Auto-realizzazione e Dono di Sé (nel matrimonio e nella famiglia) (Studi Cattolici, febb., 1997, pp. 84-90)
[Famiglia, «avamposto dell'amore» nella società contemporanea: incoraggiante asserzione con cui si chiudono queste riflessioni amabilmente provocatorie sull'amore umano, fra coniugi e fra uomo e Dio. Affinché la visione personalistica dell'uomo e della famiglia — così centrale nel Magistero ecclesiastico e tanto cara all'attuale Pontefice — sia resa effettiva, è necessario scandagliarne fino in fondo tutte le caratteristiche, per giungere all'amore davvero personale, che è generoso e generante]
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Se vi domandassero che cosa vi renderebbe più felici, se ricevere un milione di dollari o dare un milione di dollari, forse ve ne stareste un momento in silenzio a riflettere: «Beh, se fossi in grado di dare un milione quando, per ipotesi, avessi un patrimonio di cento milioni di dollari, potrei essere felice di dare un milione di dollari. Ma per come stanno le cose, invece, penso che sarei più felice di riceverlo».
Parrebbe una risposta di buon senso, ma non necessariamente di senso evangelico. E potrebbe non essere vera neppure nel senso umano più profondo. San Paolo richiama le parole di nostro Signore: vi è più gioia nel dare che nel ricevere. Questa è una formula valida non solamente per acquistare il paradiso, ma anche per godere la felicità che è alla nostra portata su questa terra.
Noi non siamo autosufficienti; non possiamo renderci felici ripiegandoci su noi stessi. La felicità ci giunge dal di fuori: per accoglierla dobbiamo essere aperti. Chiunque sceglie di essere un sistema chiuso finirà sempre col fallire miseramente. L'inferno è fatto di sistemi chiusi che hanno fallito. Dio è deciso ad aprirci, e a volte per riuscirci si serve di circostanze che agiscono su di noi come un apriscatole — o magari come una carica esplosiva.
Tutta la concezione cristiana della vita si trova nel Vangelo: non cercare te stesso se non vuoi perderti; dimentica te stesso e ti ritroverai; è meglio dare, perché allora non soltanto sarai più felice, ma sarai anche meglio predisposto non tanto a ricevere quanto alla capacità di ricevere.
La nostra mentalità moderna è impregnata dell'idea opposta. Dopo secoli di individualismo, abbiamo raggiunto il culmine nella «generazione dell'io»: cerca te stesso; sii te stesso; crea te stesso; non legarti o vincolarti; sii diverso, anche se questo significa essere solo. Alla filosofia e alla psicologia è affidato di spiegare esattamente perché oggi nel mondo occidentale vi è tanta solitudine.
Sii unico anche se questo significa essere un isolato. Sii te stesso, anche se non sai che cosa significhi essere te stesso; anche se non sai chi sei e da dove vieni. Sii te stesso: ma ogni giorno noi cambiamo, siamo enormemente differenti! E allora smetti di cambiare, anche se non hai la minima idea se possa esser meglio o peggio.
Per l'individualismo dei secoli scorsi gli altri sarebbero alla fin fine soltanto strumenti -- oppure ostacoli -- dei miei interessi. Nauseati dal puro egoismo dell'individualismo, parecchi hanno reagito buttandosi verso il collettivismo in politica o nel pensiero sociale o economico. Entrambe le prospettive hanno degradato e spersonalizzato l'individuo. Ora (specialmente con il Papa attuale) si sta articolando una nuova filosofia dell'essere umano chiamata personalismo cristiano. Espressa nella semplicità del Vangelo dal quale deriva la propria fonte, essa fa un appello che si diffonde al di là degli schemi di ogni religione.
L'idea chiave del personalismo cristiano la si trova nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo moderno Gaudium et spes, del Concilio Vaticano II: «L'uomo [...] non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (cfr n. 24). L'uomo trova sé stesso dando sé stesso: ai valori e alle persone. L'ambiente naturale per questo genere di realizzazione di sé stessi è il matrimonio e la famiglia.
Il personalismo del Concilio Vaticano II viene applicato in modo tutto particolare al matrimonio dalla Gaudium et spes al n. 48, dove si dice che i due sposi «mutuamente si danno e si ricevono». È in questi termini — un dono di sé e un'accettazione dell'altro che dura per tutta la vita — che il consenso matrimoniale viene descritto nel Catechismo (n. 1627) e nel nuovo Codice di diritto canonico (can. 1057).
