Il canone 1055 del nuovo Codice di Diritto Canonico presenta il matrimonio come indirizzato a due fini, essendo per sua natura ordinato "al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole" ("indole sua naturali ad bonum coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum").
La naturale ordinazione del matrimonio verso la procreazione viene chiaramente espressa in due luoghi della "Gaudium et Spes" del Concilio Vaticano II (nn. 48 e 50); il documento conciliare invece non indica esplicitamente che il matrimonio vada ordinato al "bonum coniugum". Infatti parla due volte del "bene dei coniugi" con riferimento concreto, nel no. 48, all'indissolubilità del vincolo matrimoniale ("hoc vinculum sacrum intuitu boni, tum coniugum et prolis tum societatis, non ex humano arbitrio pendet"..) e, nel n. 50, alla paternità responsabile ("attendentes tum ad suum ipsorum bonum tum ad bonum liberorum"..). Già nell'anno 1930, la Enciclica "Casti connubii" fece un riferimento molto simile (e ugualmente breve) al "bonum coniugum" ("Quot vero quantaque ex matrimonii indissolubilitate fluant bona, eum fugere non potest qui vel obiter cogitet sive de coniugum prolisque bono sive de humanae societatis salute": (A.A.S. XXII (1930) 553)). Tuttavia nessuno dei due documenti si è fermato a commentare il concetto. Di fatto il termine "bonum coniugum" appare in poche occasioni nella letteratura canonistica del periodo, e non è esagerato affermare che non cominciò a prender vita fino a che non fu recepito, nel 1977, dai Consultori della Commissione Pontificia per il nuovo Codice. Diversamente dalla proposta di incorporare al Codice uno "ius ad communionem vitae", il "bonum coniugum", tutt'altro che provocare qualsiasi dibattito, sembra essere stato accettato in modo immediato ed unanime nello "schema" per il nuovo canone destinato a descrivere la natura del matrimonio. Comunque i Consultori non fecero nessuna precisazione sul significato del termine, se non quella di indicare che si voleva esprimere con esso "il fine personale" del matrimonio (cfr. Communicationes, 1977, p. 123). Il termine è scarsamente usato nella giurisprudenza rotale degli anni seguenti (vedere, per esempio, coram Pinto, del 18 decembre, 1979, del 12 febbraio, 1982 e del 9 novembre, 1984; coram Giannecchini, del 26 giugno, 1984; coram Stankiewicz, del 28 gennaio, 1985; coram Pompedda, del 29 gennaio, 1985; coram Huot del 2 ottobre, 1986), e appena è stato affrontata l'analisi del suo contenuto giuridico.
Il "bonum coniugum", pertanto, deve essere considerato come un termine nuovo nell'usanza giurisprudenziale. Un primo passo nel processo di determinare la sua natura e il suo contenuto potrebbe portarci a voler determinare la "classificazione canonica" del termine: determinare, cioè, dove e come si inserisce nello schema tradizionale che distingue tra essenza, fini e proprietà del matrimonio.
Il "bonum coniugum": fine e non proprietà
Alcuni autori hanno voluto vedere nel "bonum coniugum" un quarto "bonum" del matrimonio, da aggregare ai tre "bona" tradizionali, segnalati da San Agostino: il "bonum fidei", il "bonum sacramenti", e il "bonum prolis" [1], ciò che sembra collocare il "bonum coniugum" nella linea di proprietà [2].
Che quest'analisi non sia accettabile, risulta a mio avviso da una considerazione della dottrina di San Agostino sui "bona matrimonialia". Nella dottrina agostiniana, i tre "bona" del matrimonio vanno riferiti a dei "beni" dello stato matrimoniale; sono caratteristiche o valori positivi del matrimonio che conferiscono dignità ad esso. Il matrimonio è buono perché va caratterizzato dalla fedeltà, dalla permanenza del vincolo, e dalla fecondità. "La bontà del matrimonio è triplice", afferma il Santo, "e consiste nella fedeltà, nella prole, nella permanenza" ("id quod bonum habent nuptiae:... hoc autem tripartitum est: fides, proles, sacramentum". De Gen. ad litt., lib. IX, cap. 7, n. 12); e in altro luogo scrive: "Sono queste le buone qualità che fanno che il matrimonio sia buono: la prole, la fedeltà, la permanenza" ("Haec omnia bona sunt, propter quae nuptiae bonae sunt: proles, fides, sacramentum": De bono coniug., cap. 24, n. 32). Ciascun "bonum" va predicato cioè del matrimonio; si attribuisce a esso: la prole è un "bonum matrimonii", e lo è altrettanto la fedeltà o la permanenza. Così si vede chiaramente che San Agostino parla non dei fini del matrimonio, bensì dei suoi valori: le sue proprietà.
