Il contenuto del «Bonum Fidei» (Apollinaris LXIV (1991), 649-666.)

            S. Tommaso insegna che "unitas pertinet ad fidem, sicut indivisio ad sacramentum" (In IV Sent., d. 31, q. 1, art. 2 ad 4). Sembra che queste parole, lette nel contesto del can. 1056 diano consistenza all'opinione che il "bonum indissolubilitas" e il "bonum sacramenti".

            Ci si può inoltre domandare se l`espressione "coniugalis fidelitas" sia anch'essa fidei" e l'"unitas" siano sinonimi allo stesso modo in cui lo sono l'" sinonimo o no del "bonum fidei" e dell'"unitas". Il Gasparri sembra sostenga che questi tre termini, considerati teologicamente, esprimano lo stesso concetto: "Unitatem [theologi] dicunt "bonum fidei" seu fidelitatis, quod importat praecipue, ut pars, matrimonio legitime prius non soluto, non praesumat contrahere novum matrimonium, neque cum alia persona rem habeat" (De Matrimonio, ed. 1932, vol. I, p. 19).

            Comunque, l'ambito teologico-morale non sempre coincide con quello giuridico. Ferma restando l'importanza morale della fedeltà coniugale, occorre tuttavia analizzare l'aspetto giuridico della questione. La fedeltà si deve considerare solo un mero requisito morale della vita coniugale (del "matrimonio in facto esse")? Oppure l'"intentio fidelitatis" costituisce un essenziale requisito giuridico, almeno nel momento costitutivo del matrimonio "in fieri"? In altre parole, si dà uno stretto diritto costitutivo alla fedeltà?

            Nel citato passo del Gasparri si possono distinguere due obblighi da mantenere durante la convivenza coniugale, cioè: a) non presumere di attentare un nuovo matrimonio; b) non intrattenere rapporti sessuali con un'altra persona. Atteso che dal patto coniugale l'uno e l'altro obbligo acquistano piena forza morale, ci si pone la questione se l'"intentio contrahentis" debba abbracciare ambedue obbligo in maniera tale che per la costituzione giuridica del matrimonio siano entrambi essenziali allo stesso modo.

            Non c'è difficoltà quanto all'intenzione di non contrarre un nuovo matrimonio, giacché tutti concordano che tale intenzione è essenziale per poter porre un valido consenso matrimoniale. La difficoltà invece sorge sulla "intentio rem sexualem cum tertia persona non habendi". E' essenziale tale intenzione per la costituzione del matrimonio? Il semplice "propositum in futurum adulterandi", quando viene emesso in sincrona connessione col consenso matrimoniale, invalida il consenso?

            E' mia opinione che la giurisprudenza non sia ancora pervenuta a una consona e coerente dottrina su questo punto: anzi, si ha l'impressione che molte teorie al riguardo, considerate "progressiste" al loro sorgere, corrispondano a una concezione del matrimonio (o meglio a una concezione dell'oggetto del consenso matrimoniale), che non trova affatto riscontro nel nuovo codice.

Giurisprudenza

            C'è una lunga e solida tradizione nella giurisprudenza rotale, che identifica il "bonum fidei" con l'unità, cioè col fatto che un partner accetti l'altro come unico sposo. Nel contesto di tale dottrina il "bonum fidei" si esclude solo se nel consenso non si riserva in modo esclusivo all'altra parte il diritto alla copula coniugale, ma lo si prospetta estensibile anche ad altri, a proprio piacimento.

            "Nullum est matrimonium, si nupturiens ... positive reiicit in suo principio bonum fidei seu unitatem matrimonii" (c. Jullien, 24 gennaio 1938: SRRD, vol. 30, p. 63).

            "Bonum fidei, circa quod communiter deprehenduntur errores in conceptu, deest tantummodo cum saltem unus ex contrahentibus, in matrimonii celebratione, intendit, praeter traditionem et acceptationem iuris ad actus coniugales cum altero contrahente, etiam ius aut obligationem ad actus coniugales cum tertia persona " (c. Canestri, 15 luglio 1941, SRRD, vol. 33, p. 622).

            "Exclusio boni fidei seu unitatis matrimonii tunc tantum dirimit, si contrahens positivo actu suae voluntatis detrectat comparti tradere exclusivam potestatem sui corporis in ordine ad actus coniugales, non autem ab illo qui nil aliud intendit nisi fidem coniugalem laedere" (c. Wynen, 20 luglio 1943, SRRD, vol. 35, pp. 626-626) (Si modo simile, c. Anné, 9 dicembre 1964: SRRD, vol. 56, p. 912).

            "Ad dirimendum matrimonium ex hoc capite, requiritur ut contrahens demat de suo consensu... ipsum ius uni et soli comparti competens, tradendo hoc ius, totum vel ex parte, alicui tertiae personae" (c. Wynen, 17 giugno 1950, SRRD, vol. 42, p. 383).

            "Ius enim tunc tantum nota exclusivitatis privatur, cum nupturiens intendit ius in suum corpus ad actus coniugales cum pluribus ex aequo dispertiri" (c. Rogers, 20 dicembre, 1965, SRRD, vol. 57, p. 967).

            "Qui unitatem vinculi respuit, seu ius non tradit comparti exclusivum, irritas facit nuptias" (c. Fiore, 16 novembre, 1974: SRRD, vol. 66, p. 750).