«Io dono me stesso: sono tuo». «Io non presto. Io non mi aggrappo a me stesso, a me stessa. Sono tuo, sono tua.». E l'altro dona sé stesso o sé stessa: «Io accetto; tu sei mio, mia. E ora che sei mio, mia, non ti respingerò e non recederò dalla mia accettazione». Il vero amore vuole impegnarsi e tener fermo questo impegno. Di qui fluisce la stabilità del vincolo dell'amore coniugale.
Che il matrimonio sia una modalità specialissima di realizzazione umana è espresso in quelle parole della Scrittura: «E il Signore disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile"» (Gn 2, 18). Questo passo deve naturalmente essere preso come fondamento del concetto personalistico di matrimonio, e mette in luce uno dei più importanti aspetti del piano e degli intendimenti divini nella creazione dei sessi.
La regola della Gaudium et spes — realizzarsi donando — si applica a tutti. Essa ha differenti applicazioni concrete secondo la vocazione di ciascuno. Anche il prete, il religioso e il laico che rimangono celibi per Dio donano sé stessi; la loro realizzazione consiste nella fedeltà a questo dono. È di ben poco conto discutere se la loro donazione sia in sé stessa più elevata di quella di una persona che si sposa. Le regole generali, in questo caso, sono devianti e solo Dio può giudicare i casi individuali. È molto più interessante prendere in considerazione alcuni punti che sono comuni ai due tipi di donazione di sé stessi, e altri che differiscono.
Un primo punto in comune è che, sia nel matrimonio che nella vita dedicata direttamente a Dio, il dono di sé viene effettuato da una persona piena di difetti. E le persone difettose non si danno facilmente e, per la stessa ragione, non vengono accettate facilmente, almeno dagli esseri umani: i loro difetti sembrano stare sempre lì a sbarrare il passo. Questo rivela immediatamente un punto di differenza: il dono di sé della persona rimasta celibe per Dio è fatto a Qualcuno che è divino e perfetto, mentre il dono di sé del matrimonio è fatto a qualcuno che è umano e imperfetto. È più facile donare sé stessi a Chi è perfetto, nonostante i propri difetti? Si è più facilmente accettati da Lui? Le sue esigenze sono più ragionevoli? O forse quegli altri hanno maggiori pretese e quindi la risposta a essi potrebbe essere più meritoria? Oppure alle richieste di una persona imperfetta è più difficile rispondere proprio perché possono essere meno ragionevoli? In questo caso, le richieste reciproche delle persone imperfette non potrebbero essere più meritorie nella risposta proprio per il carattere irragionevole che a volte sembrano avere? Non mi propongo di rispondere a queste domande, anche perché non sono affatto sicuro delle risposte. Ma mi sembrano quesiti che vale la pena di ponderare; li lascio al lettore.
In relazione al dono di sé del matrimonio, che è il motivo principale del nostro interesse, c'è un altro punto che deve essere chiarito. La persona che dona sé stessa direttamente a Dio ha, logicamente, la volontà di accettare Dio pienamente; altrimenti il dono di sé perderebbe scioltezza e forse anche autenticità. Nel matrimonio questa connessione fra il «dono di sé» e la «accettazione dell'altro» non è soltanto un problema di logica. Essa è assolutamente costitutiva, a tal punto che se i due elementi — dono di sé e accettazione dell'altro — non sono presenti nel consenso matrimoniale, il consenso stesso può essere invalido e il matrimonio, in realtà, inesistente.
Il moderno personalismo matrimoniale, specialmente nella legge canonica, prendendo in considerazione la nuova formula che descrive il consenso matrimoniale — un uomo e una donna che si donano reciprocamente e si accettano l'un l'altra — forse ha insistito unilateralmente sulla nozione di dono di sé e non abbastanza su ciò che implica l'accettazione dell'altro. Il matrimonio è l'unione di due persone che si amano con le loro virtù, ma sono pronte anche ad accettarsi con i rispettivi difetti. Se non si tiene presente questo, si finisce con l'avere un'idea irreale del matrimonio.
La realizzazione di una persona sposata dipende dalla relazione che si stabilisce in primo luogo con il coniuge, e poi con i propri figli. Consideriamo brevemente questi due aspetti.
