"Tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento". Così recita il canone 1055, § 2 del Codice del 1983 che riproduce letteralmente il canone 1012, § 2 del codice pio-benedettino. Questa riproduzione letterale merita una particolare considerazione se si pensa che nell'arco di 20 anni di lavori codiciali sono state numerose le proposte ed i tentativi di modificare la dizione di questo paragrafo del canone 1012 del vecchio Codice. Il motivo del rigetto delle proposte sembra doversi attribuire al fatto che, seppure gli argomenti pastorali addotti erano meritevoli di attenzione, non apparivano conformi ai più saldi principi teologici (e perciò al solido pensiero giuridico).
In effetti, il consolidato principio dottrinale che "omne inter christianos iustum coniugium in se et per se esse sacramentum" [1] è stato pienamente asorbito da una lunga tradizione della giurisprudenza rotale la quale ha ritenuto che, se gli sposi cristiani scambiano un vero consenso coniugale, il loro matrimonio è sacramentale, indipendentemente dalla fede che possono avere o meno, o dalla loro intenzione riguardo la sacramentalità (cfr. E. Bouchet: "Foi et Sacrements dans la Jurisprudence rotale" Année Canonique 24 (1980), p. 112). Come si legge in una Sentenza coram Stankiewicz del 29 aprile 1982: "Infitiandum non est quin iurisprudentia Nostri Fori haud semel enuntiaverit ad validum contrahendum matrimonium fidem necessariam non esse, sed unum consensum" (RRD, vol. 74, p. 247).
Tipici sono i brani seguenti. "Dummodo consensus in forma praescripta eliciatur, eo ipso, ceteris concurrentibus, inter baptizatos Sacramentum efficitur quia Sacramenti ratio inter eosdem contrahentes non ex nupturientium sed ex Christi voluntate dependet" (c. Staffa, 5 agosto 1949, vol. 41, p. 468-469). "A Christi asseclis nihil aliud et nihil amplius, ut sacramentum perficiatur, poni debe[a]t praeter quam ea, quae essentiae naturalis contractus omnino propria sunt. Nec interest ad validitatem quod attinet ut nupturiens... vel fidem in matrimonii sacramentum servet, aut in Dei exsistentiam, aut in institutionem divinam sacramentorum: dummodo contractum prout in natura est, non excludat, aut positive repudiet quidquid contractus huius essentiam attingit" (c. Doheny, 18 febbr. 1959: vol. 51, p. 60). "Inter baptizatos, non datur contractus matrimonialis, quin eo ipso sit sacramentum, quidquid sentiant, quidquid teneant, quidquid credant contrahentes: nam sacramentum voluntate Christi fit, non voluntate partium, aut earum desiderio, aut earum opinione, aut earum fide. Ideo, quisquis christianus, etsi recta fide carens, etsi sacramento irridens, valide contrahit, ac verum sacramentum, simul cum contractu, init, quoties id, quod de essentia contractus est, velit, seu, positivo voluntatis actu, non excludat" (c. Doheny: 17 aprile 1961: vol. 53, p. 185). "Ad validum contrahendum matrimonium fides necessaria non est, sed unus consensus. Quapropter, quoties sponsi baptizati omnia, quae iure naturae necessaria sunt, ponunt legitima forma, vinculum indissolubile et ipsum sacramentum fit. Quod quidem non a fide contrahentium nec ab eorum voluntate, sed a voluntate Christi pendet. Inter christianos etenim contractus dari non potest quin eo ipso conficiatur sacramentum" (c. Pompedda, 9 maggio 1970: vol. 62, p. 476). "Qui non vult sacramentum matrimonii, sed vult verum contractum iugalem in facie Ecclesiae, in re - seu de facto - haud excludit sacramentum" (c. Fiore, 17 luglio 1973: vol. 65, p. 593).
In tempi recenti sono state sollevate alcune difficoltà relative a questa posizione tradizionale. La libertà delle parti - secondo alcuni scrittori pastorali - richiederebbe che la Chiesa si astenga dall'"imposizione" del sacramento su coloro che non lo desiderano. A coloro dovrebbe essere riconosciuto il diritto a un matrimonio valido, anche se non sacramentale. Particolare attenzione è stata rivolta, in campo canonico, alla possibile invalidità - in virtù dell'esclusione della sacramentalità - del matrimonio tra persone che, sebbene battezzate, sono praticamente "non credenti". Considerato che manca a tali "non credenti" l'intenzione di "fare ciò che fa la Chiesa", sembra che non possano ricevere validamente il sacramento. Qui, come è evidente, si tratta di un tema di non esigua importanza.
Non va dimenticato che i parametri relativi a tale questione sono delimitati dalla teologia e non dalla scienza canonistica [2]. La legge canonica si interessa in modo particolare a quegli elementi richiesti affinchè la celebrazione del matrimonio sia valida. Alcuni di questi elementi (capacità, libertà...) appartengono alla legge naturale o divina, mentre altri sono puramente disciplinari e di diritto meramente ecclesiastico. Tra questi ultimi rientra la necessità della forma canonica; ed è inevitabile che si sollevi della confusione se si dimentica come questa forma è un semplice requisito del diritto positivo che non ha nessun rilievo teologico in se stesso ed è estraneo alla questione della sacramentalità [3].
Necessità di non confondere forma liturgica o forma canonica, e forma sacramentale
Per diritto positivo la Chiesa esige, sotto pena di invalidità, una forma giuridica o canonica che comporta la presenza di un vescovo, sacerdote o diacono (c. 1108, § 1), o perfino un laico (c. 1112), che chiede e riceve l'espressione del consenso nel nome della Chiesa (c. 1108, § 2). Secondo la costante dottrina cattolica, tale persona, che viene nominata come "teste qualificato", non è in nessun modo ministro del sacramento. E' prevista pure, in particolari circostanze, una forma canonica "straordinaria" (c. 1116), in cui il matrimonio può essere validamente celebrato senza la presenza di alcuno di tali "testimoni qualificati" (in ogni caso dovrebbero essere presenti due testi "semplici").
