o in una serie di brevi associazioni che tendono ad intrappolarlo sempre più in un isolamento egoistico. L'impegno matrimoniale non è un'impresa facile; però, a parte essere un'impresa felice, fa anche maturare. Non esiste un autentico personalismo coniugale che ignori e non riesca a comprendere e sottolineare la bontà - per gli sposi - del compromesso matrimoniale.
Giovanni Paolo II, in Familiaris Consortio, parla dell'indissolubilità come di un qualcosa di allegro che i cristiani dovrebbero annunciare al mondo: «è necessario ribadire il lieto annuncio della definitività di quell'amore coniugale» (Familiaris Consortio, n. 20 (AAS 74 (1982) 103)). Se questa affermazione sorprende molte persone al giorno d'oggi, ciò dimostra quanto lontana sia la società contemporanea dal comprendere il piano divino per l'autentico bene dell'uomo.
Indubbiamente esistono parecchie situazioni matrimoniali attraverso le quali un'analisi puramente umana può facilmente concludere che il bene dei coniugi non è stato o non può essere raggiunto: ad esempio, quando uno degli sposi, abiurando il suo compromesso matrimoniale, abbandona l'altro. Ha senso parlare del "bonum coniugum" in tali situazioni?
Certamente, per quanto riguarda lo sposo infedele, risulta difficile vedere come il matrimonio potrebbe aiutarlo più a raggiungere il suo "bene". Invece, può ancora contribuire poderosamente al bene dell'altro, se rimane fedele al vincolo del matrimonio. Inoltre, se questa fedeltà viene mantenuta può, secondo i piani provvidenziali di Dio, essere come un richiamo al pentimento, come una forza di salvezza, per lo sposo infedele, forse nell'ultimo istante della sua vita sulla terra - quando il "bonum" definitivo di ognuno viene deciso.
Il fatto che si possa captare la potenzialità positiva di tali situazioni esclusivamente alla luce della sfida cristiana della croce, non scredita l'analisi. D'altronde, se è vero che in alcun caso concreto questo potenziale positivo può non realizzarsi, ciò riflette semplicemente il rischio ed il mistero della libertà umana.
Il personalismo del rapporto e della facoltà procreativa umana
Se è un errore non considerare il carattere istituzionale del fine personalistico del matrimonio, è peggio non riconoscere il carattere personalistico della procreatività coniugale. Parlare in modo dispregiativo del "biologismo", quando si sottolinea l'aspetto procreativo del matrimonio, denuncia una comprensione radicalmente incompleta del personalismo matrimoniale. Niente può esprimere in modo così singolare la relazione coniugale ed il desiderio di unione degli sposi, quanto il rapporto coniugale - quando è aperto al suo potenziale procreativo. In fin dei conti, perchè il rapporto sessuale tra moglie e marito viene definito come "l'atto coniugale"? Tra tutte l'espressioni possibili dell'amore tra i coniugi, cos'è che lo rende così singolare, così particolarmente capace di esprimere il desiderio di unione? In ultima analisi, non è nient'altro che il fatto che esso rappresenta il dono e l'accettazione del seme della vita. I coniugi, in modo unico, esprimono il loro amore reciproco e sono uniti nel rapporto, perchè ognuno, in effetti, dice all'altro: «Con questo atto sono disposto a condividere con te, e solo con te, questo potere così unico che Dio ci ha dato: il potere di fondere assieme una parte della vita di ognuno di noi [25], in modo che, unendosi, diventano una nuova vita: nostro figlio, l'espressione viva ed il frutto della nostra unione e del nostro amore». L'unione degli sposi, «in una sola carne», tende ad incarnarsi in un nuovo individuo - specchio ed espressione della loro comunione ed amore coniugali (cfr. La Felicità Coniugale, pp. 44-45).
La vera unione tra persone libere implica sempre donazione. Nel caso dell'atto coniugale, il rapporto è unitivo in virtù del carattere assolutamente singolare della donazione che comporta: il dono della procreazione. Da ciò deriva l'inseparabilità intrinseca dell'aspetto unitivo e di quello procreativo dell'atto coniugale (cfr. Humanae Vitae, n. 12).
Un rapporto contracettivo è fondamentalmente anti-personalistico. Siccome distrugge deliberatamente quel singolare aspetto dell'atto coniugale che la transforma in un atto veramente unitivo, costituisce un rifiuto della sessualità dell'altro, un rifiuto quindi della sua integrità in quanto marito o moglie (cfr. La Felicità Coniugale, pp. 45-46; 50; 64).