            Secondo tale dottrina, il "bonum fidei" viene escluso dal nubente che non dà all'altra parte il diritto coniugale esclusivo, riservandosi la possibilità, in costanza di vita del coniuge, di stabilire una relazione di indole "coniugale", consolidata da diritti e doveri scambievoli, con una terza persona. E' vero che la pretesa relazione si deve descrivere come "coniugale" o pseudoconiugale (cfr. SRRD, vol. 49, p. 261, c. Mattioli), in quanto non può essere posta in atto, in costanza con la prima, nessun'altra autentica relazione maritale. Di pari passo anche lo scambio dei diritti e dei doveri non può che essere definita pseudogiuridico, essendo venuto meno quel fondamento morale dal quale unicamente può derivare una vera indole giuridica. Comunque, l'intenzione del simulante nella fattispecie è assumere una specie di "coniugalità" vincolante, che vorrebbe estendere a parecchi altri partner.

            Nel decorso degli anni questa posizione è stata criticata perché limitativa dell'interpretazione del "bonum fidei", in quanto la sua esclusione si sarebbe ristretta solo ai casi in cui l'intenzione del simulante fosse poligamica. Negli ultimi decenni è emersa (ed è stata recepita da parecchi autori) una posizione dottrinale diversa, secondo cui il "bonum fidei" deve essere identificato non con la proprietà giuridica della unità ma con l'obbligo morale della fedeltà. Abbandonando la tradizionale formula di equivalenza, "bonum fidei seu unitas", tale posizione preferisce un'altra formula, cioè, "bonum fidei seu fidelitas".

Posizione dottrinale di Arturo de Jorio

            Arturo De Jorio, che si può considerare il principale fautore di questa posizione dottrinale, afferma che la fedeltà si può osservare anche da chi esclude l'unità: ne consegue che il "bonum fidei" e l'unità del matrimonio non coincidono. Così scrisse in una sentenza del 13 luglio 1968: "Quoad exclusionem boni fidei seu fidelitatis. - Cogitatione (in astratto) exclusio boni fidei confundenda non est cum exclusione unitatis: quis enim potest excludere unitatem, et insimul sese obligare ad servandam fidem, utique duabus vel tribus, seu aliquibus determinatis feminis" (SRRD, vol. 60, p. 555).

            Già nella sentenza del 30 ottobre 1963 aveva accettato il criterio emerso alcuni anni prima, per cui il "bonum fidei" significava la "exclusivitas iuris corpore utendi", e pertanto va escluso dalla persona chi si riserva il diritto "alii personae, vel aliis, suum corpus tradendi, atque earundem carne ad libitum utendi" (vol. 55, p. 718). Così giunse alla conclusione che l'esclusione del "boni fidei seu fidelitatis" si avvera semplicemente quando il contraente non accetta l'obbligo di conservare la fedeltà, cioè non dà all'altra parte lo "ius exclusivum in proprium corpus" (Vol. 60, p. 556, n. 8); "quod verum evadit etiamsi ius non tradiderit alii vel aliis, sed sibi reservaverit licentiam faciendi corporis sui copiam cui libuerit: aliis verbis, si vinculo non se obstrinxerit servandi fidem erga compartem" (Sent. 10 gennaio 1973, vol. 65, p 12. cfr. altre Sentenze c. De Jorio nella stessa linea: 17 giugno 1964; 26 febbraio 1969; 27 ottobre 1971, ecc).

            La logica conclusione di questa tesi è che il criterio decisivo per provare l'esclusione del "bonum fidei" non è l'intenzione di dividere con altre persone il vincolo coniugale, ma è solo quella di dividere così l'unione carnale, cioè la copula. Infatti si legge in una sentenza coram Ewers del 1969: "ad multiplicationem copulae non vinculi attendi debet" (vol. 61, p. 937).

            A mio avviso, la tesi di De Jorio, benché ampiamente ricevuta nella recente giurisprudenza, va incontro a una serie di gravi difficoltà. La prima e la più fondamentale consiste nel dubbio se ancora, alla luce del nuovo Codice, possa essere in realtà sostenuta. Nello spiegare la sua tesi, De Jorio (vol. 55, p. 717, n. 3) evidenzia infatti che la tesi precedente (quella che, facendo coincidere il "bonum fidei" con la "unitas", identificava tale esclusione con l'esclusione di una proprietà essenziale del matrimonio) si fondava sul can. 1013, § 2 messo a confronto col can. 1086, § 2 del Codice del 1917. Egli, al contrario, propugnava la sua tesi basandola sulla definizione dell'oggetto del consenso matrimoniale, così come veniva espressa al can. 1081, § 2 dello stesso Codice: "actus voluntatis, quo utraque pars tradit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem". Il Codice del 1983, però, ha dato una definizione dell'oggetto del consenso matrimoniale totalmente differente: "actus voluntatis, quo vir et mulier foedere irrevocabili sese mutuo tradunt et accipiunt ad constituendum matrimonium" (can. 1057, § 2). In particolare il nuovo Codice, parlando di esclusività, non la riferisce più al "ius in corpus" (locuzione mai menzionata nei nuovi canoni), ma la riferisce al vincolo matrimoniale: "Ex valido matrimonio enascitur inter coniuges vinculum natura sua perpetuum et exclusivum..." (can. 1134).