È al proprio coniuge che la persona sposata si deve dare ed è il coniuge che deve accettare. Donazione di sé e accettazione dell'altro per tutta una vita. È questo il modo in cui Dio ha unito gli sposi: e ciò che Dio ha unito non deve essere separato da nessun uomo o donna, men che mai dagli sposi stessi, attraverso il rifiuto di dare o il rifiuto di accettare. Questo non è facile, specialmente — insistiamo su questa importante verità — perché il matrimonio è il legame fra due persone imperfette, nessuna delle quali può soddisfare pienamente l'altra e ciascuna delle quali, anche nel migliore dei casi, a volte deluderà o ferirà l'altra.
L'accettazione matrimoniale è l'accettazione di una persona con difetti umani generici (cioè, quelli comuni a tutto il genere umano: parecchi di quelli e persino — può sembrare dopo anni — tutti quelli!) e con difetti peculiari a lui o lei, che può mostrare un singolare carattere maschile o un singolare carattere femminile. Uomini e donne sono complementari, e perciò differenti. L'importante è che ciascuno impari ad accettare gli aspetti sia positivi che negativi implicati dalle diversità.
È notevole che il nuovo Catechismo dica che l'esperienza del male alla quale siamo tutti sottoposti «si fa sentire anche nelle relazioni fra l'uomo e la donna. Da sempre la loro unione è stata minacciata [...] La loro mutua attrattiva [...] si cambia in rapporti di dominio e di bramosia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1606-1607). Per proteggere il loro amore, marito e moglie devono tenere debito conto del disordine nella sessualità considerando se il loro rapporto fisico sessuale sia sempre espressione del reciproco amore e non sia mai espressione di una mera gratificazione, unilaterale o compartecipata.
Se il matrimonio deve condurre alla realizzazione, è necessaria tutta una serie di transizioni sul piano sessuale. La singola persona, con la sua identità sessuale di uomo o donna fondamentalmente costituita, deve operare una transizione a marito e moglie; e poi, di solito, da marito o moglie a padre o madre. Se un uomo non diventa effettivamente un marito, egli non riesce a realizzare la propria identità umano-sessuale. E analogamente (a parte il caso in cui la sterilità è volere di Dio per gli sposi) se non diventa padre (come espressione di paternità integrale, e non solo biologica) per i particolari figli che Dio ha disposto. Così pure, se una donna non diventa effettivamente moglie, non riesce a sviluppare la propria identità sessuale e umana; la stessa cosa accade se non diventa effettivamente madre.
C’è da chiarire subito un punto particolarmente importante. Un gran numero di presunti personalisti che oggi scrivono sul matrimonio tendono a classificare alcuni aspetti del matrimonio come «personalistici» (amore, aiuto, conforto, compatibilità) e altri come «istituzionali» (procreazione e indissolubilità, in particolare) e quindi a porli non in contrasto, ma in contrapposizione. Questo è un errore decisamente fuorviante.
È un errore, prima di tutto, perché l'aspetto personalistico del matrimonio è altrettanto «istituzionale» quanto la procreazione. Entrambi gli aspetti sono presenti nel resoconto — anzi, i due resoconti — che fa la Genesi dell'istituzione del matrimonio. Il primo capitolo ci dà una versione chiaramente orientata alla procreazione: «Dio creò l'uomo a sua immagine; [...] maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi"» (Gn 1,27- 28). Il secondo capitolo ce ne dà una versione che è altrettanto chiaramente personalistica: «E il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo"» — questo vale anche per la donna — «"sia solo: gli voglio fare un aiuto" [...] Per questo l'uomo [...] si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2, 18 e 24). È significativo che Gesù nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo si sia riferito al testo personalistico della Genesi e non al testo procreativo quando insegnò che il legame matrimoniale era stato reso indissolubile fin dalla sua istituzione (Mt 19, 4-6).
È un errore, in secondo luogo, perché gli aspetti della procreatività e dell'indissolubilità non sono solo istituzionali, essendo anch'essi personalistici. Cogliere questo non è meno fondamentale. Si svisa completamente il matrimonio se la realizzazione personale (o «il bene») degli sposi è messa in contrasto o in opposizione rispetto all'avere figli o all'essere legati l'un l'altra «nella buona e nella cattiva sorte» fino alla morte.