Un altro aspetto personalistico del rapporto sessuale coniugale "aperto alla vita" è che tende in modo leggittimo all'auto-realizzazione [26] ed all'auto-perpetuazione (entrambi valori personalistici), però li eleva, tramite il carattere donativo e generoso dell'atto stesso, ad un livello superiore (cfr. La Felicità Coniugale, pp. 55-56). Quando si mantiene aperto alla vita, l'atto non tende a nessun tipo di affermazione o perpetuazione dell'"io" dei coniugi in un isolamento egoista, bensì precisamente alla perpetuazione di qualcosa che hanno in comune e che è assolutamente intimo per loro: l'amore che gli unisce.
E' precisamente questa consapevolezza del profondo significato della procreazione che rende il rapporto coniugale così particolarmente capace di contribuire al "bonum" di entrambi gli sposi, maturandoli, "realizzandoli" e unendoli. Inoltre, ogni figlio che procreano si trasforma in un vincolo visibile ed incarnato che rafforza il legame coniugale, il cui mantenimento risulta essenziale per la loro realizzazione personale e per il loro autentico bene [27].
Così diventa evidente la naturale complementarità tra coniugalità e procreatività. La coniugalità significa che l'uomo è destinato a diventare sposo, a unirsi con un altro in un atto che è unitivo precisamente per il fatto che è orientato alla procreatività. E la procreatività significa che è destinato a diventare genitore: l'unione degli sposi tende per sua natura ad essere feconda. La coniugalità e la procreatività, assieme, tolgono l'uomo dalla sua solitudine originaria, che lo limita come persona ed è nemica della sua "auto-realizzazione", del suo "bonum" [28].
Sintesi
Il personalismo moderno, quindi, soprattutto sotto l'impulso del Concilio Vaticano II e del Magistero posteriore, offre una rinnovata visione del matrimonio e dei suoi fini istituzionali. I principali punti di questa visione, così come io l'intendo, potrebbero venir presentati sinteticamente come segue:
a) si accentua la naturale ordinazione del matrimonio verso determinati fini;
b) non si accentua la gerarchia tra i fini [29];
c) entrambi, il "bonum coniugum" e la procreazione/educazione dei figli, sono fini istituzionali;
d) entrambi, il "bonum coniugum" e la procreazione/educazione dei figli, possiedono un valore personalistico;
e) i fini sono naturalmente (istituzionalmente) inseparabili;
f) la loro inseparabilità è più importante di qualsiasi gerarchia tra essi;
g) l'inseparabilità implica una inter-ordinazione - piuttosto che una sub-ordinazione - tra i fini.
Inseparabilità
Ci occuperemo ora degli ultimi tre punti: l'inseparabilità dei due fini del matrimonio, così come ci vengono presentati nel can. 1055.
E' possibile separare questi due fini? Concettualmente, sì. Nella realtà, no; no, almeno, se non si vuole minare la comprensione e la stessa struttura vitale del matrimonio. Il matrimonio fu istituito per la maturazione dei coniugi, specialmente mediante la formazione di una famiglia e la dedicazione ad essa. E fu istituito per la procreazione/educazione dei figli, che andrebbe raggiunta tramite la passeggera unione fisica e la permanente e crescente unità esistenziale ed organica tra marito e moglie. L'istituzione fu unica, sebbene nella Genesi venga descritta con due versioni diverse. E' Dio che ha unito questi fini in un'unica istituzione, e l'uomo dovrebbe resistere alla tendenza di separarli.
Un matrimonio procreativo - con molti figli - nel quale nessuno degli sposi abbia il senso della vita familiare o di come la dedicazione ad essa contribuisca alla loro maturazione o felicità come persone, ha perso la sua caratteristica dimensione umana, e difficilmente potrà contribuire al bene dei coniugi o dei figli. Un matrimonio "à deux", dal quale i figli (o più di uno o due figli) vengono esclusi - in quanto vengono considerati come potenziali nemici della felicità della coppia - prevedibilmente non renderà a lungo la coppia felice: propone troppo poche esigenze per poter contribuire al loro autentico bene, e probabilmente non durerà.