            Da tale analisi è difficile non trarre la conclusione che tutto il fondamento canonico della tesi propugnata da De Jorio è minato. L'esclusività della relazione coniugale, giuridicamente considerata, ora si riferisce al vincolo e non alla copula (fermo restando che il diritto-dovere della esclusività della copula conserva tutta la sua forza morale). Non è quindi la mera intenzione di intrattenere illecite relazioni con altri, ma quello di creare uno vincolo pseudo-matrimoniale ad essere incompatibile con la costituzionale esclusività di un reale vincolo coniugale, viziando l'unità del contratto matrimoniale (Si può verosimilmente sostenere che l'esclusività del diritto all'atto coniugale è stato riassorbita, nel nuovo Codice, nell'unità in quanto proprietà essenziale del matrimonio)

            Così è stato concisamente espresso in una recente decisione coram Giannecchini: "Necesse est enim ut exclusivitas vinculi coniugalis, eiusdem mutua obligatio ad unitatem labefactetur, ut loqui possit de exclusione iuris in suis principiis" (in una Beneventana, 28 maggio 1985, n. 3).

            La tesi di De Jorio tende a ridurre il "bonum fidei" alla sola dimensione fisica del diritto alla esclusività della copula, tralasciando ogni altra qualificazione del problema. In altre parole, tale posizione dottrinale, ponendo l'accento sulla esclusività dell'atto fisico, tende ad estrarlo da una più ampia considerazione della coniugalità. La conseguenza è una marcata dissonanza con la mente del Legislatore, che nel nuovo Codice ha voluto recedere dalla fredda nozione giuridica del matrimonio riferita al "ius in corpus" - inteso solo in maniera fisica -, ma vi ha voluto esprimere concetti che ponessero in una luce più vera ed umana gli aspetti essenziali della relazione e del vincolo matrimoniale. Il reciproco obbligo a conservare l'esclusività nelle relazioni sessuali conserva per i coniugi tutto il suo specifico valore. Ciò nonostante il nuovo Codice non giustifica il fatto di considerare lo "ius in corpus" come oggetto del consenso matrimoniale o come criterio giuridico ultimo per risolvere giudiziariamente le questioni del "bonum fidei" o del "bonum prolis".

            Va pure notato che la tesi in questione ha portato in alcuni casi a una reinterpretazione non solo del "bonum fidei", ma addirittura della stessa unità, riferendo questa alla copula piuttosto che al vincolo. Così infatti si legge in una sentenza coram Bejan: "Unitas qua proprietas essentialis matrimonii ita intellegi debet qua excluditur non multiplicitas vinculi sed copulae" (vol. 51, p. 397).

Il "propositum adulterandi"

            A livello pratico, tale tesi comporta importanti conseguenze non prive di difficoltà. Infatti ad applicarla con rigorosa logica si dovrebbe dichiarare nullo ogni matrimonio, in cui al momento del consenso uno dei due contraenti non solo prevede di commettere adulterio, ma propone di commetterlo per lo meno in determinate circostanze. In altre parole, da tale tesi consegue logicamente che qualsiasi intenzione "rem cum tertia habendi" rende invalido il matrimonio.

            Con essa si cade in parecchie difficoltà che sono più facilmente evitate nella precedente linea giurisprudenziale. A mio giudizio occorre esaminare tali difficoltà, in quanto prospettano che la tesi tradizionale, a dispetto delle critiche cui è sottoposta, non solo è più coerente con la natura del matrimonio e con la dottrina della Chiesa, ma permette di sottoporre a una analisi giuridica più accurata alcune vicissitudini della vita umana.

            La "praevisio" o il "propositum adulterandi" è sempre stata la "crux canonistarum" per chiunque voglia determinare che cosa in realtà renda invalido il matrimonio per quanto riguarda l'esclusione del "bonum fidei". La giurisprudenza si imbatte in casi frequenti in cui il contraente, benché voglia contrarre un valido matrimonio, nel momento del consenso non solo prevede che non sempre sarà fedele al partner nella sfera sessuale, ma intende in certi casi non essergli fedele. I giudici, anche nel corso di questi ultimi decenni, si sono mostrati generalmente poco propensi al dichiarare che tali matrimonii siano necessariamente invalidi (cfr. c. Palazzini, 12 febbraio 1969: vol. 61, p. 156; c. Pinto, 28 novembre 1978, vol. 70, p. 529, n. 2; c. Pompedda, 21 giugno 1982, vol. 74, p. 360; c. Pinto, 6 marzo 1987, n. 5, ecc) Tale perplessità ben si comprende, altrimenti si dovrebbe concludere per la nullità di tutta una serie di matrimonii che non sono stati così rari nella storia: ad esempio i matrimoni di quei soldati e di quei marinai, i quali già sanno che non saranno sempre "fedeli" e intendono indulgere a rapporti sessuali con donne di occasione nei lunghi periodi della loro assenza da casa.

            Nei tempi moderni le assenze protratte da casa sono forse più frequenti che in passato per ragioni soprattutto professionali piuttosto che militari. Pertanto la questione presa in esame è di massima importanza: può dare un valido consenso matrimoniale chi si propone di soddisfare le sue "esigenze" sessuali con una terza persona nei periodi in cui per varie ragioni è costretto a vivere lontano dal coniuge? Inutile ripetere che qui non si sta discutendo sulla evidente immoralità di tale intendimento quanto della questione giuridica se renda invalido o meno il consenso matrimoniale.

