[Sul filo delle riflessioni avviate in Studi Cattolici n. 324 (pp. 83-87), Cormac Burke, uditore della Sacra Rota, applica alla realtà matrimoniale il principio per cui le istituzioni stabilite da Gesù Cristo nella Chiesa sono create per la persona umana e per la sua crescita cristiana. In questa prospettiva la legge ecclesiastica, nel momento in cui difende le istituzioni, difende la persona nei suoi più inviolabili diritti. Un principio universale, che assume però rilievo peculiare quando è riferito all'indissolubilità del legame matrimoniale, che la Chiesa difende come requisito essenziale delPistituzione voluta da Dio.]
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Si sente affermare con una certa frequenza che la Chiesa preconciliare, nella sua difesa della istituzione del matrimonio, e specialmente nell'insistere sul fatto che la procreazione è il fine primario del matrimonio e l'indissolubilità una delle sue proprietà essenziali, trascurava gli aspetti personalisti dell'unione matrimoniale, soprattutto il diritto alla felicità e all'autorealizzazione di ciascuno degli sposi.
Secondo questa opinione, il Concilio Vaticano II ci avrebbe dato una visione nuova del matrimonio, vedendolo meno come una istituzione e più come una relazione tra due persone. In tal senso, il Concilio avrebbe aperto il cammino a un modo più autenticamente pastorale di trattare le situazioni e i problemi matrimoniali. Tra questi il più importante si presenta certamente nei matrimoni in crisi e — così affermano alcuni — l'ostacolo alla soluzione pastorale di questi problemi continua a essere il concetto istituzionalizzato dell'indissolubilità. Assicurano, per di più, che un'impostazione rigida dell'indissolubilità si mostra, dal punto di vista pastorale, non solo sterile, ma anche ingiusta e crudele, poiché condanna molte persone, vittime di un matrimonio fallito, a scegliere tra due soluzioni di delusione amara: sacrificare la loro speranza di vedersi felici in un nuovo matrimonio se vogliono mantenersi nella comunione dei sacramenti, o sacrificare questa comunione sacramentale se si risposano.
Deve sempre costituire una preoccupazione pastorale — e giuridica — della Chiesa il fatto che ogni matrimonio nullo sia effettivamente dichiarato tale quando non sia possibile sanarlo. Ma preoccupazione ancor più fondamentale da proporsi non deve essere proprio quella di adoperarsi affinchè simili situazioni siano evitate? In altre parole, una pastorale autentica deve pretendere che i fedeli contraggano matrimoni veri, il che significa tra l'altro — e valga la ridondanza — matrimoni indissolubili.
Se questa affermazione risulta diffìcile da accettare ad alcuni pastoralisti, sarà forse perché si sono lasciati persuadere dall'affermazione secondo cui l'indissolubilità, vista sotto l'aspetto pastorale, non è un fattore positivo, ma negativo. Non è qualcosa che contribuisce alla vita cristiana, ma piuttosto la ostacola.
Sono convinto che una pastorale matrimoniale rinnovata ed efficace dipende in gran parte dalla possibilità di rettificare questa idea e considerare l'indissolubilità in una prospettiva positiva, piuttosto che negativa; dipende dalla possibilità di chiarire la nostra concezione dell'indissolubilità, per comprendere che la sua difesa implica la difesa non solo dell'aspetto istituzionale, ma anche dell'aspetto personalista del matrimonio. Un adeguato chiarimento su tale punto è di straordinaria importanza.
Affrontiamo il tema precisamente nel contesto dei matrimoni nei quali ogni traccia di armonia coniugale tra gli sposi sembra essere scomparsa e i due pretendono (o almeno uno dei due pretende) la libertà di cercare la felicità in un'altra unione. Perché la Chiesa difende tali matrimoni che sono totalmente crollati? Difendendoli la Chiesa non starà forse difendendo l'istituzione — carente, in questi casi, di vita e di sentimento — fino a danneggiare le persone?
No. Difendendo l'indissolubilità di tali matrimoni, la Chiesa sta difendendo anche le persone; concretamente tré categorie di persone:
1) I figli in primo luogo. I figli non vogliono vedere i genitori litigare ne separarsi, ma preferiscono che stiano insieme. Inoltre i figli hanno il diritto di vedere i loro genitori vivere questa unità che la Chiesa difende e che, alla fine, loro stessi — i genitori — possono creare, se lo desiderano. Anche supponendo che uno dei genitori si rifiuti di compiere il proprio dovere di creare e mantenere l'unità coniugale e famigliare, i figli, malgrado ciò, hanno diritto alla fedeltà dell'altro.