E' per questo motivo che non sembra esserci alcuna ragione per centrare l'attenzione su di una possibile gerarchia dei fini istituzionali del matrimonio. Non si difende meglio l'aspetto procreativo sostenendo semplicemente che è più importante del bene degli sposi. Si difende meglio, quando le coppie sposate comprendono che il loro mutuo amore, la loro felicità di coppia e la realizzazione personale di ognuno sono favorite dall'impresa di edificare una famiglia, d'accordo con i piani di Dio [30]. Il bene dei coniugi si comprende in tutta la sua potenzialità personalistica solamente quando si vede che dipende dal particolare arricchimento che viene nella persona di ciascun figlio. Solo allora si salva da quelle tendenze parziali o riduttive che, mentre forse parlano del "bene degli sposi" (congiuntamente), in verità si riferiscono al "bene" di ognuno singolarmente, portando così a queste frequenti situazioni esistenziali dove il "bene" di uno alla fine appare come un rivale o un nemico dell'altro, causando così il crollo e lo scioglimento di una comune impresa di felicità.
L'inseparabilità riesce a dare un'idea migliore della mutua relazione tra questi fini. Tralascia il problema della gerarchia, e guarda piuttosto all'essenziale inter-ordinamento dei fini. Ogni fine è relazionato agli altri in modo vitale ed essenziale. Ognuno dipende dagli altri. Assieme si mantengono o crollano.
Infatti sembra così inutile discutere se i fini sono di uguale dignità o se esiste una subordinazione tra essi, come lo è discutere gli stessi punti a proposito della relazione tra uomo e donna. E' la complementarietà, l'inseparabilità, quella che deve venir sottolineata.
Nel considerare l'atto coniugale tramite il quale gli sposi diventano "una carne", abbiamo cercato di fare un'analisi più approfondita della verità fondamentale proclamata da Paolo VI: che l'aspetto unitivo e quello procreativo dell'atto non possono venir separati [31]. L'autentico personalismo cristiano ci porta ad una simile conclusione per quanto riguarda i fini istituzionali del matrimonio: il bene degli sposi e la procreazione/educazione dei figli. Esiste inoltre una connessione naturale ed intrinseca tra questi due fini. Essi sono intimamente legati, ed il raggiungimento di un fine dovrebbe aiutare l'altro, così come allo stesso tempo ne viene condizionato ed aiutato.
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Ulteriori prospettive
Abbiamo delineato alcune considerazioni ispirate dalla presentazione dei fini del matrimonio che offre il can. 1055 del nuovo Codice di Diritto Canonico. Ci sembra che questa nuova formula apra ampie ed importanti prospettive per l'investigazione, non solamente nel campo giuridico, bensì in quello della Scrittura, della teologia, della morale e dell'antropologia, come pure nell'area pastorale.
Il momento è buono, ed importanti conseguenze potrebbero risultare da un nuovo approfondimento:
a) del concetto del matrimonio, basato su di una comprensione più completa della sua finalità e dignità originarie (istituzionali); superando particolarmente la supposta opposizione tra gli aspetti procreativo e personalistico;
b) della sessualità coniugale, la quale corre il rischio di venir ridotta ad una ricerca di se stessi, priva di significato, in cui qualsiasi atto di donazione di sè scompare sotto la crescente strumentalizzazione dell'altro coniuge ridotto alla categoria di "oggetto-sessuale";
c) dei tre "bona" agostiniani, soprattutto del "bonum prolis", riabilitato ed integrato nel vero personalismo matrimoniale cristiano;
d) della famiglia, evitando principalmente che gli autentici concetti di paternità e di maternità - in tutta la loro realtà, contenuto e dignità umane - si perdano;
e) del ministero pastorale, pre- e post-nozze, per permettere alle persone di raggiungere una comprensione più approfondita del matrimonio come cammino di dedicazione e di santità cristiane.
NOTE
[1] [Sed contra] «dicitur mulier esse facta in adiutorium viri. Sed non ad aliud nisi ad generationem quae fit per coitum: quia ad quodlibet aliud opus, convenientius adiuvari posset vir per virum quam per feminam» (I, q. 98, art. 2).
[2] S. Bonaventura, ad esempio, accetta la tesi di Hugo de S. Victor: «duplex fuit eius institutio, una ante lapsum in officium, et alia post lapsum in remedium»: Sent. Lib. IV d. 26, art. 1, q. 1 (Ed. Quaracchi, vol IV, p. 662); cfr. Hugo de S. Victor: De sac. coniugii (PL 176, 481). S. Tommaso concorda: cfr. Suppl. q. 42, art. 2.
[3] Tanto forte è l'incoraggiamento che questo passo sembra prestare ad una comprensione personalistica del matrimonio, che alcuni editori a lingua vernacola (ex. gr. il testo delle DSP di USA), più papisti che lo stesso Papa, lo omisero dalla prima versione pubblicata dell'Enciclica, convinti - così sembra - che soltanto potrebbe spiegarsi in quanto un "lapsus" curiale.