Non si deve confondere la forma canonica con la tradizionale forma o rito liturgico (la cui omissione non invalida). Nè la forma canonica nè quella liturgica è l'effettiva forma sacramentale, che consiste nella manifestazione del consenso delle parti. Secondo la dottrina abituale della Chiesa latina (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1623), i ministri del sacramento del matrimonio sono le parti stesse (cfr. Concilio Fiorentino: Decreto per gli Armeni, Denz. 702; cfr. Denz. 2225). Considerato il rilievo che attualmente si attribuisce alla dignità del laicato, questo insegnamento tradizionale sembrerebbe meritare una rinnovata attenzione. Infatti, la peculiare dignità degli sposi si esprime in particolar modo nel fatto che proprio loro sono i ministri, senza che sia necessario per se alcun intervento da parte della Chiesa o alcun rito religioso, affinché il matrimonio validamente celebrato tra cristiani sia sacramento. Le proposte contrarie tendono a far sembrare il matrimonio cristiano un "dono" della Chiesa, o qualcosa concessa attraverso il ministero della Chiesa [4].
Non è corretto suggerire che la forma di celebrazione "straordinaria" (c. 1116) sia meno sacramentale dell'"ordinaria". È' "straordinaria" dal punto di vista canonico; ma non c'è nulla di straordinario (niente di anormale o imperfetto) nel suo aspetto sacramentale. Né sarebbe esatto affermare che sia meno "ecclesiale" o "comunitario" come evento; ciò implica un'inadeguata comprensione teologica della dimensione ecclesiale-comunitaria della sacramentalità.
La legge canonica, perciò, può giungere ad un'adeguata comprensione della sacramentalità del matrimonio soltanto se si lascia guidare dai principi forniti dalla teologia. Occorre partire dal fatto ontologico che, attraverso il Battesimo, una persona diviene una "nuova creatura" (2 Cor. 5, 17) in Cristo [5]. Se i cristiani si sposano sacramentalmente, ciò è dovuto al fatto che sono "in Cristo", grazie al Battesimo. "Mediante il battesimo, l'uomo e la donna sono definitivamente inseriti nella Nuovo ed Eterna Alleanza, nell'Alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa. Ed è in ragione di questo indistruttibile inserimento che l'intima comunità di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore, viene elevata ed assunta nella carità sponsale del Cristo, sostenuta ed arricchita dalla sua forza redentrice" (Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Familiaris Consortio, n. 13).
Ciò che effettua il sacramento non è semplicemente l'espressione di consenso coniugale (che in niente si differenzia dal consenso prestato nel matrimonio naturale), bensì il fatto che il consenso è stato espresso da persone battezzate (cfr. U. Navarrete: "Matrimonio, contratto e sacramento", Monitor Ecclesiasticus 117 (1993), 106-107). Non è al livello degli effetti giuridici, bensì delle realtà ontologiche che qui ci stiamo muovendo.
I canonisti sembrano trovare maggiore difficoltà, rispetto ai teologi, riguardo a questo problema. Ciò potrebbe derivare da una insufficiente ponderazione del fatto che la volontà umana è limitata dalla realtà. La volontà dell'uomo è senz'altro inviolabile, ma non è onnipotente. Riconoscere la dovuta importanza della volontà non ci può portare ad attribuirle una sovranità assoluta. Non si sminuisce la leggitima dignità della volontà, quando si sostiene che la sua efficacia è limitata dal necessario riferimento all'ordine reale delle cose. Questa verità rende più facile la soluzione della "anomalia" che qualcuno ha ritenuto di vedere nel fatto che 'sono tenuti alla legge anche coloro che la ignorano'. Non è questione di anomalia legale; è piuttosto un dato di fatto ontologico: la necessaria condizione umana di operare all'interno della realtà.
Questo punto sembra sfuggire anche a chi trova difficoltà in ciò che considera una concezione troppo "automatica" o "meccanica" della sacramentalizzazione del matrimonio [6].
Queste obiezioni non resistono all'analisi teologica. Il battesimo implica una trasformazione ontologica, che non sminuisce né la libertà della persona né gli attributi o le caratteristiche naturali di suoi atti; al contrario, li eleva, assegnando loro un'efficacia soprannaturale. "Voglio il matrimonio, ma senza sacramentalità": ciò potrebbe verificarsi solo se si cancellasse il carattere sacramentale del Battesimo - cosa che non è affatto possibile [7].
Fare ciò che fa/intende la Chiesa
Un punto rilevante da considerare è il principio teologico definito dal Concilio di Trento per cui, per una valida amministrazione del sacramento, il ministro deve avere "l'intenzione di fare ciò che fa la Chiesa" (Sessione VII, can. 11: Denz. 854). Alcuni autori contemporanei sostengono che, in una società secolarizzata, non risulta ragionevole presumere una simile intenzione tra cattolici che sono tali solo "di nome", o tra "battezzati non credenti" che nondimeno chiedono il matrimonio in Chiesa. Se celebrano una cerimonia in Chiesa, ma senza tale intenzione, consegue che il loro matrimonio non sarà sacramentale; va, dunque, ritenuto necessariamente invalido?
Poichè il menzionato principio dottrinale è incontestabile, è di massima rilevanza per la nostra discussione stabilire come si applica al sacramento del matrimonio. Ci imbattiamo, a questo punto, in un fatto che richiama la nostra attenzione, ma che è di chiara evidenza: il requisito di "fare ciò che fa la Chiesa", o non si applica al sacramento del matrimonio oppure, a causa della natura peculiare di questo sacramento, si applica in un modo del tutto singolare. Il fatto è che la Chiesa, come tale, non fa niente per il conferimento del sacramento del matrimonio [8]. Le disposizioni della legge ecclesiastica positiva che disciplinano la valida celebrazione del matrimonio, non intaccano il fatto che il matrimonio, per legge divina, è l'unico sacramento per la cui confezione la Chiesa, come tale, non ha niente da fare. La Chiesa non "celebra" realmente il sacramento del matrimonio. Non sancisce nessuna cerimonia ecclesiastica o liturgica che sia di per sé teologicamente essenziale al sacramento. La Chiesa non ha mai segnalato un concreto rito religioso come condizione di validità. Esige semplicemente (come fa lo Stato) che il matrimonio si contragga secondo certe formalità che permettono di stabilire esternamente il fatto del mutuo consenso; però queste formalità non devono necessariamente includere nessun tipo di rito specificamente religioso (cfr. c. 1116). E' per ragioni sociali o comunitarie che la Chiesa pone, come condizione per la validità, il suo atto di "ricevere" il consenso degli sposi; però il significato di questa disposizione è puramente disciplinare [9], e non teologico.