Così, con una più attenta lettura della Scrittura, siamo in grado di vedere la connessione fra istituzionale e personalistico. Lo stesso risultato deriva da un'accurata analisi di sant'Agostino, i cui scritti sono stati di straordinaria importanza nello sviluppo del pensiero cristiano sul matrimonio. Agostino è naturalmente uno spauracchio per molti moderni. È spesso presentato — erroneamente presentato — come un pessimista circa il sesso e il matrimonio, mentre egli era un ottimista: un realistico ottimista. È stato il primo grande filosofo della dignità e bontà del matrimonio (che difendeva contro i manichei), ma anche un chiaroveggente esponente (contro i pelagiani) delle difficoltà che assediano la sessualità come risultato dello stato dell'uomo dopo la caduta, nonché delle precauzioni che per questo si devono prendere, anche nel matrimonio, se si vuole che la sessualità conservi il suo significato intrinseco e la sua nobiltà. Comunque, non è questo punto che qui ci interessa, bensì l'insegnamento di sant'Agostino sui «bona» — i «beni» o valori — del matrimonio.
Egli ha specificato tre aspetti principali o valori del rapporto matrimoniale: la sua esclusività (l'unione di un uomo e una donna), la sua stabilità (unione per tutta la vita), la sua procreatività (unione aperta ai figli, frutto dell'amore coniugale). La sua genialità ha visto come soltanto questi tre beni altamente personalizzati o valori rendessero buono il matrimonio, con una sua gloria peculiare. «Questa è la bontà del matrimonio, dalla quale esso riceve la sua gloria: la prole, la casta fedeltà, il legame indissolubile» (Pl 44, 406).
Nel corso dei secoli, teologi e canonisti sono arrivati a considerare i tre «bona» come aspetti «istituzionali» del matrimonio; e questo è del tutto corretto. Stranamente, però, parecchi dei cosiddetti «personalisti» moderni, scrivendo sul matrimonio, sono diventati ostili ai «bona», con un'analisi che sembra sostenere che se essi sono istituzionali, allora non sono personalistici; e questo è completamente erroneo.
Un importante compito che attende la teologia e l'antropologia cristiane è dimostrare che istituzionalismo e personalismo sono sintetizzati non solo nel resoconto scritturistico della creazione dei sessi e del matrimonio, ma anche nella dottrina agostiniana dei «bona»; che questi valori o beni esprimono tre desideri fondamentali dell'amore umano: appartenere esclusivamente l'uno all'altra per la vita in una unione portatrice di prole. Accenniamo ora brevemente a come tutto questo sia in relazione al «bonum prolis» (procreatività) e al «bonum sacramenti» (indissolubilità).
Un aspetto particolare, implicito nell'accettazione coniugale, è di accogliere di buon grado la potenzialità sessuale personalistica dell'altro, come realizzazione complementare della propria potenzialità sessuale. Marito e moglie corrono il grave rischio di non percepire mai il matrimonio come un'avventura in comune se non sono aperti alla piena potenzialità umana e personalistica della loro unione, e precisamente alla sua potenzialità procreativa.
Ho volutamente parlato di potenziale sessuale personalistico perché si deve superare la mentalità che considera l'aspetto procreativo dei rapporti sessuali matrimoniali come un semplice o casuale scherzo di natura sul piano biologico, che si può ostacolare o cancellare senza conseguenze sulla relazione personale fra gli sposi.
Non c'è stato nulla di accidentale né di stranamente biologico nel disegno di Dio di fare la complementarità dei sessi così sorprendente nella loro capacità di avere un figlio insieme. Non è stato alla ricerca di una opportunità organizzativa cosmica, ma per sottolineare la natura creativa dell'amore, che Dio ha fatto l'atto fisico — che è visto come così peculiarmente espressivo del rapporto matrimoniale da essere chiamato atto coniugale — come atto di scambio del seme di vita; un atto mediante il quale ciascuno dà all'altro, apre all'altro, la propria potenzialità procreativa e accetta la procreatività complementare che l'altro dà.