Allora, è patente che il termine "bonum coniugum" non esprime, in nessun senso parallelo, un valore o una proprietà del matrimonio [3]. Il "bonum" di questo nuovo termine va predicato non del matrimonio (come se fosse un valore che conferisce bontà al matrimonio), bensì dei coniugi (in tanto esprime qualcosa che è "buona" per loro); non denota una proprietà del matrimonio (un "bonum matrimonii"), bensì qualcosa - il bene dei coniugi - che il matrimonio deve causare o originare. Sembra ovvio, pertanto, che il "bonum coniugum" non si situa nella linea di proprietà, bensì in quella di fine: conclusione che, per di più, va pienamente avallata dalla stessa redazione del canone 1055 che afferma che il matrimonio è "per natura sua ordinato al bene dei coniugi..."
La giurisprudenza, come già accennammo, si trova ancora all'inizio del processo di determinare il contenuto giuridico del "bonum coniugum". Siccome non è mio proposito affrontare la questione in profondità, in questa sede, le seguenti considerazioni rappresentano soltanto delle riflessioni parziali e provvisorie sul tema.
La Sentenza coram Pinto, del 18 dicembre del 1979, avanzò la tesi secondo la quale i diritti/obblighi che costituiscono il "bene del coniuge" [4] "vanno annoverati, nel Codice (del 1917), sotto i concetti di mutuo aiuto e rimedio della concupiscenza o, nello schema del diritto matrimoniale per il nuovo Codice, sotto il diritto alla comunione di vita che comprende quei diritti che appartengono alle essenziali relazioni interpersonali fra i coniugi" [5]. Poiché la proposta di un "ius ad vitae communionem" non fu ricepita nel nuovo Codice (cfr. Communicationes, 1983, p. 233-234), non è chiaro fino a che punto possa risultare utile cercare di costruire un'analisi del "bonum coniugum" su questa base. Comunque, nella misura in cui la "communio coniugalis vitae" vada intesa come sinonimo del matrimonio stesso, questa "communio" va chiaramente ordinato al "bonum coniugum" [6]. Sembra fuori dubbio che, nell'intenzione del legislatore, il "bonum coniugum" deve comprendere gli anteriori "fini secondari" del matrimonio [7]: il "mutuum adiutorium" e il "remedium concupiscentiae", che non sono citati nel nuovo Codice []. Tuttavia per quanto riguarda l'essenza del "bonum coniugum", tendo a pensare che occorre trovarla piuttosto nella linea della "mutua formazione interiore" dei coniugi, del loro "costante impegno per aiutarsi mutuamente verso la perfezione" che, secondo la "Casti connubii", costituisce un motivo principale del matrimonio quando esso va inteso nel senso di una comunione o società che coinvolge la intera vita ("totius vitae communio") [9].
Va constatato che il volume recente che annota le Fonti del nuovo Codice (Libreria Editrice Vaticana, 1989) annovera, fra le fonti del canone 1055, il Discorso di Pio XII del 29 ottobre 1951 in cui il Papa parla del "perfezionamento personale degli sposi" come fine secondario del matrimonio (A.A.S. XLIII (1951) 2, 848-849). Come è logico, la "Gaudium et Spes", n. 48 è citata come un'altra fonte; e inoltre i nn. 11 e 41 della "Lumen Gentium", e il n. 11 de la "Apostolicam Actuositatem". La "Gaudium et Spes" si riferisce allo sviluppo umano e soprannaturale del coniugi: marito e moglie "prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, sperimentano il senso della propria unità e sempre più permanentemente la raggiungono ... Ed essi, compiendo il loro dovere coniugale e familiare... tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione". La "Lumen Gentium", in modo particolare nel n. 11, insiste nell'aspetto soprannaturale di questa realtà: "I coniugi cristiani si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale e nell'accettazione ed educazione della prole"; e altrettanto fa il Decreto sull'Apostolato dei Laici: "I coniugi cristiani sono reciprocamente cooperatori della grazia e testimoni della fede".