2) Difendendo l'indissolubilità, la Chiesa difende anche i diritti di altre persone che non appartengono al nucleo famigliare: quelli di altri matrimoni, di persone che si preparano al matrimonio, quelli dei giovani in generale... A questo riguardo, è interessante ricordare che, per quanto si esaltino gli aspetti personalisti del matrimonio, nessuna visione cristiana (ne umana, direi) può omettere gli aspetti sociali. Il matrimonio non è mai un fatto puramente personale: è sempre anche sociale. Una coppia di sposi ha diritti e doveri verso la società e la società ha diritti e doveri verso ogni coppia di sposi. Concretamente, gli altri membri della società hanno il diritto di vedere un esempio di fedeltà nella mutua donazione matrimoniale degli sposi. Hanno il diritto di vedere la testimonianza di coppie che, con la loro vita, proclamino: «Sì, è possibile essere casti e fedeli, è possibile andare d'accordo con l'altro nonostante i suoi difetti, è possibile vincere la propria superbia, le debolezze e gli egoismi personali». Una società in cui nessuno è testimone di questa fedeltà risulterà una società in cui nessuno prende sul serio il matrimonio, il che comporterebbe una società destinata al collasso. È importante ricordare alle coppie che si preparano al matrimonio, così come a quelle già sposate, che contrarre matrimonio significa contrarre gravi obblighi e responsabilità verso la comunità. Nessuna autentica visione del matrimonio può omettere di sottolineare tale aspetto sociale.
3) La terza categoria di persone che l'indissolubilità desidera difendere sono gli stessi sposi. Questo, effettivamente, è il quid pastorale del tema. Questo può sembrare il punto più diffìcile da comprendere e, malgrado tutto, con un po' di riflessione, dovrebbe risultare di facile comprensione, almeno da parte dei pastori. È vero che una persona o una coppia che attraversa un momento di crisi può non prenderne coscienza. E tuttavia proprio allora il pastore consapevole può aiutarli.
Ma — è logico che venga l'obiezione — se il matrimonio di due persone è fallito irrimediabilmente, perché non si concede loro la libertà di cercare la felicità in un secondo matrimonio? La risposta semplice a questa domanda — la risposta pastorale — è che non è volontà di Gesù Cristo — loro Pastore — che sia riconosciuta loro tale libertà.
Ma perché? Forse perché Egli non desidera che siano felici? No, è precisamente perché vuole che siano felici — con quella limitata felicità che si può raggiungere in questa vita e con una felicità illimitata nella vita eterna. Ma Egli sa che la felicità dipende dall'amore, dalla capacità di amare, dall'aver saputo sviluppare questa capacità. E il suo "progetto" del matrimonio è che esso sia una chiamata costante allo sviluppo di questa capacità di amare. Dal punto di vista personalista, questa è la finalità del matrimonio: non tanto fruire dell'amore, ma apprendere ad amare. Da ciò dipende l'autentico bonum coniugum, il bene dei coniugi. Il matrimonio, nel piano divino, si presenta non tanto come santuario o rifugio dell'amore, ma come scuola dell'amore. Le persone sposate sono novizie dell'amore, come di fatto lo siamo tutti in questa vita. Ciò che rende più diffìcile questo nostro apprendistato è l'egoismo personale. La felicità offerta dall'amore dipende dalla progressiva vittoria sull'egoismo; questa è la ragione per cui il raggiungimento della felicità esige uno sforzo. Questa è anche la ragione per cui i momenti "difficili" del matrimonio — quelli nei quali tutto costa fatica — possono anche diventare momenti particolarmente utili, sempre che ci sia la disposizione ad affrontare la sfida che questi momenti comportano.
È precisamente la natura indissolubile del vincolo matrimoniale ciò che contribuisce in maniera notevole al bonum coniugum. L'indissolubilità rammenta agli sposi che Dio vuole la perseveranza nella loro reciproca donazione, anche quando questa dedizione sembri impossibile, o non abbia senso né oggetto (per esempio quando i coniugi non hanno avuto figli), e che il Signore vuole la loro perseveranza nel proposito di amarsi anche quando sembra che ogni sentimento di amore sia spento.