Questo punto si presta ad un'ulteriore analisi. L'applicazione pratica del principio "fare ciò che fa la Chiesa", è che il ministro deve avere la volontà interiore di compiere il rito esterno sacramentale prescritto dalla Chiesa. Vi è un rito esterno del matrimonio, che sia peculiarmente sacramentale, prescritto dalla Chiesa? No; il rito consiste semplicemente nel valido scambio del consenso tra gli sposi. In altre parole, coincide con il "rito" necessario e sufficiente per il matrimonio nella sua naturale (e non-sacramentale) entità.
Il rito religioso che i cattolici sono soliti seguire quando si sposano è semplicemente lo scenario della forma canonica che, d'accordo con la disciplina vigente, si esige per la validità. Però non è il rito sacramentale. Occorre ripetere pertanto che il principio di "fare ciò che la Chiesa fà", o non si applica al sacramento del matrimonio o altrimenti - causa la peculiare natura di questo sacramento - deve venir inteso in un forma molto diversa da come si applica agli altri sacramenti.
E' particolarmente interessante, a questo punto, ricordare un passo da "Familiaris Consortio": "Quando, nonostante ogni tentativo fatto, i nubenti mostrano di rifiutare in modo esplicito e formale ciò che la Chiesa intende, quando si celebra il matrimonio dei battezzati, il pastore d'anime non può ammetterli alla celebrazione" ("Cum... nuptias facturi aperte et expresse id quod Ecclesia intendit, cum matrimonium baptizatorum celebratur, se respuere fatentur" (n. 68); AAS 74 (1982) 165).
Qui Giovanni Paolo II non utilizza la frase, "ciò che la Chiesa fa" ("quod facit Ecclesia"); parla di quello che essa intende ("quod Ecclesia intendit") [10]. E di fatto sembra che questo sia l'unico modo esatto di riferirsi al tema in relazione al matrimonio. Anche se non "fa" niente in questo sacramento, la Chiesa (nella misura in cui è presente o sa che un matrimonio si sta svolgendo) senza dubbio intende qualcosa: che due cristiani si sposino. Desidera, in altre parole, un matrimonio tra due persone che stanno "in Cristo". La domanda quindi è: intendono gli sposi ciò che la Chiesa intende? Intendono essi sposarsi "in Cristo"? Se essi intendono sposarsi, la risposta è affermativa, in quanto - in virtù del loro battesimo - sono in Cristo. Loro intendono ciò che la Chiesa intende (così come la Chiesa intende ciò che essi intendono); essi quindi hanno un'intenzione sacramentale sufficiente [11].
Se si desidera pertanto considerare il problema dal punto di vista del "minimo di intenzionalità" richiesta, si impone la conclusione che la minima intenzione specifica è semplicemente quella di sposarsi. L'intenzione di ricevere un sacramento non è essenziale. Ciò che è necessario non è una cosciente intenzione sacramentale e tanto meno una religiosa, quanto una semplice intenzione matrimoniale. I protestanti che si sposano, solitamente non lo fanno con un'intenzione sacramentale; e ciò nonostante la teologia e la legge canonica non hanno mai contestato la validità dei loro matrimoni (cfr. Risposta del Santo Uffizio del 28 dic. 1949: Denz. 2304).
Perciò, nel tentare di spiegare come "i non credenti battezzati" possono contrarre il matrimonio in modo sacramentale, non è necessario ipotizzare che la loro intenzione 'finisce per essere interpretata come intenzione di fare tutto ciò che per mezzo del rito medesimo la Chiesa vuole sia fatto'. Non è necessario attribuire agli sposi l'intenzione interpretativa di fare ciò che il rito (religioso) "fa"; dato che il rito, lo ripetiamo, non effettua il sacramento. Simili difficoltà infondate continueranno a sorgere se non si mantiene chiaro il principio teologico: la ricezione del sacramento non dipende dall'intenzione sacramentale degli sposi, ma dalla loro condizione ontologica di cristiani.
Un terzo punto importante da considerare è la questione della fede. Per ricevere validamente il sacramento del matrimonio è necessario professare la fede in modo consapevole e personale? Una fede cosciente e attiva è certamente una disposizione da ricercare nelle persone battezzate che desiderano sposarsi in Chiesa. Qualora mancasse dovrebbe, se possibile, essere indotta o incoraggiata da un'appropriata catechesi. Nondimeno, la presenza di una fede coscientemente professata non è una condizione teologica per la sacramentalità del matrimonio in questione [12]. La fede è senz'altro da richiedere se l'unione coniugale deve veramente santificarsi; in altre parole, la mancanza di fede impedisce senza dubbio la fruttifera ricezione del sacramento (cfr. decis. c. Stankiewicz, 26 giugno 1986: vol 78, pp. 399-400). Tuttavia, per quanto questo sia importante dal punto da vista pastorale, rimane comunque vero che la fondamentale questione canonica sotto esame non è la ricezione fruttifera del sacramento, bensì la sua ricezione valida.
L'affermazione nella Costituzione sulla Liturgia del Concilio Vaticano II che i sacramenti "presuppongono la fede" (Sacrosanctum Concilium, n. 59), offre un principio importante per la pratica pastorale; è ovvio però che non intende esprimere una verità teologica(il Battesimo dei bambini non presuppone la fede). Allo stesso modo l'indicazione al n. 7 dell'Ordo celebrandi matrimonium, che "il sacramento del matrimonio presuppone e richiede la fede", va intesa in riferimento alla fruttuosa ma non alla valida ricezione del sacramento. L'ammettere o meno alla celebrazione del matrimonio coloro che sono imperfettamente disposti, pone problemi di natura pastorale, non teologica o canonica. La Familiaris Consortio (n. 68) fornisce indicazioni chiare per la soluzione di questi problemi.
La sacramentalità: un elemento essenziale?