Non sembra pertanto che l'idea di far consistere il "bonum coniugum" in una vita comoda, libera da qualsiasi tensione, sia conciliabile con la comprensione cristiana dell'autentico bene dei coniugi. Abbiamo già visto come la "Gaudium et Spes" (in sintonia con la "Casti connubii") insegna che l'indissolubilità favorisce il "bonum coniugum": e questo senza dubbio va inteso nel senso che tutto lo sforzo ed il sacrificio che comporta la fedeltà al carattere inscindibile del vincolo matrimoniale - in ciò che è favorevole e in ciò che è avverso, ecc. - serve per maturare e perfezionare le personalità degli sposi. Non d'altra maniera occorrerebbe leggere quel brano della stessa Costituzione dove si afferma che "i figli contribuiscono notevolmente al bene dei loro genitori" (GS 50). I figli arricchiscono la vita dei genitori di molte maniere, sopratutto in virtù della dedizione generosa che evocano in loro.
Possiamo referirci qui alla tesi che verrebbe uno "ius ad amorem" al centro del "bonum coniugum" (cfr. Lawrence Wrenn: The Jurist, 46 (1986): 2, pp. 545ff). Al mio avviso, siffatta tesi inverte i termini della materia: infatti, non è il "bonum coniugum" a creare un diritto all'amore; il fatto è piuttosto che l'obbligo di amare tende verso il "bonum coniugum". Il "bonum coniugum" non consiste nell'amore, bensì in quella maturazione delle persone e dei caratteri degli sposi che emana dalla fedeltà all'impegno matrimoniale: di vivere il matrimonio in maniera concorde con le sue proprietà essenziali.
Il tema dell'esclusione del "bonum coniugum" è ovviamente della massima importanza, benché le brevi considerazioni qui appuntate sono portate a segnalare alcune delle difficoltà offerte dal tema piuttosto che a risolverle. Risulta patente che il "bonum coniugum" rimane frustrato da chi escluda l'indissolubilità o la fedeltà o la prole; tuttavia in quella fattispecie il matrimonio è nullo a causa dell'esclusione di uno dei "bona" tradizionali piuttosto che dell'esclusione del "bonum coniugum"; l'esclusione del fine (il "bonum coniugum") rimane assorbito nell'esclusione della proprietà essenziale.
Si può sostenere che il "bonum coniugum" va escluso dalla persona che nasconde alla comparte qualche circostanza personale (una grave malattia, per esempio) che necessariamente minerà la loro relazione coniugale. Ma eccoci di nuovo davanti a un caso che dovrebbe essere trattato sotto un altro capo: il dolo (can. 1098). Parimenti, se esaminiamo l'incapacità di accettare le esigenze del "bonum coniugum", sembra coincidere con l'incapacità di assumere i diritti/obblighi essenziali del matrimonio (can 1095, 2 & 3).
Possibilmente per la stessa natura del fenomeno, risultano infrequenti i casi in cui il consenso matrimoniale sia invalido per esclusione del "bonum coniugum", inteso come capo autonomo di nullità. Comunque, sembra evidente che il "bonum coniugum" va escluso dalla persona che si sposi con l'intenzione di pervertire la comparte: proponendosi che diventi apostata dalla Fede, che intraprenda una vita immorale, ecc. Occorrerebbe sentenziare anche l'esclusione se una parte proporrebbe privare l'altra di altri aspetti della fondamentale dignità umana: della sua libertà fisica o morale, ecc. E si potrebbe senza dubbio addurre altri casi senza necessità di ricorrere a delle ipotesi così inverosimili come il famoso "caso Jemolo".
Mi sembra opportuno aggiungere qui una parola di riserva circa l'uso dell'espressione "ius ad bonum coniugum" (cfr. A.M. Abate: "Il Consenso Matrimoniale": Apollinaris, 59 (1986), p. 475-476. Wrenn, op. cit). Nessuno può richiamare da un altro - come qualcosa a lui dovuto - ciò che non rientri propriamente o pienamente dentro delle possibilità dell'altro di concedere. Pertanto, mentre ogni parte possiede il diritto che l'altra accetti il matrimonio nella sua essenziale integrità (con le sue proprietà essenziali), nessuna può rivendicare il fine o i fini del matrimonio come qualcosa di dovuto. E' questa la ragione per cui non si può parlare propriamente di uno "ius ad prolem": di un diritto alla prole (vedere nota 44). In modo simile, non è corretto, a mio avviso, parlare di un diritto al "bonum coniugum". Ciò che ciascun contraente può rivendicare, come diritto, è che l'altra parte non escluda dal suo consenso il naturale ordinamento del matrimonio al "bonum coniugum".