La maturazione dell'amore
La Costituzione conciliare Gaudium et spes insegna che l'amore coniugale è "eminentemente umano", perché è l'"amore tra due persone radicato nella volontà" (n. 49). Di solito l'amore comincia a livello emotivo o di sentimento, ma non maturerà mai ne arriverà a essere veramente profondo se rimarrà a questo livello (che è certamente il livello superficiale delle relazioni umane). Se l'amore deve crescere, non può continuare a essere qualcosa di meramente sentimentale; deve trasformarsi in una scelta cosciente e volontaria, con tutta la fermezza e la maturità che provengono dalla volontà. È nella volontà, come rileva il Concilio, che devono porsi le sue fondamenta.
Se l'amore fondato sul sentimento può essere un amore ancora non vero o profondo, l'amore che pone condizioni è un amore molto sospetto, e l'amore calcolatore non è per niente amore. Non è l'amore che parla quando, in fondo, ciò che si vuole dire è: «Ti amerò a condizione che questo non esiga uno sforzo, né richieda un sacrificio», «Ti amerò a condizione che tu non abbia alcun difetto», «Ti amo perché prevedo che mi renderai felice». Questo è egoismo, non è amore.
Certo, all'inizio di ogni fidanzamento e di ogni matrimonio, insieme con alcuni elementi di amore puro («Ti amo per ciò che sei») si presenteranno indubbiamente anche elementi egoistici. La pastorale del matrimonio deve aiutare le persone a rendersi consapevoli di tali aspetti, affinchè si impegnino a rettificare gradualmente il loro modo di intendere e vivere l'amore. Nessuna impostazione pastorale dovrebbe presentare la felicità come qualcosa di più diffìcile di quello che realmente è. Ma è una pastorale falsa quella che non critica l'idea che la felicità possa conseguirsi facilmente. Non siamo pastorali con le persone — non le stiamo aiutando, bensì ingannando — se diciamo loro che hanno il diritto a una felicità senza lotta.
La legge dell'indissolubilità ricorda a una persona sposata: «Non hai il diritto di abbandonare lo sforzo di amare anche quando la vita matrimoniale risulta diffìcile o incontra ostacoli inaspettati. Non hai il diritto di tradire tuo marito, tua moglie, i tuoi figli o altre persone. In definitiva, non hai il diritto di tradire tè stesso, pensando che puoi trovare una felicità migliore e più reale di quella che Dio ha preparato per tè. In questo modo non sarai mai felice. La felicità che potresti incontrare sarebbe troppo amara». La generosità di cuore di tanti pastoralisti è un grande dono, a condizione che non vada a scapito della chiarezza di idee. La pastorale soffre, se manca una delle due qualità. Il buon pastoralista si sforza di comprendere e consolare con il cuore di Cristo, però anche di riflettere e consigliare secondo la mente di Cristo. Quanto più è volto a solidarizzare con una persona che vive un momento diffìcile, tanto più deve ricordare — a sé stesso come alla persona che attraversa quella situazione — la necessità della legge morale dataci da Gesù Cristo. Un pastoralista può comprendere e sentire tutto il vigore dei fattori emotivi che inducono una ragazza ad abortire, ma deve mantenere quella sufficiente chiarezza di dottrina per non dimenticare — e per dire — che l'aborto non solo è un omicidio davanti a Dio, ma un suicidio per chi lo compie: suicidio per la coscienza e per la possibilità di essere felice.
A ognuno di noi si offre la possibilità di essere felice, ma molti la sciupano perché non affrontano la sfida che, necessariamente, è parte di questa opportunità. Ogni autentico lavoro pastorale deve considerare questo aspetto di sfida che Dio ha voluto associare al suo piano salvifico per la felicità umana. Le persone che sono in difficoltà hanno bisogno di consolazione e, se è possibile, di aiuto per uscire da queste difficoltà. Talvolta, però, l'unica possibilità veramente pastorale sta nell'aiutarli ad affrontare le difficoltà e la sfida che comportano.