La sacramentalità non è una sovrastruttura soprannaturale aggiunta alla realtà naturale del matrimonio. È' un errore considerarlo come una "proprietà" essenziale o un "elemento" costitutivo del matrimonio cristiano. Una proprietà, come l'indissolubilità o l'unità, delinea un aspetto dell'essenza, mentre il sacramento trasforma l'intera essenza del matrimonio [13]. La sacramentalità non è una proprietà o un elemento matrimoniale, ma coincide con il matrimonio stesso: matrimonium ipsum, come esiste per coloro di cui le anime hanno impresso il carattere del Battesimo. È semplicemente il matrimonio contemplato da un punto di vista soprannaturale. "La dignità sacramentale alla quale... Cristo Signore elevò il contratto matrimoniale, non è un elemento dell'istituto matrimoniale, che si possa considerare a fianco dell'unità, della perpetuità, ecc.; essa è la considerazione soprannaturale del matrimonio, il punto di vista dal quale è considerato sul piano soprannaturale" [14] Ancora più esattamente, è la configurazione soprannaturale del matrimonio. "El sacramento del matrimonio no es algo añadido (y por tanto separable) a la institución matrimonial; el sacramento es el mismo matrimonio celebrado entre bautizados: ipse contractus, ipsa institutio matrimonialis, ipsum coniugium" (J. Hervada: "La inseparabilidad entre contrato y sacramento en el matrimonio" in Vetera et Nova, Pamplona, 1991, vol. I, p. 801). Si deve inoltre notare che il canone 1055, § 2 non parla di contratto che "diviene" sacramento, o che "acquisisce" la proprietà della sacramentalità, ma che è sacramento ("quin sit eo ipso sacramentum"). Dal punto di vista dottrinale, perciò, non sembra corretto considerare la sacramentalità come proprietà essenziale o elemento essenziale del matrimonio, come, per esempio, ai fini del c. 1101, § 2 [15].
Ciò nonostante è recentemente apparsa una certa tendenza ad equiparare la sacramentalità con una proprietà o elemento essenziale del matrimonio, e a parlare dell'esclusione della sacramentalità come se fosse assimilabile all'esclusione dell'unità o indissolubilità; in questo modo si rischia di considerarla alla stregua di una fattispecie di simulazione parziale. Questa tesi, oltre a dimostrare una mancanza di rigore teologico, sembrerebbe basarsi su una inadeguata lettura dei cc. 1099 e 1101, § 2.
Il fatto è che una persona può efficacemente desiderare un "matrimonio" privo dell'esclusività o dell'indissolubilità. Simula il consenso a un matrimonio autentico, ma vuole un "semi"-matrimonio, cioè un "matrimonio" privo di una delle sue proprietà essenziali. È' in suo potere "avere" un tale "matrimonio", privo di permanenza o di esclusività, per esempio. In altre parole, lui vuole e sceglie qualcosa di possibile (anche se ciò che sceglie non è un vero matrimonio). Ora, se un cristiano, sposando un altro battezzato, sceglie un vero matrimonio (esclusivo, permanente e aperto alla vita) ma privo della sacramentalità, nessun vizio di simulazione (parziale) è presente nel consenso che proferisce (acconsente al matrimonio con le sue proprietà e elementi essenziali). La questione va analizzata in altra maniera. Il fatto è che vuole qualcosa d'impossibile, due cose che sono incompatibili: un matrimonio tra cristiani che è un vero matrimonio, ma che è anche un matrimonio privo della sacramentalità. Ci sono qui due scelte radicalmente inconciliabili, e bisogna pertanto determinare quale sia prevalente; l'altra rimane necessariamente senza effetto. Se l'implicita volontà o scelta prevalente è contrarre un matrimonio autentico, allora la volontà di escludere la sacramentalità è inefficace [16]. Ma se la volontà prevalente è: "Non voglio un matrimonio sacramentale; e se contrarre un vero matrimonio implica necessariamente ricevere il sacramento, non voglio contrarre un vero matrimonio in assoluto", allora è il matrimonio stesso - e non semplicemente una delle sue proprietà o elementi - ciò che viene escluso. Pertanto, l'effettiva esclusione della sacramentalità è trattata in modo inadeguato nell'ambito del capo di simulazione parziale. Un'analisi appropriata mostra che si tratta di simulazione totale, per esclusione non della sacramentalità, ma del matrimonium ipsum [17]. Ed è così che la giurisprudenza rotale ha abitualmente trattato simili casi [18].
Fede ed errore
Il matrimonio sacramentale non richiede una intenzione religiosa o ecclesiale o sacramentale. Perciò l'atteggiamento o la fede di una persona verso il rito religioso esterno è marginale rispetto al problema di ricevere o meno il sacramento. Non è chiaro che si analizzi adeguatamente questo argomento allorquando, a proposito dei "battezzati non credenti", si scrive: "Può darsi che essi, per motivi profani, intendano fare una cosa del tutto profana, nonostante il contesto religioso: l'atto ecclesiale è compiuto esteriormente in modo corretto ma interiormente non è creduto nè voluto. In questo caso c'è simulazione e mancanza totale di intenzione" [19]. Qui sembra che si equipari la simulazione con la mancanza di intenzione, cosa che difficilmente si concilia con il principio che la simulazione implica non una semplice assenza d'intenzione ("non velle"), bensì una positiva intenzione contraria ("velle non") (cfr. Sent. c. De Jorio, 27 ottobre, 1971, RRD, vol. 63, p. 802; O. Giacchi, op. cit. p. 64). Lo stesso insigne autore infatti, non condividendo, forse, completamente l'ipotesi di simulazione, prosegue: "quanto meno si è in presenza di quell'«error personam pervadens» che essenzialmente intacca l'oggetto della volontà e quindi lo svuota del suo valore" (Pompedda, op. cit. p. 64). E, più avanti, scrive: "quando la mancanza di fede, intesa come errore circa elemento essenziale del consenso, è tale da aver pervaso la persona dei nubenti... così che, anche nel momento specifico di celebrare il matrimonio, esuli completamente dall'oggetto della propria volontà, o piuttosto questa intenda tutt'altra cosa che un istituto naturale elevato a dignità sacramentale..., deve mancare necessariamente quel minimo di intenzione (fare ciò che fa la Chiesa) richiesto per la validità di qualsiasi sacramento, e dunque anche del matrimonio" (ibid. p. 65).