Prima di concludere queste brevi considerazioni sul "bonum coniugum", considero importante rimandare il lettore alla Questione 49 del "Supplementum" nella quale, a mio avviso, occorrerebbe vedere una fonte della doppia finalità attribuita al matrimonio nel can. 1055. S. Tommaso afferma lì che gli uomini e le donne entrano nel stato matrimoniale, non soltanto per la procreazione e l'educazione della prole, bensì anche per il consorzio delle loro vite, con il conseguente scambio di opere fra i coniugi [10]. Propone la domanda se la "communicatio operum" sia da ritenersi come un "bonum matrimonii" e, rispondendo negativamente, fa notare che questa "communicatio" non è proprietà bensì fine del matrimonio (fine che presenta come subordinato alla procreazione che considera il fine principale) (ibid. ad 1).
Avendo cercato di dimostrare che il "bonum coniugum" è fine e non proprietà del matrimonio, vorrei adesso indirizzare l'attenzione verso il "bonum prolis", proponendo la tesi inversa: vale a dire - se si vuole osservare una precisione terminologica adeguata - il "bonum prolis" esprime una proprietà e non un fine del matrimonio.
Il "bonum prolis": proprietà, e non fine
Il fatto che lo schema dei tre "bona" matrimoniali non è stato abbandonato durante 1500 anni attesta la profondità e l'accuratezza dall'analisi fatta da San Agostino. Comunque lo sviluppo e l'uso successivi alla sua analisi non sono sempre stati esenti da confusione, in modo speciale con riferimento al "bonum prolis".
San Agostino, come abbiamo accennato, usa il termine "bonum prolis" nel senso di una proprietà essenziale del matrimonio, il quale è buono in virtù della bontà che proviene ad esso dal fatto (o piuttosto dalla speranza) della prole. Tuttavia è importante ricordare che l'espressione "bonum prolis" può essere adoperata in un senso completamente differente. Infatti, si cambia del tutto il significato del termine, se si usa la parola "bonum" nel senso in cui viene adoperata precisamente in quell'altra espressione "bonum coniugum" che abbiamo esaminato. Ciò vale a dire che si può usare "bonum prolis" per esprimere, non un valore del matrimonio, bensì il "bene" (il benessere o l'interesse) della stessa prole. La "Gaudium et Spes" si esprime in questo senso in parecche occasioni; afferma (in un brano che abbiamo già citato) che se è così che il vincolo matrimoniale, una volta creato, non dipende dall'arbitrio umano, questo è per il bene della prole, come pure dei coniugi e della società; insiste ugualmente che "il stesso carattere di patto indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che il mutuo amore dei coniugi... si sviluppi e arrivi a maturità" ("ipsa indoles foederis inter personas indissolubilis atque bonum prolis exigunt ut mutuus etiam coniugum amor... proficiat et maturescat": GS 50. cfr. pure GS 51: "Ubi intima vita coniugalis abrumpitur, bonum fidei non raro in discrimen vocari et bonum prolis pessumdari possunt"). Perfino San Tommaso, almeno in un'occasione, adopera il termine "bonum prolis" in questo senso: quando, sostenendo che la schiavitù è impedimento per il matrimonio, invoca anche l'argomento del "bonum prolis": del "bonum" della prole, la cui condizione sarebbe peggiore in ragione della schiavitù dei loro genitori [11].
Occorre sempre ricordare questa indole equivoca del termine "bonum prolis"; altrimenti si corre il rischio di creare confusioni. Ma c'è di più: infatti, l'usanza canonica, così come si è sviluppata, è arrivata a dotare il termine "bonum prolis" da un'altra equivocità ben più importante. Per vederla, invece di considerare le proprietà del matrimonio, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione verso i suoi fini.