La legge che proibisce l'aborto o il divorzio non "crea" problemi; evita — per lo meno tenta di evitare — false "soluzioni" ai problemi. Al pastoralista si chiede un minimo di chiarezza per rilevare che non è la legge che crea i problemi o le difficoltà: le difficoltà già esistono. È la "soluzione" che può peggiorarle. Pertanto, è una visione pastorale superficiale ed erronea quella che considera la legge come un ostacolo nel cammino verso la felicità. La legge è una sfida che caratterizza il cammino della felicità.
Le sfide dell'amore
Una seria riflessione sul tema che abbiamo appena trattato potrebbe servire a quei pastoralisti — sacerdoti o no — che temono ciò che considerano una pastorale "negativa" e pensano che, se rispondono con un "no" alla soluzione proposta da una persona in difficoltà, non possono offrire altre indicazioni. Dimenticano che possono — e devono — offrirle una sfida.
Come mai, secondo quanto accade, abbiamo tanto timore oggi nel proporre sfide alla gente (la sfida della castità, della generosità, della fedeltà)? Forse non abbiamo la stessa fiducia nell'uomo che ha avuto il Signore: Egli proponeva sfide continuamente. Forse dovremmo esaminarci per vedere se accettiamo nella nostra vita queste sfide con animo positivo e coraggioso. La sfida vale anche per quei matrimoni falliti che sarebbe facile definire "disperati", senza possibile rimedio: il matrimonio, per esempio, in cui uno dei due è giunto all'alcolismo o è stato condannato all'ergastolo. È facile sostenere che quando un coniuge ha promesso di accettare l'altro "nella salute e nella malattia", "nel bene e nel male", non pensava ne prevedeva tali eventualità. E, tuttavia, prevedere in qualche modo queste possibilità è — letteralmente e direttamente — implicito nelle promesse matrimoniali. Queste promesse, se non fossero tali, sarebbero espressione soltanto di quell'"amore" condizionato — privo di valore — al quale ci siamo riferiti precedentemente: «Prometto di amarti a condizione che l'amore non esiga mai sacrificio».
Manca di senso pastorale chi vuole qualificare queste situazioni come disperate. La pastorale non può mai appoggiarsi su criteri esclusivamente umani. Altrimenti, trattandosi per esempio di un malato di cancro in fase terminale, il giudizio medico secondo cui il caso è "disperato" comporterebbe che, pastoralmente parlando, non ci sia più niente da aggiungere. Ciò che non è affatto vero: anche quando un medico non può offrire alcuna speranza, il sacerdote — e qualunque cristiano — può offrirla.
Lo stesso possiamo affermare di questi casi matrimoniali. È anche vero che, se si deve rispettare l'indissolubilità, la visione umana può non intravedere alcuna speranza. Ma la visione cristiana invece la vede: la speranza dell'immenso premio riservato a colui che si mantiene fedele (non solo al proprio marito o alla propria moglie, ma a Cristo!) nel portare la Croce.
Il conforto pastorale che si offre aiutando le persone a tener presente questa speranza è immenso. E inoltre, non è solo a questo livello puramente soprannaturale e ultraterreno che si può offrire loro conforto. Ci sono anche considerazioni umane che è opportuno ricordare per giustizia pastorale e nelle quali le persone in difficoltà possono ritrovare forza e coraggio. Si può rammentare loro che la persona sposata che, in situazioni di particolare difficoltà, continua a essere fedele al suo impegno matrimoniale, è di esempio e di ispirazione per tante altre persone. È fondamentale soprattutto capire e aiutarle a comprendere che la fedeltà, in tali situazioni diffìcili, ha un carattere profondamente naturale, che si vede precisamente nell'appello forte e deciso alle aspirazioni più generose della natura umana. Così come non è naturale per una madre rifiutare o abbandonare il proprio figlio, anche se alcolizzato o criminale (le risulterebbe più facile abbandonarlo e vivere solo per sé stessa, però non agisce in tal senso), non è autenticamente naturale ne veramente cristiano per un coniuge abbandonare il proprio marito o la propria moglie perché è alcolizzato o carcerato. Se il pastoralista deve fornire un vero aiuto alle persone sposate, deve condividere questa convinzione e, se incontra persone sposate propense a ragionare in altro modo - con poca lealtà, poco coraggio e con eccessiva autocomprensione e codardia -, in tal caso individua un problema pastorale: come aiutare queste persone a raggiungere una comprensione più cristiana del valore e della bellezza — esigenti — del vincolo matrimoniale?