            Se si rimane nei termini della giurisprudenza tradizionale non si ha particolare difficoltà per la soluzione giuridica di questi casi. Non verificandosi infatti l'intenzione di conferire anche a una terza persona i diritti coniugali, cioè lo stato di marito o di moglie, non si esclude il "bonum fidei" nell'aspetto essenziale del "unus coniux", nonostante il proposito di contravvenire all'obbligo morale della fedeltà coniugale. Così asserisce Wynen in una sentenza del 29 aprile 1939: "Pravum propositum (retinendi amasiam) nullatenus ostendit contrahentem ideo sponsam ipso iure privare intendere... Distinctio inter legitimam unionem coniugalem et pravum commercium cum tertia persona tan firmiter in mentibus hominum christianorum, utcumque morum perditorum, residet, ut confusio conceptuum quoad ipsum ius coniugale admitti nequeat" (vol. 31, p. 255; cfr. c. lo stesso Ponens, vol. 43, p. 96).

            Qualora però, come ritiene De Jorio, l'essenza del "bonum fidei" si ponga nella esclusività della copula e non della coniugalità, logicamente si deve concludere che qualsiasi matrimonio, contratto con il "propositum adulterandi", è sempre e necessariamente invalido.

            Parecchi seguono già questa conclusione. Altri invece desiderano evitarla, con diversi ragionamenti e specialmente ricorrendo a quella distinzione, richiamata spesse volte e altrettanto criticata, tra l'esclusione del diritto e l'esclusione del suo esercizio: tra l'intenzione cioè di conferire a qualcuno un diritto e l'intenzione di non permettergli l'attuazione del diritto conferito. La teoria è ben nota: ciò che rende invalido il consenso matrimoniale è soltanto l'esclusione del diritto, ma in nessuna maniera l'esclusione dell'adempimento dell'obbligo che corrisponde al diritto. Al riguardo ha scritto Mons. Grazioli, già Decano della Sacra Romana Rota, che si tratta di una distinzione "quae vix intelligi potest ab eis qui in iuridicis rebus periti sunt..." (11 maggio 1944, vol. 36, p. 330). Ciò nonostante, la distinzione è frequentemente invocata nella giurisprudenza con l'argomento che il "propositum adulterandi" non infrange l'obbligo morale della fedeltà coniugale, ma solo l'adempimento di tale obbligo.

            Benché nella giurisprudenza per lo più si affermi che la tesi, secondo la quale è possibile dare all'altra parte un diritto di cui si nega l'esercizio, abbia il suo fondamento nella dottrina di S. Tommaso (cfr. Suppl., q. 49, art. 3) l'asserzione è discutibile, anzi De Jorio addirittura lo nega (SRRD, vol. 55, p. 718) In realtà la dottrina del Dottor Angelico al riguardo appare essere la seguente e cioè che qualcuno può dare a un altro e accettare da questi un reale reciproco diritto, anche se non intende né esercitare il suo diritto personalmente né esigere dall'altra parte l'adempimento del corrispettivo obbligo assunto (esempio illustre di tale volontà è il matrimonio tra la B. V. Maria e S. Giuseppe).

            Il matrimonio è valido perfino se entrambi i coniugi di comune accordo rinunciano al esercizio di qualche diritto essenziale del matrimonio; non è affatto valido se uno dei due coniugi per iniziativa unilaterale si propone di non adempierne mai qualche obbligo essenziale. Benché esistano dei diritti/doveri che si possono considerare dal solo punto da vista del loro soggetto, mai questo si verifica per i diritti/doveri del matrimonio che sono necessariamente caratterizzati dalla reciprocità. Uno può senza dubbio assumere un vero obbligo personale, che in alcune circostanze non intende adempire (come ad esempio potrebbe accadere nell'assunzione dell'obbligo del celibato ecclesiastico); ma come è possibile ammettere che qualcuno possa conferire a un altro un diritto sulla propria persona - e per tutta la vita - mentre stabilisce fermamente di non adempire mai l'obbligo di rispettare tale diritto né di permettere all'altra parte di esercitarlo?

             L'identificazione del "bonum fidei" con il concetto morale della fedeltà piuttosto che con il concetto giuridico dell'unità può condurre alle teorie di "elite" nel determinare i requisiti essenziali per la validità del matrimonio. Sostenendo che l'intenzione di commettere adulterio in qualche futura occasione necessariamente invalida il suo consenso, non si impone forse una incapacità a contrarre matrimonio a tutti coloro (che così verrebbero ad essere privati di un fondamentale diritto umano) la cui debolezza sessuale è tanta che già sanno e, in alcune occasioni (ad esempio in un periodo di lontananza dal coniuge), intendono di non essere fedeli alla castità matrimoniale? Infatti in una recente sentenza rotale tale incapacità è stata proposta: "Qui ita ad carnis commixtionem cum foeminis propensus est ut uni uxori fidelis esse nequeat, validum matrimonium inire non valet" (c. Huot, 30 ottobre 1986, n. 9).

            Attenendosi a una logica stringata questa teoria rigida fornirebbe il fondamento per dichiarare la nullità di qualunque matrimonio dove il contraente si riservasse il "propositum masturbandi", in quanto sotto l'aspetto morale la masturbazione è anche peccato contro la fedeltà coniugale (Lehmkuhl: Theol. Moral., II, p. 600, n. 588; Cappello, De Sacramentis, vol. V (ed. 1950), n. 806; cfr. S. Alphonsus, Theol. Moral. Lib. VI, n. 936).