La realizzazione nel matrimonio, attraverso il dare/accettare, si collega naturalmente anche con l'avere dei figli. Questo non è approfondito a sufficienza col dire: «Certo, è chiaro che allevare dei figli richiede una bella mole di donazione di sé e perciò matura coloro che se ne devono occupare». Vero, ma potrebbe valere anche per un maestro di scuola. E non basta aggiungere che un genitore deve curarsene anche fuori della scuola. Occorre ancora cercare di considerare i figli come «munus», come missione responsabile — quale essa è — e un servizio alla società, che perciò fa maturare come ogni effettiva attività di servizio. Questo lascia intatto il diffuso punto di vista che distingue e contrappone le concezioni «personalistica» e «istituzionale» del matrimonio, ritenendo che mentre una volta il matrimonio era considerato principalmente un'istituzione in funzione dei figli, oggi esso va piuttosto vissuto come un mezzo per l'unione d'amore della coppia: una questione personalistica. In questa prospettiva il matrimonio può implicare apertura ad avere molti figli, se gli sposi trovano in questo la propria realizzazione o la propria soddisfazione; ma può essere altrettanto felice e persino più realizzante attraverso la scelta deliberata di una pianificazione familiare, se è questo in realtà che la coppia preferisce, come oggi sembra sia la scelta di molta gente.
Una tesi simile, che è comune alla maggior parte di coloro che fanno della teoria sull'argomento, segna il trionfo dei valori personalistici sopra quelli biologici, sociali e istituzionali. Nella realtà, comunque, non si tratta di un trionfo, bensì di un fallimento del personalismo. Se rende una coppia più libera dai figli, rende però il loro amore meno aperto e comprensivo l'uno dell'altro, e li coinvolge entrambi in un processo calcolatore in cui inevitabilmente ciascuno dona meno sé stesso all'altro e accetta l'altro sempre meno.
L'atto coniugale è l'espressione più personalizzata dell'amore nel matrimonio perché in quella condivisione ciascuno esprime l'unica condizione personale di coniuge che conferisce all'altro e riceve dall'altro. Tu sei unico, unica per me; e la prova è che con te, e con te solamente, sono disposto, disposta a condividere questo potere di procreare orientato alla vita che è dono di Dio. È anche l'espressione più personalizzata di amore, perché tende per sua natura a dare origine a una nuova persona, frutto e incarnazione dell'unione degli sposi.
La contraccezione coinvolge troppi sposi in una riduzione della sessualità, nel rifiuto del coniugale dare e accettare. Nessun coniuge dà pienamente sé stesso e accetta pienamente l'altro. Essi non sono veramente uniti e così non sono in grado di scoprire il segreto e la gloria della loro sessualità, contemplando le molteplici incarnazioni che il loro amore può creare.
Oggi questo è un grave handicap per i giovani, quando hanno assorbito questa mentalità e la portano al loro matrimonio, perché essa immiserisce una vera e piena unione, riempie di frustrazione la più significativa espressione dell'amore coniugale e ne debilita la crescita, forse persino le possibilità di sopravvivenza.
Il secolo attuale è arrivato a separare e contrapporre la realizzazione nel matrimonio e l'avere dei bambini. Molti guardano al matrimonio come a una questione a due — una felicità «à deux» —, in cui i bambini sono visti come un possibile vantaggio, ma anche come una possibile remora, un impedimento alla realizzazione personale. Il moderno mondo occidentale ha infatti perduto il senso dell'unità del disegno di Dio per il matrimonio, mettendo in contrasto o in contrapposizione aspetti che sono strettamente collegati e interdipendenti.
Il contenuto personalistico del «bonum sacramenti» — la indissolubilità del vincolo matrimoniale — dovrebbe essere più facile da vedere; ma sembra che parecchi non lo vedano più. Secondo loro legarsi con una scelta irrevocabile equivale a perdere la propria libertà. Ma non è così: è impegnarsi a un costante esercizio di libertà fatto per amore. Che sorta di amore è quello che preferisce lasciarsi sempre aperta la ritirata? Molta gente oggi è diventata cronicamente incapace di liberarsi da dubbi e incertezze e sospetti; non si rende conto che per tutti viene il momento di volersi liberare dalla camicia di forza dell'egocentrismo una volta per tutte, cosa che è possibile soltanto mediante un impegno definitivo. La persona veramente innamorata non ha timore di perdere la propria libertà, bensì di perdere il proprio amore. Non la libertà di impegnarsi si dovrebbe temere, ma la libertà di recedere dal proprio impegno.