E' corretto affermare che il matrimonio è caratterizzato dalle sue proprietà di fedeltà o di indissolubilità; ma non sarebbe corretto affermare che sia ordinato alla fedeltà o all'indissolubilità [12]. Si può invece affermare che il matrimonio è ordinato alla fecondità. Alla base di questa apparente confusione (confusione apparente, che però potrebbe diventare reale) è il fatto che si può considerare la prole non soltanto come un bene o valore matrimoniale, bensì anche come un fine del matrimonio (cfr. Covi, D.: "La actividad sexual matrimonial según San Agustín", Augustinus 19 (1974), p. 116).
La preoccupazione primordiale di San Agostino è stata di difendere la bontà del matrimonio e la sua presentazione dei fini del matrimonio (cf. Pereira, B. Alves,: La doctrine du mariage selon saint Augustin, Paris, G. Beauchesne, 1930, pp. 41-50) non è così completa o sistematica come quella di San Tommaso. Nella questione 65 del "Supplementum" l'Aquinate dice: "il matrimonio ha come fine principale la procreazione e l'educazione della prole" ("Matrimonium habet pro fine principali prolis procreationem et educationem" (Suppl., q. 65, art. 1). cfr. q. 49, art. 3: "proles est matrimonii finis"). Nello stesso articolo, e con la sua abituale precisione e chiarezza, espone come questo fine, con gli altri fini del matrimonio, stia in relazione con i tre "bona" matrimoniali. Mi sembra però che in altri luoghi del "Supplementum", il Santo esprime la stessa idea di una maniera meno esatta. Nella questione 41, per esempio, afferma che "il matrimonio è naturale in primo luogo a causa del suo fine principale, che è il bonum prolis" ("matrimonium est naturale... primo, quantum ad principalem eius finem, qui est bonum prolis" (q. 41, art. 1)); e più avanti ripete questa idea più o meno negli stessi termini: "il matrimonio è ordinato al suo fine principale, che è il bonum prolis" ("matrimonium ordinatur ad suum principalem finem, qui est bonum prolis ..." (q. 65, art. 5)).
Non vorrei mancare alla deferenza dovuta all'Aquinate, ma oso dire che, in questi ultimi due brani, si è espresso con una certa trascuratezza. Prende un termine che San Agostino usa per descrivere una proprietà del matrimonio, e lo adopera per descriverne un fine. La conseguenza, così lungamente notata nell'usanza canonica, è stata la prelazione del termine "bonum prolis" per designare un fine del matrimonio, con la concomitante perdita della sua connotazione di proprietà.
Va notato che il canone 1055 evita qualsiasi difetto di esattezza in questo punto. Il canone non dice che il matrimonio sia ordinato al "bonum prolis" - al bene o al valore costituito dalla prole; dice con netta precisione (e in pieno accordo con San Tommaso nella Questione 65) che è ordinato alla "procreazione ed educazione della prole" [13].
Dunque il termine "bonum prolis" è correttamente usato per descrivere una proprietà del matrimonio; invece manca esattezza quando è adoperato per descrivere quel fine del matrimonio che è la procreazione. Vale a dire che la dovuta precisione terminologica chiede di distinguere fra "proles" in quanto finalità e "proles" in quanto proprietà; o, ancora meglio, che distinguamo la procreazione (che è fine) dalla procreatività (che è proprietà) [14].
Penso che questa tesi abbia un chiaro appoggio in quel brano così importante del "Supplementum" dove lo stesso San Tommaso parla di "proles" in un doppio senso; la prole "nei suoi principi" ("proles in suis principiis") e la prole "in sé stessa" ("proles in seipsa") (Suppl. q. 49, art 3). Seguiamo il suo pensiero quando distinguiamo fra la procreatività ("proles in suis principiis") [15], e l'effettiva procreazione. La procreatività - "l'intenzione della prole", o almeno "l'apertura verso la prole" - non può essere mai assente dal consenso matrimoniale, perché il matrimonio non può darsi senza le sue proprietà essenziali. L'effettiva procreazione invece, benché sia un fine del matrimonio, non è essenziale ad esso, perché non è necessario che il matrimonio raggiunga sempre i suoi fini [16].
La distinzione fra procreatività e procreazione può sembrare sottile, ma è completamente chiara; innanzi tutto non è né artificiale né di poca importanza. L'uso del termine "bonum prolis" per descrivere un fine, e non una proprietà, del matrimonio, è all'origine del tema - così intricato e così controverso - della natura e dello scopo dell'esclusione invalidante sotto il capo del "bonum prolis". L'opinione più comune (anche nella giurisprudenza rotale) ha identificato il "bonum prolis" con la copula, considerata sotto il profilo esclusivo della sua entità fisica; e di conseguenza identificò l'esclusione del "bonum prolis" con l'esclusione del "omne ius ad coniugalem actum" del antico can. 1081, & 2 [17]. Purché l'atto coniugale fosse dovutamente posto, questa opinione rifiutò di considerare, come contraria al "bonum prolis", una volontà permanente di frustrare il risultato naturale dell'atto [18].