Questa proposizione - che l'errore circa la sacramentalità può invalidare il consenso - reclama una attenta considerazione (cfr. G. Versaldi: "Exclusio sacramentalitatis matrimonii ex parte baptizatorum non credentium: error vel potius simulatio?" Periodica 79 (1990) 421-440). Una prima difficoltà è già stata segnalata: l'inadeguata applicazione al matrimonio del requisito di "fare ciò che fa la Chiesa", nella stessa maniera con cui viene applicato agli altri sacramenti. Tuttavia, il concreto argomento prospettato va oltre, suggerendo che la mancanza di fede implica un errore circa la sacramentalità, e che se questo errore è sufficientemente profondo deve assumersi come determinante della volontà (così che questa voglia o accetti solamente un matrimonio privo della sacramentalità). Ma è giustificato identificare la mancanza di fede con l'adesione alla dottrina errata (Pompedda, op. cit. p. 58)? Mancanza di fede, dopo tutto, può semplicemente significare non possedere nessuna dottrina o idea a proposito (e in tal senso è più prossima all'ignoranza). La tesi proposta sembra implicare non solamente un passaggio automatico dal campo intellettuale a quello volontario, ma anche l'attribuzione ad un'assenza di conoscenza intellettuale - all'ignoranza - il potere di produrre una determinazione invalidante della volontà.
Mentre l'"error radicatus" è a volte invocato per analizzare casi di una presunta esclusione di indissolubilità, è discutibile l'opportunità di applicare questo concetto all'esclusione della sacramentalità. Senza dimenticare che tanto l'errore quanto la sua radicalità vanno provati in ogni singolo caso, la radicata convinzione che il matrimonio è dissolubile può senz'altro influire psicologicamente nel facilitare un atto positivo di volere un "matrimonio" privo del vincolo permanente. Comunque, nel caso di una persona che non crede nella sacramentalità del matrimonio, sembra che esistono pochi fattori psicologici tali da indurlo a volere positivamente un matrimonio privo della sacramentalità (ricordiamo di nuovo che il semplice desiderio di una celebrazione non-religiosa non è la stessa cosa [20].
Non è facile determinare l'effetto pratico della disposizione del c. 1099: "L'errore circa l'unità o l'indissolubilità o la dignità sacramentale del matrimonio non vizia il consenso matrimoniale, purché non determini la volontà". Qual'è il senso della frase "determinare la volontà", in relazione all'errore sul carattere sacramentale? Più concretamente, come può essere la volontà così determinata dall'errore che il consenso ne risulti invalidato?
Non è facile vedere in quale modo la volontà possa essere determinata da un errore circa la sacramentalità (l'errore, per esempio, di credere che essa sia una proprietà o elemento del matrimonio, o che dipenda dalla fede attiva delle parti, o derivi da una cerimonia in chiesa o religiosa con la presenza necessaria di un sacerdote). La volontà del contraente, nel momento di consentire, può essere, "io desidero un (vero) matrimonio privo della sacramentalità"; ma, come abbiamo notato, tale volontà è inefficace, poichè la scelta di una combinazione così contraddittoria e impossibile - un matrimonio autentico tra due persone battezzate che non è sacramentale - non risiede nell'effettivo potere del contraente. La volontà di fare tale scelta rivela senz'altro una comprensione erronea di ciò che è possibile; ma in che termini potrebbe dirsi che tale errore determini la volontà a un consenso invalido? L'invalidità potrebbe risultare, non da questa erronea valutazione, ma dalla scelta successiva a cui abbiamo fatto cenno: "io voglio un (vero) matrimonio privo della sacramentalità; e se questo non risulta possibile e dovessi accettare un matrimonio sacramentale, allora non voglio affatto un vero matrimonio". È comunque evidente che tale scelta, lontana dall'essere conseguenza di un'errore sulla sacramentalità, mostra un saldo livello di vera valutazione (almeno a titolo di ipotesi) di come il matrimonio tra cristiani e la sacramentalità sono collegati.
Il problema di fondo continua ad essere la determinazione della volontà prevalente: la positiva volontà di sposarsi o la positiva volontà di escludere la sacramentalità? Tanto l'indagine teologica quanto l'analisi giuridica confermano la conclusione di Gasparri: "Quod si pars mentali intentione excludat tantum rationem sacramenti, dicens positive in mente sua: volo matrimonium, sed nolo sacramentum, valet matrimonium et est verum sacramentum. Ratio est quia intentio ministri [21] est necessaria ad ritum sacramentalem ponendum (in casu nostro contractum matrimonialem); sed hoc posito, quod ille ritus habeat sacramenti rationem et effectus sacramentales producat, non pendet ab intentione ministri, sed ab institutione Christi. At si pars non interpretative tantum, sed positive diceret in mente sua: volo matrimonium, sed nolo sacramentum, secus nolo ipsum matrimonium, matrimonium foret nullum, quia iam deficeret consensus in ipsum matrimonium" (De Matrimonio, n. 921).
La sacramentalità, un'imposizione o un dono?
Se non è necessaria una fede effettiva per la valida ricezione del matrimonio sacramentale, non potrebbe forse questo significare una ingiustificata imposizione del sacramento anche a coloro che ignorano ciò che stanno ricevendo e - qualora ne fossero a conoscenza - potrebbero positivamente non volerlo ricevere?
Penso, come ho accennato, che la stragrande maggioranza di coloro per i quali si afferma che "non vogliono" il sacramento, non ci fanno nemmeno caso. Se c'è qualcosa che veramente non vogliono, è probabilmente il rito religioso; ma ribadisco che questo rito non costituisce il sacramento. Non c'è, forse, un po' di ambiguità nel parlare del rifiuto o esclusione dell'"istituzionalizzazione religiosa del matrimonio" (Pompedda, op. cit., p. 59)? Ciò che la gente comune probabilmente intenderebbe con l'espressione "istituzionalizzazione" del matrimonio (se mai la adoperasse) è proprio la cerimonia religiosa o rito, più che l'aspetto sacramentale; certamente non sarebbe lo stesso istituto matrimoniale.
Intendere la sacramentalità come imposizione denota un mancato apprezzamento della sua natura fondamentale. La sacramentalità è un dono [21]. Dio può conferire i suoi doni a coloro che li ignorano: la vita stessa, la grazia, la sacramentalità nel matrimonio tra Protestanti... Farlo così è proprio della Sua misericordia che desidera sempre arricchirci. Sembra appropriato parlare di "imposizione" di benefici? Per quanto riguarda il matrimonio tra cristiani, data l'identità tra il matrimonio e il sacramento, ciò che Dio non impone contro la volontà umana è il matrimonio. Ma se una persona intende un vero matrimonio, allora lo riceve necessariamente nella sua realtà sacramentale. Qui non c'è imposizione, bensì un disegno divino secondo il quale un cristiano che sposa una persona battezzata riceve le grazie sacramentali o il diritto a queste grazie (cfr. Burke: op. cit. pp. 331-332; 338>>.