La libertà di cui si dovrebbe aver timore è la libertà di essere infedeli, che ci accompagna fino alla fine. È per questa ragione che l'amante umile sente la necessità di pregare: «Signore, fammi fedele»; è anche il motivo per cui coloro che recedono sono infelici, perché non solo hanno tradito coloro che dovrebbero esser loro cari, ma hanno anche tradito sé stessi. Essi non solo hanno perduto quelli, come sanno nel profondo del loro cuore, ma si sono rimessi nella camicia di forza abbandonando la via della realizzazione.
Quando le persone imparano ad amare e si rendono conto che, con la grazia di Dio, il legame fra loro non sarà mai rotto, allora comprendono meglio le parole di sant'Agostino sul gloriarsi del loro legame inscindibile.
L'indissolubilità e la procreatività sono i due grandi valori istituzionali del matrimonio che oggi sono visti come fardelli negativi, mentre sono la chiave per la vera realizzazione e per la felicità. Una coppia unita e felice è la migliore testimonianza della possibilità e del valore dell'amore come legame inscindibile, come una famiglia unita e felice è la migliore testimonianza della benedizione di avere dei figli.
Abbiamo visto alcuni aspetti del bene racchiuso in quella reciproca donazione di sé di un uomo e una donna che è il matrimonio. Ma nessun bene è contenibile; esso tende naturalmente a crescere. E questo è meravigliosamente vero nel piano di Dio. L'unione di due normalmente si espande in un insieme particolarmente unito di tre o quattro o più. L'impegno diventa naturalmente la famiglia. Quando arrivano i figli, una famiglia cambia. Il modello di crescita e la realizzazione del darsi e accettarsi l'un l'altro è allargato e intensificato, assumendo caratteristiche totalmente nuove. Diventando una famiglia, un matrimonio è più personalizzato, anche perché più persone sono coinvolte nella sfida arricchente della donazione-accettazione.
Ora marito e moglie devono non solo amare, aiutare e accettare l'un l'altro come co-sposi, ma fare le stesse cose anche come co-genitori. Continuano a derivare importanti conseguenze dall'identità sessuale. Il marito ha una nuova sfida da affrontare: imparare a essere padre. E la moglie, imparare a essere madre. E tutt'e due insieme, imparare a essere genitori, dai quali — insieme, o separatamente, o alternativamente — fluiscono l'autorità, la guida e il supporto di cui i figli hanno bisogno. Ora marito e moglie devono in verità ripartire daccapo a imparare, a questa scuola del dare e dell'accettare e dell'esigere. In questa scuola d'amore, i figli — accettati incondizionatamente dall'amore dei genitori — gradualmente imparano ad amare i propri genitori e, ancor più gradualmente, ad amarsi fra loro. Nella sua Lettera alle Famiglie del 1994, il Papa dice: «L'amore è vero quando crea il bene delle persone e delle comunità, lo crea e lo dona agli altri [...] L'amore è esigente [...] Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente, perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia» (n. 14).
Qui la natura ci è di notevole aiuto. È naturale per i genitori amare i figli. Si potrebbe dire che sia anche naturale per i figli amare i propri genitori, ma non è altrettanto facile (in parte perché i genitori non sempre amano saggiamente o si rendono amabili). Forse è per questo che esiste un comandamento che ordina ai figli di amare i genitori, mentre il Decalogo non contiene un simile comando ai genitori di amare i loro figli.
Quando i genitori viziano i loro figli dando o lasciando loro troppo, non solo non li amano, ma generalmente non ne sono amati. Non si ama una persona se non se ne ha rispetto. E non si rispetta una persona senza ideali, che tollera nulla o tutto, che non ha princìpi o ha paura di mantenervisi fedele quando è necessario, nonostante le proteste altrui. Coloro che hanno paura di esercitare l'autorità, la perdono. Questo può accadere nel governo civile, nella Chiesa e nella famiglia.
Si può dire che sia naturale per fratelli e sorelle amarsi reciprocamente? Forse non inizialmente, almeno a detta di alcuni psicologi infantili. L'atteggiamento di un fratello maggiore è spesso quello della possessività e del dominio, o anche di gelosia.
I genitori devono fare attenzione a non avere favoritismi, o almeno a non farlo trasparire. L'amore dei genitori dovrebbe porsi al di là delle preferenze. Ogni figlio è, allo stesso modo dei fratelli e delle sorelle, figlio dei suoi genitori, e peraltro è diverso dagli altri. L'amore dei genitori dev'essere lo stesso per tutti, e allo stesso tempo si esprime a ciascuno in modi diversi secondo il momento. Questo è ciò che il beato Josemaría Escrivá voleva dire quando parlava di amare figli uguali in modo disuguale; in altre parole, con una giustizia «variabile» (cfr Amici di Dio, n. 173).