Contro questa opinione non mancava una reazione di coloro che la consideravano come poco concorde con la giustizia; comunque, sotto il regime del vecchio Codice, risultò difficile per loro trovare un fondamento giuridico per la loro tesi secondo cui l'intenzione permanente di frustrare gli effetti naturali dell'atto coniugale comporta un'esclusione invalidante del "bonum prolis" (cfr. O. Fumagalli Carulli, op. cit., pp. 76ss).
Queste difficoltà, a mio avviso, si risolvono partendo dalla base che il "bonum prolis" deve essere sì integrato nell'essenza del matrimonio, ma in quanto proprietà, non in quanto fine. Cioè, la procreatività entra, come elemento integrante, nell'essenza del matrimonio, la procreazione invece non vi entra.
Considero che la riabilitazione del "bonum prolis", inteso come procreatività, nella sua categoria di proprietà matrimoniale essenziale, non soltanto segnerebbe una maggiore precisione terminologica, bensì contribuirebbe a una migliore comprensione del delicato equilibrio che esiste fra gli elementi essenziali che integrano il matrimonio. Per quanto riguarda il can. 1056, va notato che, nel testo latino, non c'è nulla per suggerire che l'enumerazione delle proprietà essenziali debba considerarsi tassativa. Le traduzioni alle lingue vernacule invece danno sì questa impressione. Potrebbe eventualmente risultare opportuno modificare leggermente il canone a fin di evitare qualsiasi impressione che il terzo "bonum" agostiniano non vada classificato fra le proprietà essenziali del matrimonio. Penso che il risultato sarebbe una maggiore sintonia della norma canonica con il pensiero teologico. Da parte sua, la giurisprudenza, che sempre ha mostrato preferenza per lo schema dei tre "bona", potrebbe prendere in considerazione un approfondimento nella comprensione del "bonum prolis".
Per quanto riguarda il fenomeno dell'esclusione, la tesi che ho proposta suggerisce una analisi il cui schema generale sarebbe: a) l'esclusione della fedeltà o dell'indissolubilità invalida, per l'esclusione di una proprietà essenziale; b) l'esclusione della prole invalida per doppia ragione: in quanto esclusione di una proprietà essenziale (il "bonum prolis"), e in quanto esclusione di un fine (la procreazione).
NOTE
[1] cfr. la Sentenza coram Pinto, del 27 maggio, 1983, (Monitor Ecclesiasticus, 1985, pp. 329-330). cfr. anche: Wrenn, Lawrence G., "Refining the Essence of Marriage", The Jurist, 46 (1986) 2, p. 536.
[2] Il nuovo Codice non ha risolto una mancanza di armonia che esiste fra legislazione e giurisprudenza. La norma canonistica continua a offrire uno schema di due proprietà matrimoniali essenziali (can. 1056), mentre la giurisprudenza preferisce, come sempre ha fatto, un'analisi del matrimonio dal punto di vista dei tre "bona" agostiniani. Nonostante - come vedremo a suo tempo - secondo una prassi giurisprudenziale da secoli l'esclusione della fedeltà o dell'indissolubilità è stata considerata come esclusione di una proprietà essenziale, mentre l'esclusione della prole è stata considerata invece come esclusione di un fine. Il risultato è una mescolanza non troppo soddisfacente dell'analisi scolastica, da una parte, e di quella agostiniana, dall'altra. A mio avviso, i "bona" sono per Agostino quello che sono le proprietà per gli scolastici; in questo saggio, considero che il "bonum" è di fatto una proprietà essenziale. Spero che la seconda parte del mio studio chiarirà in quale modo questo sia di applicarsi al "bonum prolis".
[3] "Il bonum coniugum", afferma F. Bersini, "non ha nulla che vedere con i beni agostiniani": Il Nuovo Diritto Canonico Matrimoniale, Torino, 1985, p. 10.
[4] "bonum coniugis", dice la Sentenza. Il tono individualista che risulta di questo uso del singolare è evitato nel "bonum coniugum" del Codice.