Alcune delle difficoltà sollevate in questo tema sembrano più artificiali che reali; quando, per esempio, si sostiene che la Chiesa, nell'"imporre" la forma canonica ai non-credenti battezzati, dimostra scarso rispetto verso la loro libertà di coscienza. Non è possibile dimenticare che l'iniziativa parte dagli stessi "non-credenti" che richiedono un matrimonio "religioso". Possono lagnarsi contro il partner o i parenti, se quest'ultimi insistono sul "matrimonio in chiesa" e si trovano in una posizione troppo debole per resistervi. Ma non hanno di che lamentarsi contro la Chiesa che non impone nulla alla loro coscienza.
E' sempre possibile che il non-credente che "accondiscende" al matrimonio religioso - celebrato dopo quello civile - per far piacere al partner, non conferisca grande importanza alla cerimonia ecclesiale, giacché non la considera come la celebrazione "inaugurale" del matrimonio (la quale, per lui, si è già svolta) [22]. Ma, finchè persevera il suo proposito coniugale, questo atteggiamento "pro forma" non avrebbe effetto invalidante (cfr. decis. c. Stankiewicz, 26 giugno 1986: vol. 78, p. 401). Il consenso coniugale, prima insufficiente per mancanza della forma canonica, è adesso sufficiente per istituire il matrimonio sacramentale. Sostenere che il matrimonio sarebbe nullo, non perchè la persona avesse escluso la sacramentalità, ma perchè aveva "exclu que la celebration religieuse fut un mariage pour lui" (Candelier, op. cit. p. 142), significherebbe avanzare una dubbia ipotesi di simulazione totale; comunque non ha niente a che vedere con il problema della sacramentalità.
C'è anche chi dice che la Chiesa non mostra rispetto per la libertà di coscienza dei non-credenti battezzati, nel considerare invalido il loro matrimonio civile. Se sono non-credenti davvero, sarebbe naturale aspettarsi una totale indifferenza da parte loro verso la posizione della Chiesa riguardo il loro matrimonio, e una completa impassibilità a tale proposito. Se sono convinti che la loro unione è valida, perchè si dovrebbero preoccupare che la Chiesa, nella quale non credono, la considera altrimenti? In ogni caso, è evidente che non si fa violenza a nessun loro diritto (cfr. J.-P. Schouppe: "Lo «Ius Connubii», diritto della persona e del fedele", in Fidelium Iura 3 (1993), pp. 224-225>>.
Il matrimonio sacramentale: fonte di obblighi peculiari?
Quando si legge che "la carenza di fede ostacola l'assunzione di impegni matrimoniali conformi al dato sacramentale" (S. Gherro, Diritto matrimoniale canonico, Padova, 1985, p. 237), ci si domanda: quali sono questi "impegni" al di là di quelli del matrimonio non-sacramentale? Si ammette facilmente che l'assenza di fede è un ostacolo al compimento - facilitato dalla grazia - dei doveri matrimoniali, però non alla loro assunzione. Forse qui ci si presenta nuovamente un passaggio inconsapevole dal piano ascetico-pastorale a quello teologico-giuridico, e allo stesso tempo una tendenza a contemplare la mancanza di fede come garanzia contro il dover assumere degli obblighi, e non piuttosto come ostacolo per il ricevimento di benefici.
E' stata sollevata come possibile causa di nullità l'incapacità di assumere gli obblighi matrimoniali specifichi derivanti dal suo carattere sacramentale. Ma esistono tali peculiari obblighi o, più precisamente, esistono obblighi la cui l'assunzione debba essere considerata essenziale alla costituzione del matrimonio? Quando leggiamo: "non è tanto facile stabilire, in ordine giuridico, quali sono i peculiari diritti e specifiche obbligazioni, che devono contraddistinguere il matrimonio cristiano da qualsiasi altra unione matrimoniale", siamo pienamente d'accordo; rimaniamo invece un poco perplessi davanti all'immediata precisazione: "anche se in ordine ontologico ed anche teologico sono facilmente intuibili e definibili" (D. Faltin: "L'esclusione della sacramentalità del matrimonio", in La Simulazione del Consenso Matrimoniale Canonico, Lib. Ed. Vaticana, 1990, p. 93). Non c'è dubbio che il matrimonio cristiano dia origine a dei diritti/obblighi peculiari, di ordine morale ed ascetico (più che teologico); bisognerebbe però specificarli (cosa che l'autore qui non fa) prima di poter esaminare la loro rilevanza giuridica. A mio avviso, la difficoltà di precisare i peculiari diritti/obblighi del matrimonio cristiano considerati giuridicamente essenziali, deriva dal fatto che non vi esistono; vale a dire, i diritti/doveri fondamentali o costitutivi del matrimonio sacramentale non sono differenti da quelli del matrimonio naturale.
Lo stesso autore suggerisce che la mancanza di fede nella sacramentalità comporterebbe un concetto del matrimonio così degradato da rendere la persona incapace di un consenso valido. L'incapacità deriverebbe dalla "abnorme concezione del matrimonio come opzione ideologica e depravazione morale come scelta patologica di vita, difforme dalla concezione cristiana del matrimonio, con i suoi autentici valori umani di completamento e di elevazione nella dimensione spirituale del matrimonio cristiano, ai sensi del can. 1055" (ibid).
Coloro che stanno nell'errore riguardo il carattere sacramentale del matrimonio cristiano, certamente non riescono a capirne la sua piena dignità. Ciò non vuol dire, tuttavia, che la loro concezione del matrimonio sia moralmente corrotta, o caratterizzata da una comprensione patologicamente difettosa dell'arricchimento spirituale che il matrimonio offre. Sembra un tantino pessimistico supporre che coloro che asseriscono semplicemente di aver escluso la sacramentalità (senza proporre altro capo di nullità) non posseggano un concetto abbastanza normale del matrimonio e dei suoi diritti e doveri essenziali, con un senso positivo del suo valore umano.
Da un punto di vista teologico, quindi, non vi è nessun argomento per sostenere che la fede è un requisito per la valida ricezione del sacramento del matrimonio. Si potrebbe aggiungere che, da un punto di vista canonico, postulare tale requisito sarebbe come proporre la creazione di un nuovo impedimento matrimoniale. "Soluzioni" canoniche che fanno insorgere serie difficoltà dottrinali devono essere trattate con molte riserve, e sottoposte a un esame critico prudente e profondo [23].