            Il "bonum fidei" rimane impoverito sia nel suo contenuto teologico che in quello giuridico, se lo si riconduce alla sola proibizione di adulterio. Avverte infatti una sentenza c. Serrano: "bonum fidei latius concipitur, positivo modo, quam coarctata adulterandi prohibitio, quae consequens potius est" (in una Romana, 25 luglio 1980: vol. 72, p. 531).

Una rivalutazione

            Sembra opportuno riesaminare integralmente il problema, soprattutto alla luce della nuova nozione dell'oggetto del consenso matrimoniale, così come viene espresso dal Codice promulgato nel 1983. Qui l'oggetto non è definito più come "ius in corpus", ma come l'atto di volontà in cui l'uomo e la donna reciprocamente si donano e si accettano per costituire il matrimonio.

            Qual è il contenuto giuridico del "sese tradere et acceptare", in cui, a tenore del can. 1057, § 2, consiste l'oggetto del consenso matrimoniale? Non è né può essere la totalità della persona di entrambi i contraenti, quanto piuttosto l'aspetto della persona costituito dalla coniugalità che, mentre dal punto di vista morale richiede molti elementi atti a costituire il "consortium totius vitae" che possiamo chiamare "ideale", è essenzialmente determinato, dal punto di vista giuridico, dalla donazione del diritto esclusivo e permanente sulla propria sessualità procreativa. Sono infatti questi tre elementi - l'esclusività, la procreatività e l'indissolubilità (i tre beni agostiniani: "fides", "proles", "sacramentum") - che indicano ciò che è essenziale nell'autodonazione coniugale, e che costituiscono le proprietà essenziali del vincolo matrimoniale, mentre al contrario la positiva esclusione di uno di essi invalida il consenso matrimoniale (cfr. in una Romana, coram il sottoscritto del 11 aprile 1988, nn. 5-8: Monitor Ecclesiasticus, CXIV (1989) IV, pp. 469-471).

            La persona umana - l'"io" - è indivisibile ed irripetibile: non si può donare a molti, ma ad uno soltanto. "Meipsum tibi do": questa è l'affermazione peculiare della coniugalità. Se pertanto un nubente intende donare la sua coniugalità - il suo "conjugal self" - anche ad altri, cioè se si propone di dividere la sua coniugalità, allora al massimo è soltanto una parte della propria coniugalità che egli dona a ciascuno. In altre parole chi nello stesso tempo dona la propria coniugalità a più persone, a ciascuno di questi dona la sua coniugalità divisa, a nessuno invece la dona tutta intera.

            "Una simile comunione [coniugale] viene radicalmente contraddetta dalla poligamia: questa, infatti, nega in modo diretto il disegno di Dio quale ci viene rivelato alle origini, perché è contraria alla pari dignità personale dell'uomo e della donna, che nel matrimonio si donano con un amore totale e perciò unico ed esclusivo" ("Familiaris Consortio": AAS 74 (1982) 102).

            Esclude il "bonum fidei" colui che non accetta l'unicità e l'esclusività della relazione coniugale: sia perché ha una positiva intenzione poligamica volendo attribuire lo stato di coniuge anche a una terza persona, sia semplicemente perché non conferisce al partner la condizione di coniuge unico. In entrambi i casi si esclude l'essenza della unicità coniugale. Al contrario, il semplice proposito "rem cum tertia habendi", per quanto peccaminoso, di per sé non invalida il consenso matrimoniale.

            Non posso perciò concordare con la conclusione di De Jorio espressa in questi termini: "Pro certo habemus excludere bonum fidei et ideo invalide hoc ex capite contrahere... mulierem, quae in nuptiis ineundis, propositum... gerat corporis sui copias faciendi et aliis viris, quamvis ne cogitet quidem de iure in proprium corpus tradendi praedictis: in hypothesi enim mulier non assumit obligationem servandi fidem, quod satis superque habemus ad matrimonium irritandum" (decis. del 13 luglio 1968, vol. 68, pp. 556-557, n. 10).

            Non è lecito ridurre il diritto creato dal consenso matrimoniale a un mero "ius exclusivum in proprium corpus", come se l'essenza del matrimonio consistesse nella sola relazione fisica. La tesi propugnata dall'illustre De Jorio, non evidenziando a pieno il significato coniugale che deve caratterizzare la copula, giunge ad elevare qualsiasi intenzione di infedeltà fisica al livello di una esclusione della coniugalità.

            La "fides" non consiste meramente nell'obbligo di riservare l'"usum corporis" a una sola persona. Non è la sola intenzione "carnem dividendi" ciò che rende invalido il matrimonio, bensì l'intenzione "coniugalitatem dividendi".

            Prescindendo dalla questione morale, non sembra esserci incompatibilità giuridica tra il proposito di prendere moglie o marito, e il proposito di soddisfare le tendenze sessuali anche in altro modo. La distinzione è ben evidenziata anche in una recente sentenza Rotale: "si actor cupiditati et libidini vehementi deditus iam ante nuptias sibi proposuerit adhuc vitam luxuriosam agere cum diversis amasiis, ex hoc pravo proposito sequitur tantummodo obligationem fidelitatis eundem exsequi ac tueri noluisse, non autem in pactione nuptiali respuisse relativam obligationem denegando Helenae fidem coniugalem... Iure itaque concludes, etsi pravis moribus irretitum et ad concubitus proclivem, Brunonem practice dignovisse inter traditionem iuris in corpus unice comparti debiti, et intentionem - ita dicamus habitualem -, copiam sui corporis faciendi post matrimonium amasiis, cum quibus iam ante nuptias foverat relationem. Aliis verbis Brunonem dicimus distinxisse inter mulierem uxorem, matrem familias, iuribus matrimonialibus ditatam, et scortum" (c. Masala, 6 ottobre 1981: vol. 73, pp. 465-466).