Davanti al tribunale ecclesiastico
In relazione ai giudizi che emettono i nostri tribunali ecclesiastici per una istanza di nullità, talvolta si sente affermare che la risposta deve essere almeno tanto pastorale quanto giuridica. Alla radice di queste affermazioni si nasconde l'idea che solo il giudizio affermativo all'istanza (cioè la dichiarazione di nullità) può denominarsi pastorale, mentre il giudizio negativo (quello che di fatto mantiene la validità del matrimonio) necessariamente deve essere tacciato come "non-pastorale", o "anti-pastorale". Questa visione dialettica che sembra porci l'alternativa tra pastorale e giuridico è fondamentalmente erronea.
Dove entrano in campo gli interessi delle persone, lì è presente la giustizia, che è un tema d'importanza pastorale non meno che giuridica. Certamente si può distinguere, da un lato, il processo delicato e spesso difficile per discernere e dichiarare ciò che è giusto; questo processo si qualifica a ragione come giudiziale. Dall'altra parte si può distinguere il compito delicato e spesso ugualmente difficile di ottenere che le parti riconoscano che quello che si è dichiarato giusto lo è realmente e lo accettino come tale: questo compito è propriamente pastorale. Ma queste distinzioni indicano una complementarità e non un contrasto. Se una sentenza giudiziale è giusta, se rispetta e stabilisce i diritti, allora è pastorale. Contrariamente non si ammette alcuna iniziativa o realtà pastorale che non sia contestualmente giusta poiché, se non è tale, viola i diritti di qualcuno. O forse si chiede una pastorale che disprezzi la giustizia, che tolleri e approvi l'ingiustizia e la violazione dei diritti?
Condivido l'opinione secondo la quale molti tribunali ecclesiastici lavorano con eccessiva lentezza. Penso che debbano effettivamente funzionare con più rapidità. Non a danno della giustizia, però. Non compiamo un buon lavoro pastorale se omettiamo di proporre la vita cristiana come una costante sfida personale diretta a ognuno di noi. E questo — è importante ricordarlo — significa incoraggiare, non scoraggiare. La castità, per quanto diffìcile, attrae fortemente. E attrae anche la giustizia, non solo la giustizia sociale, ma anche — particolarmente — la giustizia personale, con l'invito e la sfida che propone a ognuno di noi di rispettare gli altri, di affrontare i nostri doveri nei loro confronti e di compierli.
La giustizia è un forte stimolo per l'uomo. Richiama tutta una serie di valori che le sono intimi (principalmente la sua onestà), affinchè anteponga i giusti diritti degli altri alle proprie comodità o interessi. Pertanto suscita perplessità l'affermazione — che alcune volte si ascolta — secondo la quale un giudizio non è capace di "sanare" le persone. Non è vero. Un giudizio giusto — una dichiarazione di giustizia — è dotato di una notevole capacità di sanare, o per lo meno di indicare la via della salute.
E certo che un solo giudizio — la semplice dichiarazione di giustizia — può non risultare sufficiente per restituire la salute: è necessario che sia accettato, che gli si dia vigore. Pertanto, anche se la giustizia contiene sempre la capacità di sanare, non è semplicemente la dichiarazione di giustizia che sana, ma l'accettazione di essa. Ed è compito pastorale il far conseguire questa accettazione.
Che la buon medicina deve guarire significa che il trattamento di cura esige non solo una diagnosi esatta, ma anche di indurre il malato ad accettare la terapia necessaria, sebbene dolorosa o amara. La diagnosi e la prescrizione medica (come il giudizio) sarebbero inutili se non ci fosse nessuno in grado di ottenere che il malato accetti ed effettui la cura.
Di conseguenza, sia i giudici che i pastori possiedono la capacità di sanare. Tale capacità, però, non si esercita se si da ragione a chi ritiene la violazione dei diritti o l'omissione dei doveri come indice di salute e non di malattia.