[4] 1978-1981. cfr. Uomo e Donna lo creò: catechesi sull'amore umano, Libr. Ed. Vaticana 1987.
[5] Pio XI, nella Casti connubii, di qualche modo anticipò quest'espressione di un doppio fine: «suo fine è generare ed educare a Dio la prole e condurre parimente a Dio i coniugi mediante l'amore cristiano e il vicendevole aiuto» (AAS 22 (1930) 570).
[6] Il «Bonum Coniugum» e il «Bonum Prolis»: fini o proprietà del matrimonio?, in «Apollinaris» LXII (1990), pp. 559ss.
[7] potremmo notare che la Commissione avrebbe evitato la confusione se, nel 1977, invece di "finis personalis" (e chiedendo scusa, se nesessario, ai latinisti), avesse detto "finis personalisticus".
[8] A. FAVALE: Fini e Valori del Sacramento del Matrimonio, Roma 1978, p. 203. P. Barberi descrive il testo di Gaudium et spes, n. 48 come «sintesi delle due prospettive: giuridico-istituzionale e umana-personalista»: La celebrazione del matrimonio cristiano, Roma 1982, p. 119.
[9] come pure fondamentale è comprendere che entrambi sono, nel vero senso della parola, personalistici.
[10] Denz. 969; cfr. Roberto Bellarmino: il matrimonio «est unio sacrans, et sanctificans animas» De Sacramento Matrimonii, cap. 5.
[11] «la grâce sacramentelle du mariage chrétien... par laquelle l'amour naturel entre les époux est mené à sa perfection en vue de la sanctification des conjoints»: Paul Anciaux, Le Sacrement du Mariage, Louvain 1961, p. 249.
[12] «Nuptiarum igitur bonum semper est quidem bonum; sed in populo dei fuit aliquando legis obsequium, nunc est infirmitatis remedium, in quibusdam vero humanitatis solacium» De bono vid., c. 8, n. 11 (CSEL 41, 317); cfr. P. M. ABELLAN, El fin y la significación sacramental del matrimonio desde S. Anselmo hasta Guillermo de Auxerre (Granada 1939), p. 168.
[13] Inter virum autem et mulierem maxima amicitia esse videtur: adunantur enim non solum in actu carnalis copulae, quae etiam inter bestias quamdam suavem societatem facit, sed etiam ad totius domesticae conversationis consortium; unde in signum huius, homo propter uxorem etiam patrem et matrem dimittit, ut dicitur Gen 2, 24 (Summa c. Gent. III, c. 123).
[14] secundum Philosophum, in VIII Ethic, amicitia quae est inter virum et uxorem est naturalis, et claudit in se honestum, utile et delectabile (Suppl. q. 49, art. 1).
[15] Forma matrimonii consistit in quadam indivisibili coniunctione animorum, per quam unus coniugum indivisibili alteri fidem servare tenetur (III, q. 29, a. 2).
[16] in matrimonio non est tantum coniunctio corporalis, sed etiam spiritualis (Suppl., q. 56, art. 1 ad 3).
[17] ... mutuum obsequium sibi a coniugibus in rebus domesticis impensum. Sicut enim naturalis ratio dictat ut homines simul cohabitent, quia unus homo non sufficit sibi in omnibus quae ad vitam pertinent, ratione cuius dicitur homo naturaliter politicus; ita etiam eorum quibus indigetur ad humanam vitam, quaedam opera sunt competentia viris quaedam mulieribus; unde natura monet ut sit quaedam associatio viri ad mulierem, in qua est matrimonium (In IV Sent. d. 26, q. 1, art. 1; cfr. Suppl. q. 41, art. 1).
[18] ibid. q. 49, art. 2. Risponde negativamente alla domanda. Qui potremmo notare che, a parte alcuni tentativi di interpretare il "bonum coniugum" come un quarto "bonum", che andrebbe aggiunto ai tre tradizionali di Sant' Agostino, il can. 1055 presenta il "bonum coniugum" ugualmente alla procreazione, come inequivocabilmente collocato sulla linea della finalità, e non della proprietà: cfr. C. BURKE: Il «Bonum Coniugum» e il «Bonum Prolis»: fini o proprietà del matrimonio?, in «Apollinaris» LXII (1990), pp. 560-561.
[19] Hugo di S. Victor (+1140), di modo particolare, si caratterizza per determinate idee che possono essere considerate personalistiche.