            La giurisprudenza è stata costante nel ritenere come simulazione parziale l'esclusione di qualche elemento essenziale di un autentico vincolo matrimoniale. Chi simula parzialmente intende un vincolo privo di uno delle tre "bona" o proprietà essenziali della vera coniugalità, vuole cioè costituire un vincolo privo o della procreatività o dell'esclusività o dell'indissolubilità. In ogni caso però vuole un certo qual vincolo. Se non vuole nessun vincolo coniugale, allora è colpevole non di una parziale ma di una totale simulazione. Perciò, quando De Jorio afferma: "excludentes bonum fidei non intendunt vincula duplicare seu multiplicare, verum ab eisdem sese liberare" (vol. 63, p. 785; cfr. vol. 65, p. 12, n. 8), sembra voglia trasformare la fattispecie dell'esclusione del 'bonum fidei' in quella della simulazione totale.

La dottrina di S. Tommaso

            Qual'è l'opinione di S. Tommaso al riguardo? La sua dottrina circa l'unità è molto chiara: "Et erunt duo in carne una, id est in carnali commixtione per quam sunt quasi una caro... Ex hoc autem videtur quod possit trahi quod de ratione coniugalis status est, quod unus non habeat plures uxores, nec uxor plures viros; quia tunc erunt plures in carne una, quam duo" (In Genes. cap. II). "Lex autem de unitate uxoris non est humanitus, sed divinitus instituta: (est enim) cordi impressa, sicut et alia quae ad legem naturae qualitercumque pertinent" (Suppl., q. 65, art. 2).

            Uno degli argomenti principali addotti da S. Tommaso, per provare che il matrimonio deve essere monogamico, è la dignità dello stesso matrimonio e la fondamentale uguaglianza tra i sessi che postula il rapporto di uno a uno nella relazione coniugale. "Si igitur uxor habet unum virum tantum, vir autem habet plures uxores, non erit aequalis amicitia ex utraque parte" (Summa c. Gentiles, III, c. 124).

            Più sottile è la sua dottrina circa la fides. Alla stessa maniera che per la prole pone la distinzione tra la fedeltà "in sé" e la fedeltà nei "suoi principi". "Fides et proles possunt dupliciter considerari. Uno modo in seipsis; et sic pertinent ad usum matrimonii, per quem et proles producitur et pactio coniugalis servatur... Alio modo possunt considerari fides et proles, secundum quod sunt in suis principiis: ut pro prole accipiatur intentio prolis, et pro fide debitum servandi fidem. Sine quibus etiam matrimonium esse non potest: quia haec in matrimonio ex ipsa pactione coniugali causantur; ita quod, si aliquid contrarium his exprimeretur in consensu qui matrimonium facit, non esset verum matrimonium" (Suppl., q. 49, art 3).

            La prima parte di questa citazione è abbastanza chiara. Nel matrimonio non sempre si generano i figli né sempre si conserva la fedeltà coniugale, ma né l'uno né l'altro fatto considerato in se stesso inficiano la validità del matrimonio. S. Tommaso afferma tuttavia che non può costituirsi matrimonio, se manca la "fides in suis principiis". Qual'è dunque questa "fides" più profonda che il contraente è tenuto assolutamente a intendere, con l'obbligo categorico di conservarla in maniera che, qualora fosse esclusa, il consenso è nullo? Consiste forse nell'intenzione di conservare la fedeltà sessuale in maniera tale che possa essere identificata con il dovere morale di non adulterare? Benché in un primo momento questa sembra essere la tesi proposta da S. Tommaso, la giurisprudenza, unitamente alla Teologia Morale, fino ai nostri giorni ha piuttosto evitato tale conclusione. Sanchez infatti scrive chiaramente: "Stare potest matrimonium validum contrahere, cum intentione non servandi fidem" (De S. Matrimonii Sacramento, L. II, disp. 29, n. 11).

            Per comprendere più approfonditamente il pensiero dell'Angelico bisogna considerare che egli vuole qui esprimere e spiegare gli stessi principi della coniugalità, cioè le proprietà fondamentali dell'unione coniugale. Qualora nel consenso matrimoniale si manifesta qualcosa di contrario a questi principi, si contrae invalidamente. Come uno non può ricusare la natura indissolubile e procreativa della relazione maritale, così non è lecito respingerne il carattere esclusivo. Pertanto è la fedeltà che "appartiene all'unità" - all'unità non tanto della copula coniugale quanto piuttosto del vincolo matrimoniale - che occorre intendere, con l'intenzione cioè di accettare l'altra parte come unico sposo, e di non infrangere la fede data assumendo un altro partner come marito o moglie.

            Pertanto il "bonum fidei in suo principio" si deve riferire non tanto alla mera fedeltà fisica, ma essenzialmente alla unità della coniugalità. Nel "Supplementum" (q. 67, art. 3 ad 5), S. Tommaso riferisce la "singularitas uxoris" al "bonum fidei", insistendo in un altro luogo su quella "singularitas quam in uxore quaerunt" (I-II, q. 28, art. 4). La fedeltà fisica appartiene alla "fedeltà in sé" e nessuno può dubitare del grave obbligo di conservarla. Tuttavia, non attingendo essa il cuore del vincolo matrimoniale - cioè i suoi principi essenziali -, il proposito di violarla per sé non invalida il consenso.