I problemi di disciplina - insisto - devono essere separati dalle questioni teologiche. Senza dubbio esistono argomenti non trascurabili per modificare la positiva legge ecclesiastica in modo tale che i cattolici battezzati ma non-credenti possano contrarre matrimonio civile validamente. Questi matrimoni civili validi, com'è evidente, sarebbero pienamente sacramentali, come si è sempre verificato per i matrimoni fra persone battezzate non obbligate alla forma canonica. Quindi è unicamente come questione disciplinare che il tema va esaminato. Tentare di trasformarlo in questione teologica - la possibile separabilità nel caso di persone battezzate fra matrimonio naturale e quello soprannaturale - non è giustificato e serve soltanto a condurre verso inutili confusioni.
Dunque, mentre si può ragionevolmente proporre un cambiamento nella legislazione attuale che esige una concreta forma canonica per la valida celebrazione del matrimonio, è ben altra cosa richiedere - in effetti - il rifiuto del matrimonio religioso ai cattolici battezzati, in cui il sacerdote pensa di riscontrare un'assenza di fede sufficiente. Questo, oltre a comportare una violazione di diritti ecclesiali, indurrebbe non poche persone a unioni civili irregolari - non-sacramentali e invalide.
L'idea di lasciare tutti gli aspetti "non religiosi" del matrimonio alle cure dello Stato non sembra godere di una particolare perspicacia. Lo Stato moderno è spesso carente di una comprensione basilare e naturale dello stesso matrimonio (divorzio, matrimoni tra omosessuali..), e non ha i mezzi adatti con cui preparare i nubenti a capire il grande significato umano del passo che stanno per compiere, giacché il matrimonio conserva sempre il carattere di un evento religioso (cfr. Leo XIII, Encyc. Arcanum, loc. cit. pp. 22-23). La snaturalizzazione del matrimonio civile è in effetti un argomento non trascurabile per la conservazione della forma canonica (cfr. Baudot, op. cit. pp. 79-80).
A volte vengono ancora citati alcuni brani dei documenti del 1977 della Commissione Internazionale di Teologia [24], come se da essi provenisse un supporto univoco ad alcune delle nuove tesi che abbiamo esaminato. E' doveroso segnalare che i brani in questione sono segnalati da un contenuto molto ambiguo, mentre non hanno ottenuto nessuna approvazione dal Magistero; invece le leggittime preoccupazione pastorali su quali i documenti si fermano hanno trovato una autorevole risposta nella Familiaris Consortio. Rimando il lettore al mio articolo, "La sacramentalità del matrimonio: riflessioni teologiche" (loc. cit., pp. 332-335), dove ho fatto un esame più approfondito di questo punto.
Si può notare, inoltre, che la questione in discussione non ha niente a che vedere con il merito o meno del vocabolo "contratto" applicato al matrimonio. "Contratto" è semplicemente un termine consueto nella usanza giuridica che si riferisce all'"institutum naturale"; al matrimonio nella sua entità naturale (cfr. Hervada, op. cit. p. 800). In questo senso, il noto aforisma, "qui vult contractum, vult sacramentum", non è un riepilogo del tutto adeguato della questione; con più esattezza si dovrebbe dire: "qui vult matrimonium, recipit sacramentum".
Considero pertanto che l'affermazione del c. 1055, § 2 - "tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento" - costituisce non un positivo requisito giuridico aperto a possibili modifiche, ma l'espressione teologica della realtà, una realtà che così vincola la persona battezzata che desidera un matrimonio vero che non può escludere la sacramentalità. Una persona non può agire "ultra vires".
Tutto questo aiuta a confermare la nostra anteriore osservazione: che una causa di nullità a motivo dell'esclusione della sacramentalità viene impropriamente trattata come caso di simulazione parziale. Se la petizione di nullità è approvata, ciò avviene perché l'esclusione della sacramentalità si è risolta nell'esclusione del matrimonio stesso. L'ipotesi pertanto deve essere sempre riportata a quella di simulazione totale.
NOTE
[1] cfr. Leone XIII, Encyc. Arcanum, Leonis XIII P.M. Acta, Vol. II, Roma 1882, p. 26: Denz. 1854.
[2] cfr. Communicationes, 1977, 122; 1983, 221-222. D. Baudot: "La discussion actuelle sur l'inséparabilité entre le contrat et le sacrement de mariage" L'Année Canonique 30 (1987), pp. 67; 71. C. Burke: "La sacramentalità del matrimonio: riflessioni teologiche": Apollinaris 66 (1993), pp. 315-338.
[3] "La forma canonica non ha in sé niente a che fare col sacramento... Per dei battezzati, quando c'è accordo delle volontà e dei cuori, il sacramento è realizzato: e la forma canonica non vi aggiunge niente di sacramentale; essa è là solo per autentificare la cosa agli occhi della comunità, perché essa vi è direttamente interessata, a causa della natura emimentemente sociale del matrimonio" J.M. Aubert, Sexualité, amour et mariage, Paris, 1970, 105, citato in P. Barberi: La celebrazione del matrimonio cristiano, Roma, 1982, p. 50.
[4] Si può anche dire - e sarebbe una visione teologica più profonda - che gli sposi "sono Chiesa" nel momento del consenso": cfr. Burke, op. cit. p. 319.
[5] Proporre la validità di un matrimonio non-sacramentale tra cristiani, rivela una mancata comprensione non solo del sacramento del matrimonio, ma più in particolare di quello del Battesimo. Baudot insiste che l'intera questione è di natura essenzialmente teologica (e non canonica), comprensibile solamente in virtù della "relation mystérieuse qui existe entre le baptême et le mariage" (op. cit. p. 67).
[6] "Mentre attribuiamo una efficacia oggettiva alla realtà sacramentale, è estraneo al pensiero cattolico proporre una automaticità a un sacramento senza implicitamente affermare la libertà dell'uomo di accettare o rifiutare - di sacramentalizzare o meno - la grazia di Dio manifestata nell'essere sacramentale": R.C. Finn: "Faith and the Sacrament of Marriage", in Marriage Studies, III, Washington, 1985, p. 109.
[7] "le baptisé ne peut abolir l'être nouveau originé en lui par le baptême": Dictionnaire de Spiritualité, Beauchesne, Paris 1980. vol. X, 366; cfr. T. Rincón Pérez: "Fe y sacramentalidad del matrimonio", in AA.VV. Cuestiones fundamentales sobre matrimonio y familia, Pamplona, 1980, p. 193.