[20] Hervada fa una distinzione tra "mutuum adiutorium" e la realizzazione personale degli sposi. Secondo lui, l'aiuto mutuo è un fine specifico del matrimonio, mentre la realizzazione personale è un fine generico, comune a tutti i cristiani, e non specifico alle persone sposate. Si può, senza dubbio, intendere il "fine personale(-istico)" nel senso con cui Hervada lo critica: un'auto-realizzazione autonoma, non-trascendente; e quindi non cristiana (cfr. J. HERVADA: Diálogos sobre el amor y el matrimonio, Pamplona 1987, pp. 72 ss). A parere mio, comunque, il can. 1055 ci invita a sviluppare un'adeguata comprensione del "bonum coniugum" in quanto sviluppo personale e "realizzazione" cristiana dei coniugi. E' sotto questa prospettiva che non concordo con la sua affermazione: «no es correcto enumerar la realización personal entre los fines del matrimonio» (p. 70).
[21] «Fecit illi etiam adiutorium feminam:... ut haberet et vir gloriam de femina, cum ei praeiret ad Deum, seque illi praeberet imitandum in sanctitate atque pietate» De catech. rud., c. 18, n. 29 (PL 40, 332).
[22] Bellarmino, ad esempio, commentando P. Lombardo e san Tommaso, afferma che - a differenza dell'Eucarestia, la Confermazione e l'Ordine, i quali furono istituiti «principaliter ad iuvandum in bono» - il matrimonio fu istituito soprattutto «ad peccata vitanda» (De Sacramento Matrimonii, cap. 5). Per il trattamento del tema da parte di san Tommaso, cfr. Suppl, q. 41, art. 3 ad 3-4; q. 42, art. 3 ad 4.
[23] Anche se solo a modo di aneddoto, si potrebbe notare che, ancora nel 1959, un difensore della tradizionale gerarchia dei fini - ovviamente scomodo con la presentazione di Pio XI del matrimonio diretta al raggiungimento della perfezione personale dei coniugi - concede che nel "remedium concupiscentiae" si possa vedere «una specie di perfezionamento negativo della natura medesima», che compenserebbe un difetto della natura decaduta (A. PEREGO: Discussione teoretica sulla gerarchia dei fini matrimoniali, in «La Civiltà Cattolica», 110 (1959/IV), p. 139). Sembra chiaro che i tempi richiedevano una comprensione del fine del matrimonio (per quanto secondario) che superasse quella di un perfezionamento "negativo"!
[24] P. Anciaux (Le Sacrement du Mariage, Louvain 1961, pp. 51-54) preferisce parlare della «educazione o regolazione dell'attività sessuale», mentre autori più recenti come Viladrich lo esprimono meglio ancora come l'«uso razionale della sessualità».
[25] «parentes diligunt filios eo quod sunt aliquid ipsorum. Ex semine enim parentum filii procreantur. Unde filius est quodammodo pars patris ab eo separata» In VIII Ethic., lect. 12.
[26] Cosa c'è di più singolare, nell'auto-realizzazione, della procreazione di un proprio figlio - un'altra persona, in tutta la sua irripetibilità - frutto della donazione della propria persona che entrambi gli sposi si sono fatti? Qui si vede l'errore radicale del personalismo di H. Doms, il quale considera il figlio semplicemente come un complemento fisico alla comunità coniugale.
[27] «causa stabilis et firma coniunctionis [inter virum et uxorem] videntur esse filii. Et inde est quod steriles, qui scilicet carent prole, citius ab invicem separantur... Et huiusmodi ratio est quia filii sunt commune bonum amborum, scilicet viri et uxoris... Illud autem quod est commune continet et conservat amicitiam» In VIII Ethic., lect. 12.
[28] Giovanni Paolo II considera come la sessualità promette il superamento di questa solitudine originaria: cfr. Uomo e Donna lo creò, pp. 44ss.
[29] E' vero che Giovanni Paolo II si riferisce alla gerarchia dei fini, in un'Allocuzione del 10 ottobre del 1984. Questa riferenza non mi pare contraddica il fatto che il tema viene ora focalizzato con un'enfasi differente.
[30] Pio XII, nel suo noto Discorso del 29 ottobre 1951, dove fa una energica difesa della primazia della procreazione, insiste pure sulla stretta e naturale connessione fra la missione dei coniugati come genitori, da una parte, e il suo «arricchimento personale» come sposi, dall'altra (AAS 43 (1951) 850).
[31] per un trattamento più ampio, vedere La Felicità Coniugale, pp. 35-50.