L'atto coniugale

            La conferma della suddetta tesi deriva anche da una attenta considerazione dell'atto coniugale. l"unione carnale, compiuta tra i coniugi in maniera umana (can. 1061, § l) - il che esige che i coniugi comprendano e si adeguino al motivo per cui, partecipando nel personale e complementare potere procreativo, si uniscono in maniera singolarissima - è un segno privilegiato dell'autodonazione sponsale (cfr. "Gaudium et Spes", n. 49). Anche tra i coniugi, ciò nonostante, l'unione sessuale non sempre significa l'autentica donazione di se stesso. A volte può accadere che sia una semplice espressione della incontinenza sessuale; la qual cosa non significa donazione, ma la semplice ricerca di una egoistica soddisfazione. Da ciò consegue che c'è una copula che è coniugale e una copula che coniugale non è: cosa che è vera anche nello stesso matrimonio. La copula contraccettiva infatti non consuma il matrimonio, perché non effettua una vera unione sessuale: "vir et mulier efficiuntur in carnali copula una caro per commixtionem seminum" [1].

            Parimenti, riservarsi il "diritto" di avere con una terza persona un'unione sessuale contraccettiva o comunque contro natura non costituirebbe un'esclusione del "bonum fidei". Al riguardo si legge in una sentenza coram Parrillo del 12 agosto 1929: "Poiché la donazione del proprio corpo non si fa per un uso qualsiasi, ma tassativamente e in senso stretto per i soli atti di per si atti alla generazione della prole, ne consegue che la volontà, espressa con un atto positivo o con una condizione, di dare il proprio corpo ad altra persona per atti diversi e precisamente per atti contro natura, dai quali non può derivare di per si la generazione della prole, a rigor di termini non ripugna al "bonum fidei". E ne dà la spiegazione: "Non con questo si ha quella divisione o spartizione del corpo, in cui gli Autori ripongono la poligamia o la poliandria vera o presunta, ma con simili atti si compie solo la fornicazione" [2]. Staffa, approvando l'opinione di Parrillo, insegna che il matrimonio è valido se il contraente pone come condizione di poter avere relazioni sessuali contro natura con altra donna (De Conditione contra Matrimonii Substantiam, Romae 1955, pp. 21-22). Il motivo è lo stesso: le relazioni sessuali contraccettive non comportano la partecipazione della coniugalità.

            Come l'intenzione di avere con il coniuge solo la copula contraccettiva esclude il 'bonum prolis', così l'intenzione di avere una copula non-coniugale con una terza persona non esclude il "bonum fidei".

            Perfino chi si riserva il "diritto" di avere con un'altra persona una copula naturale non necessariamente esclude il "bonum fidei" nei suoi principi, a meno che non la intenda come precisa espressione della coniugalità. "Ex quo fit ut prae aliis simulationibus, difficilioris probationis sit exclusio boni fidei in suis principiis" (c. Parisella, 14 febbraio 1974: vol. 66, p. 93).

            S. Agostino, parlando della "fides" nel contesto della 1a ai Cor. 7,4, afferma: "L'Apostolo attribuisce a tale fedeltà tanta forza giuridica da chiamarla "potere", dichiarando: la donna non ha più potere sul proprio corpo, ma ce l'ha l'uomo; e similmente l'uomo..." ("De bono coniug., c. 4 (PL 40, 376)). Questo "potere" è ciò che attualizza lo specifico coniugale da attribuirsi alla relazione sessuale. Riservarsi il diritto, nel momento del consenso, di unirsi a un'altra persona, "non come a una meretrice, ma come a una moglie" (Suppl., q. 62, art. 2 ad 3) - per esprimerle un amore coniugale - costituisce quella detrazione dell'essenza giuridica del "bonum fidei", che esclude l'unicità del vincolo e impedisce la stessa costituzione del matrimonio. Invece riservarsi il diritto di unirsi a una terza persona, quasi come a una meretrice, cioè solo per soddisfare gli istinti sessuali, o per qualsiasi altro motivo, ma, in ogni caso, non come alla moglie propria, non esprimendole affatto l'amore coniugale, è sì violazione di quell'aspetto morale del "bonum fidei" che realmente si definisce "fedeltà" ed è un valore costante del matrimonio in facto esse; ciò nonostante non esclude la "coniugalità".

            In una sentenza c. Ewers dell'11 ottobre 1969 si legge infatti: "in eo qui simulationem eiusmodi patrare praesumit, inspici debet quaedam voluntas, idest consilium quoddam sibi effingendi connubium extra et contra doctrinam Christi et Ecclesiae atque ita celebrandi nuptias. Verum in hac deordinatione a recto ordine stat radix nullitatis consensus, cuius obiectum ita substantialiter differt a notioni matrimonii" (decis. 11 ottobre 1969, vol. 61, p. 937). E' esatto quanto si afferma, ma per quanto attiene il "bonum fidei" ciò che si richiede, nel retto ordine del consenso matrimoniale, è il diritto di contrarre con una parte chi accetti l'"unus coniux", e non con una che sia superiore ad ogni debolezza sessuale.