[8] Dal punto di vista teologico se si accetta che le parti contraenti "sono Chiesa", è possibile affermare anche che la Chiesa "sta agendo" tramite loro.
[9] Finis formae canonicae primarius est ut certo constet publice de celebratione, ne scilicet matrimonia clandestina contrahantur": Communicationes, 1976, p. 32.
[10] cfr. "intentio ministri debet conformari intentioni Ecclesiae": Summa Th., III, q. 64, art 10.
[11] "... sufficit ut [contrahens] verum matrimonium, seu prout a Deo institutum est, in quo continetur Ecclesiae intentio, contrahere intendat, et tunc et valide contrahit et ex voluntate Christi sacramentum conficit ac recipit, etiam si quid sacrum, sua ex parte, non intendit" (c. Giannecchini, 14 iunii 1988: RRD, vol. 80, p. 392).
[12] "Ad validum contrahendum matrimonium fides necessaria non est, sed unus consensus. Quapropter, quoties sponsi baptizati omnia, quae iure naturae necessaria sunt, ponunt legitima forma, vinculum indissolubile et ipsum sacramentum fit. Quod quidem non a fide contrahentium nec ab eorum voluntate, sed a voluntate Christi pendet": c. Boccafola, 15 febbr. 1988, vol. 80, p. 89; cfr. c. Stankiewicz, in una Montisvidei, 25 aprile 1991, nos. 3-4.
[13] Nell'Enciclica Arcanum, Leone XIII insegnava che è falso sostenere "esse sacramentum decus quoddam adiunctum, aut proprietatem allapsam extrinsecus, quae a contractu disiungi ac disparari hominum arbitratu queat" (loc. cit. p. 26). "E' dottrina della Chiesa cattolica che il Sacramento non è una qualità accidentale aggiunta al contratto, ma è di essenza al matrimonio stesso" (Littera di Pío IX al Re di Sardegna, 9 sett. 1852: in "Acta SS.D.N. Pii PP. IX ex quibus excerptus est Syllabus" (Roma, 1865), p. 105).
[14] O. Giacchi: Il Consenso nel Matrimonio Canonico, Milano, 1950, p. 69. "Contractus (matrimonium) ac sacramentum sunt modi, - unius naturalis, alterius supernaturalis - ipsissimae realitatis" (c. Boccafola, in una Romana, 15 febbr. 1988, no. 4); "patet nihil, in nova Lege, praeter sacramenti decus, fuisse in instituto matrimoniali additum, nihilque demptum, consequenter matrimonialem contractum unum eumdemque esse pro hominibus cunctis, cuiusvis fidei, linguae et moris" (c. Mattioli, 14 aprile 1956: vol. 48, p. 348).
[15] Ragione anche questa per pensare che "inseparabilità" è un termine non del tutto adeguato per sintetizzare la verità teologica che ogni valida alianza matrimoniale tra cristiani è sacramento. "Identificazione" potrebbe essere una parola più adatta. "Inseparabilità" tende a creare l'impressione che matrimonio valido tra cristiani e sacramentalità sono due realtà o elementi distinti ma "indissolubilmente" uniti, mentre che in realtà matrimonio e sacramento sono identificati nel caso di cristiani, in virtù del loro Battesimo, identificazione dovuta a un fattore ontologico estrinseco e anteriore a loro volontà matrimoniale. Presupposta un'autentica volontà matrimoniale, il loro matrimonio è inevitabilmente sacramentale.
[16] cfr. M. Zalba: "Num aliqualis fides sit necessaria ad matrimonium inter baptizatos celebrandum" Periodica 80 (1991), p. 99.
[17] "la legislazione canonica non considera l'esclusione della sacramentalità, come un capo autonomo di nullità, sulla linea dell'esclusione di un elemento o di una proprietà essenziale del matrimonio; la giurisprudenza ecclesiastica suole riportarla alla esclusione dello «stesso matrimonio»": A.M. Abate: "Il Consenso matrimoniale nel nuovo Codice di diritto canonico" Apollinaris, 49 (1986), p. 482.
[18] c. Pasquazi, 26 luglio 1960; vol. 52, p. 429; c. Fiore, 17 luglio 1973; vol. 65, p. 592; c. De Jorio, 23 aprile 1975; vol. 67, p. 353; c. Stankiewicz, 26 giugno 1980, no. 4d; c. Serrano, 18 aprile 1986: vol. 78, pp. 287ss; c. Giannecchini, 14 giugno 1988: vol. 80, p. 398, etc. Cfr. Z. Grocholewski: "Crisis doctrinae et iurisprudentiae rotalis circa exclusionem dignitatis sacramentalis in contractu matrimoniali", Periodica, 67 (1978), p. 285.
[19] M. F. Pompedda: "Fede e Sacramento del Matrimonio", Quaderni Studio Rotale, II (1987), p. 64.
[20] Mi sembra vero che se una persona è vittima di un errore radicato in tema, l'errore riguarda di solito il valore di una cerimonia religiosa: normalmente continua comunque a credere nel matrimonio.
[21] Gasparri qui segue la costante dottrina occidentale che i ministri sono gli stessi sposi; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1623.
[21] Ecco perchè non condivido l'opinione che chi vede nel semplice fatto del Battesimo il criterio determinante per la sacramentalità demostra una deficiente comprensione "personalista" (cfr. J.M. Serrano, "El carácter personal del matrimonio", in Iustus Iudex, Essen 1990, p. 321.). Mi sembra, al contrario, che è proprio la dignità personale derivante dal Battesimo ciò che permette alle parti di ricevere il dono della sacramentalità e venirne arricchiti nel riceverlo.
[22] cfr. G. Candelier: "Incroyance et validité du mariage sacramentel" Revue de Droit Canonique 41 (1991), pp. 141-142.
[23] Come J.M. Aubert ammette, la "soluzione" di riconoscere il pieno valore naturale - ma non la sacramentalità - del matrimonio civile dei battezzati non-credenti, pone "graves difficultés doctrinales" ("Foi et sacrement dans le mariage", La Maison-Dieu 104 (1970), p. 133); cfr. T. Rincón Pérez: "Implicaciones doctrinales del matrimonio civil en los cátolicos", Ius Canonicum, 19 (1979), pp. 77ss.
[24] "La sacramentalità del matrimonio cristiano", e "Foedus matrimoniale": Enchiridion Vaticanum