[5] "matrimonium immediate ordinatur ad finem personalem dictum secundarium, nempe ad bonum coniugis"... "Iura-officia quae bonum coniugis constituunt in C.I.C. vocantur "mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae", in Schemate autem iuris matrimonialis novi Codicis, "ius ad vitae communionem", complectens iura quae attinent ad essentiales relationes interpersonales coniugum".
[6] P.A. Bonnet sostiene che la "communio vitae" è la "realizzazione" della "ordinatio ad bonum coniugum", intesa come essenziale proprietà del matrimonio: "Communio di vita, 'ordinatio ad bonum coniugum' e 'honor matrimonii'", Il Diritto Ecclesiastico, 93/2 (1982), pp. 550; 552; 558.
[7] cfr. Fellhauser, David E.: "The consortium omnis vitae as a Juridical Element of Marriage", Studia Canonica 13 (1979), pp. 50-54.
[8] "Il remedium concupiscentiae e il mutuum adiutorium sono ora compresi nel bonum coniugum": Bersini, F., op. cit., p. 18.
[9] "Haec mutua coniugum interior conformatio, hoc assiduum sese invicem perficiendi studium, verissima quadam ratione, ut docet Catechismus Romanus, etiam primaria matrimonii causa et ratio dici potest, si tamen matrimonium non pressius ut institutum ad prolem rite procreanda educandamque, sed latius ut totius vitae communio, consuetudo, societas accipiatur": (A.A.S. 22 (1930) 548).
[10] "matrimonium non solum fit in hominibus ad prolem procreandam at nutriendam, sed ad consortium communis vitae, propter operum communicationem" (art. 2, 1).
[11] "servitus contrariatur matrimonio ... quantum ad bonum prolis, quae peioris conditionis efficitur ex servitute parentis" (Suppl., q. 52, art. 1 ad 1).
[12] Il metallo è caratterizzato per la durezza; ma non è ordinato alla durezza. E' piuttosto ordinato alla funzione di martellare, per esempio, o di tagliare; e la sua durezza lo rende atto a questo fine. Di maniera simile, le proprietà del matrimonio lo rendono atto al raggiungimento dei suoi fini: il bene dei coniugi e la procreazione/educazione della prole.
[13] Si può ovviamente affermare che il "bonum" della "proles" forma parte del fine del matrimonio, purché il senso di questo "bonum" sia quello di significare la vita, l'educazione, la felicità, ecc. della prole. Ma in tale caso, come abbiamo già visto, stiamo adoperando il termine "bonum" nel senso più moderno del bene (benessere) dei figli, e non in quello agostiniano di un bene o valore del matrimonio.
[14] Se non si osserva questo rigore terminologico, si può arrivare a affermare che il matrimonio è ordinato a una delle sue proprietà, o che ha una delle sue proprietà come fine. Se è inesatto dicere che il "bonum sacramenti" o il "bonum fidei" è fine del matrimonio, lo è altrettanto affermare che il "bonum prolis" ne è fine.
[15] Sembra evidente che i "principi" della prole, ai quali San Tommaso si riferisce, sono i due principi della mascolinità e della feminilità, che vanno attribuiti propriamente agli sposi. Il "bonum prolis" che ciascuno sposo conferisce all'altro, risiede nella potenziale paternità o maternità rispettiva.
[16] Esiste dunque uno "ius ad procreativitatem" - a ciò che l'altra parte può dare - perché la disponibilità per procreare cadde sotto il dominio della volontà dell'altro. Non existe però uno "ius ad prolem", perché l'effettiva procreazione non cade sotto il dominio della sua volontà; rimane sempre un dono di Dio.
[17] O. Giacchi ribadisce che, per lui, identificare il "bonum prolis" con lo "ius ad coniugalem actum", in sé considerato, è "l'unico modo d'intenderlo dal punto di vista giuridico": Il Consenso nel Matrimonio Canonico, Milano, 1950, p. 190.
[18] Ritenendo lo "ius in corpus" come oggetto essenziale del consenso matrimoniale, si considerava che concedere rilevanza ai possibili effetti dell'atto coniugale, equivarebbe a far entrare il fine del matrimonio nella sua essenza...: cfr. O. Fumagalli Carulli, Il Matrimonio Canonico dopo il Concilio, Milano, 1978, pp. 74ss.