            L'obbligo di non avere rapporti sessuali con una terza persona è il primo grave obbligo - non l'unico - della fedeltà coniugale. La fedeltà abbraccia inoltre altri obblighi (cfr. c. Anné, 9 dicembre 1964, vol. 56, p. 913). Verosimilmente il coniuge che vuole intrattenere un forte legame affettivo con una terza persona pecca di più contro l'alleanza coniugale di chi è reo di passeggere infedeltà carnali. Comunque in nessuno dei due casi si può dire che il proposito, presente nel momento del consenso, di indulgere a tali infedeltà invalidi necessariamente il consenso. Il proposito che invalida, non è l'intenzione di infrangere la fedeltà, ma quello di escludere la coniugalità. Così afferma una recente sentenza c. Masala: esclude il "bonum fidei" chi si riserva "potestatem seu ius proprii corporis copiam faciendi aliis viris seu mulieribus, uti consortibus, vel eandem facultatem comparti agnoscat. His in casibus nulla obligatio susciperetur unius indissolubilis vinculi cum una persona" (decis. 15 gennaio 1985, n. 5).

            E' il caso di ricordare una sentenza coram lo stesso De Jorio, che decide per la nullità, attesa l'esclusione del "bonum fidei" per il fatto che l'attore apertamente aveva equiparato "amasiam cum uxore aequasse...; duas mulieres iure pares habuisse vir ostendit eis offerendo communem convictum coniugalem, et ius in proprium corpus aequa portione inter Martinam et Mariam Caeciliam dividendo... Et ideo, respuendo unitatem, invalide contraxit" (decis. 17 giugno 1964: vol. 56, p. 501).

            "Obligatio fidelitatis coniugalis partim ad ordinem mere ethicum spectat, partim etiam ad ordinem iuridicum" (c. Anné, decis. cit., vol. 56, p. 913). Perciò, se la giurisprudenza non è molto attenta all'uso delle locuzioni come lo "ius ad fidelitatem", facilmente si creerà confusione tra ciò che è giuridicamente essenziale e ciò che è moralmente importante. L'essere accettato come l'unico e solo sposo è la ragione giuridica del diritto radicato nell'essenza del "bonum fidei", che pertanto va considerato come elemento costitutivo del matrimonio "in fieri". Solo se si esclude questo dal consenso, no si dà matrimonio. La fedeltà sessuale nella vita coniugale costituisce un costante diritto/dovere del matrimonio "in facto esse". Se il contraente, nel momento del consenso, stabilisce di escludere tale diritto o di infrangerlo dopo averlo dato, infigge una grave offesa all'amore e alla convivenza matrimoniale, ma questo non indica necessariamente che l'essenziale e costitutivo diritto alla coniugalità non sia stato dato.

            Questa, io credo, sia una più valida spiegazione della distinzione fatta da S. Tommaso tra la "fides in suo principio" e la "fides in se". La prima si riferisce al carattere esclusivo della coniugalità, la cui esclusione infrange il "bonum fidei" ne suo principio. La seconda è l'obbligo di conservare la fedeltà (specialmente, ma non esclusivamente "quoad copulam"). Questa ultima, cioè la "fides in se ipsa", costituisce anche un grave obbligo di giustizia. La sua violazione però, persino se voluta di proposito fin dall'inizio, non ha la conseguenza giuridica di viziare il consenso matrimoniale.

            Si auspica che la giurisprudenza desista da quella artificiosa distinzione (si definisce artificiosa quando viene applicata al consenso matrimoniale) tra l'assunzione dell'obbligo e la simultanea non-accettazione dell'obbligo di non adempire tale assunto obbligo. Non è per niente artificioso, però, distinguere tra un obbligo giuridico (unità del matrimonio), la cui assunzione è essenziale per costituire un valido consenso, e un obbligo morale (fedeltà nella sfera sessuale), che il contraente è tenuto ad assumere al momento del consenso, la cui non-assunzione però non invalida il consenso [3].

            Forse si potrebbe sviluppare una tesi secondo cui l'esclusione della fedeltà (non però della coniugalità) abbia la considerazione di una esclusione parziale del "bonum fidei", che pertanto non invalida il consenso: allo stesso modo in cui ora la giurisprudenza accetta che l'esclusione parziale del "bonum prolis" non invalida.

NOTE

[1] Suppl., q. 55, art. 4 ad 2. Mi sembra evidente che S. Tommaso qui non usa il termine "semen" nel senso biologico propriamente maschile. A mio avviso, l'espressione usata da Stankiewicz - "elementum procreativum" - riflette meglio la mente del'Angelico. Cfr. il mio saggio: "Matrimonial Consent and the Bonum prolis": Monitor Ecclesiasticus, CXIV (1989) III, p. 399.

[2] "Cum exclusiva corporis traditio non fiat ad usum quemcumque, sed taxative et restrictive ad actus per se aptos ad prolis generationem, consequitur quod voluntas, per actum positivum vel conditionem expressa, tradendi proprium corpus alteri ad actus diversos, et praecise ad actus contra naturam, ex quibus prolis generatio ex se, seu natura sua, haberi non potest, bono fidei stricto sensu non repugnat"... "Non enim istic haberetur illa corporis divisio seu sectio, quam Auctores reponunt in polygamia vel polyandria vera aut praesumpta, et hinc in sola fornicatione" (vol. 21, p. 435-436).

[3] cfr. c. Canals, 5 giugno 1974: vol. 66, p. 407, n. 3. Questo è ben detto, precisamente perché è assai più profondo e accurato che l'abituale espressione ed applicazione della "nota distinctio".