Esistono certamente casi nei quali un giudizio sembra lasciare "ferite" in una persona, che rimane offesa e amareggiata. Ma se la sentenza è giusta, questa persona non deve comportarsi in questo modo né restare in tale atteggiamento. La preoccupazione pastorale, in tal caso, deve consistere nell'aiuto verso questa persona a superare il suo atteggiamento e comprendere che il giudizio — nonostante le sue esigenze personali, per quanto gravose queste possano sembrare — difende i diritti di altre persone. Solo a condizione di accettarlo scomparirà la "ferita" e il trattamento di cura giungerà a buon fine. Il pastore che non vede o non coglie questo aspetto della cura pastorale forse può convincere le persone che sono sane, ma in realtà le sta abbandonando alla loro malattia.
Gli annullamenti di matrimonio si stanno moltiplicando in tutto il mondo cattolico. Alcuni considerano questo fenomeno un trionfo della prassi canonico-processuale. Io sono propenso a ritenerlo piuttosto come il fallimento della prassi pastorale. Nell'ambito del matrimonio, come nella vita in generale, esisteranno sempre casi diffìcili, molti dei quali non presentano una soluzione umana. Anche in queste ipotesi, il peso e la sofferenza che comportano si allevieranno se li si comprenderà come una partecipazione alla Croce di Cristo. In questi casi, l'autentico contributo pastorale consisterà nell'abitare le persone a cogliere questa visione.
Certamente molte situazioni difficili che attualmente si verificano si sarebbero potute evitare, le difficoltà si sarebbero potute superare con l'aiuto di un perseverante lavoro pastorale fondato sui seguenti princìpi:
— il matrimonio è cammino di santità e pertanto, come ogni cammino di santità, deve basarsi su una vita di orazione costante e sulla frequenza dei sacramenti (cfr Codex iuris canonici, can. 1063) e, evidentemente, sulla generosità e il sacrifìcio;
— Dio è onnisciente e conosce perfettamente il valore del vincolo matrimoniale indissolubile; Egli sa che amare significa darsi e mantenersi fedeli a tale dono di sé, pertanto desidera che gli sposi siano legati allo sforzo salvifico e alla missione liberatrice di apprendere a dare e ad amare;
— la terra non è il Cielo, ma l'amore umano sulla terra è divinamente ordinato a essere preparazione dell'Amore del Cielo;
— di conseguenza, se Dio vuole che marito e moglie rimangano reciprocamente uniti durante la vita terrena, ciò è inteso affinchè ognuno di loro rimanga unito a Lui per tutta l'eternità. I pastori che non sono convinti del valore umano dell'indissolubilità, dovrebbero seguire — ad esempio per sei o per otto anni — la storia delle coppie che hanno optato per il divorzio oppure hanno ottenuto un "facile" annullamento. Per ogni caso che presenti un risultato apparentemente soddisfacente, ne incontreranno dieci (o cento) che, non avendo saputo corrispondere alle esigenze dell'amore, sono scivolati progressivamente verso l'egoismo e la solitudine. Inoltre queste persone — pur prescindendo da possibili mancanze verso Dio — vivono una profonda delusione interiore a causa delle mancanze commesse verso i figli, verso i parenti, verso gli altri in generale, o semplicemente verso sé stessi.
Poche situazioni possono danneggiare il lavoro pastorale quanto un atteggiamento di sfiducia verso la legge di Dio. Qualora gli stessi pastori adottassero tale atteggiamento, verrebbe inevitabilmente meno il loro zelo per aiutare le persone sposate a mantenersi nel cammino della dedizione sacrificata, dell'autentico amore matrimoniale. Si giungerebbe, come risultato finale, a un problema pastorale di nuove dimensioni: una moltiplicazione illimitata di persone sempre più sole e sempre meno capaci di amare.
Questo orizzonte può essere più o meno lontano, ma è evidente che, qualora una pastorale si basasse sul principio secondo cui si può raggiungere la felicità senza sforzo, senza donazione, senza lottare contro l'egoismo e contestualmente confermasse l'idea che l'autorealizzazione consiste nel lasciarsi condurre dall'emotività, piuttosto che sottomettere l'emotività (sempre che ciò sia necessario) all'intelligenza e alla volontà — qualora questo si verificasse, prima o poi la società ecclesiale si convertirebbe in una "non-comunità", un "non-populus", dove i vincoli del rispetto, dell'aiuto e della lealtà reciproci non esisterebbero più. Ogni persona che desiderasse una legge per sé, finirebbe per costituire un mondo per sé: un mondo limitato e deluso, dominato dalla solitudine, dall'egoismo e dalla radicale infelicità.