Alla madre di Napoleone, che ebbe otto figli, domandarono una volta chi di loro fosse il suo favorito. La sua risposta fu: chiunque ne abbia più bisogno. Non che evitasse diplomaticamente di scegliere; stava semplicemente parlando da madre. Nel vero ordine dei valori familiari, il figlio che ha bisogno di più amore è quello che ne ha di più (e dal quale si esige di più in proporzione). I genitori che conoscono i loro figli sanno che quello che ha più bisogno di amore tende costantemente a variare.
È a tutti familiare l'antico detto così pieno di verità: «La famiglia che prega insieme, sta insieme». Mi sia consentito di completarlo con un altro che a prima vista può sorprendere: «La famiglia che lotta insieme, sta insieme».
Intendo questo non solo nel senso umano paradossale che qualche scaramuccia familiare, come qualche litigio coniugale, sia inevitabile; e che — una volta risolto — alla fine serve a cementare l'amore. Per risolverlo occorre umiltà: nulla di meglio per aprirci e per liberarci dall'egocentrismo. Ma intendo anche nel senso che oggi ogni famiglia cristiana è un posto di combattimento nella lotta per portare il mondo a Cristo e dev'essere consapevole della propria condizione di «truppa d'assalto», della propria responsabilità di «avamposto», non solo per evitare di perdere terreno, non solo per difendersi, ma per avanzare, per guadagnare terreno — e gente — a Cristo, il quale è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11, 52).
Immagino e spero che voi che leggete abbiate spesso riflettuto sulla potenza di qualcosa che senza dubbio accade fra le persone a voi vicine. Parlo del colossale impatto che subiscono un ragazzo e una ragazza provenienti da una famiglia con uno o due figli quando vengono in contatto con una famiglia dove ci sono quattro o sei o dieci figli. Essi imparano una quantità di cose che non s'impara mai da alcun manuale: che quelle persone sono capaci di cavarsela, che possono essere molto unite fra loro senza essere identiche, che i litigi si devono superare, che ciascuno può avere una propria strada, che il non perdonare o non chiedere perdono lascia sempre più soli.
Quando spieghi ai tuoi figli la necessità di imparare a cavarsela nella vita di famiglia, non aver timore di precisare gli enormi svantaggi dei loro amici che provengono da famiglie con un solo figlio, che hanno più cose, ma scarse occasioni per imparare a condividere la vita. Dì ai tuoi figli che cavandosela essi portano Cristo nella famiglia e, attraverso di loro, nelle famiglie dei loro amici.
Mobilita i tuoi figli per Dio, in una benedetta battaglia per dare una scrollata alla gente, per svegliarla e renderla consapevole e per rendere libero il mondo. Dì loro che, poiché sono ricchi in Cristo, essi sono in grado di dare un milione di dollari e più ancora ogni giorno a quelli che stanno intorno a loro. Mentre cercano di arricchire sé stessi in nostro Signore — attraverso la preghiera e i sacramenti — essi possono aiutare la povertà dei loro amici, le vite dei quali hanno scarso supporto e carenza di ideali perché non conoscono Cristo.
Conosco famiglie nelle quali si fanno regolari incontri per programmare l'evangelizzazione del vicinato. Vi si ricevono rapporti dai diversi fronti (liceo, università), si richiedono iniziative, si discutono errori; si riflette insieme su come mai, poiché siamo solo strumenti di Dio, i nostri errori non contano, perché Egli è molto abile nel girarli a buon fine; Egli trova strumenti particolarmente adatti in coloro che non hanno timore di farsi giullari per Lui, di esser messi in imbarazzo e di acquistare così una «santa sfrontatezza». Dove si chiede a ciascuno quali pensa possano essere i problemi dei suoi amici, chi è il più solo, che cosa si può fare per aiutarlo o aiutarla...
Sì, «la famiglia che lotta insieme»... Prego perché ognuna delle vostre famiglie, dovunque siate situati, sia una sorgente di «gratuità per tutti», in cui lo scopo sia «libertà per tutti»: la libertà di dare e di amare. Hai bisogno di renderti conto della tua missione umana e divina; di riempire la tua vita matrimoniale e familiare di effettiva vitalità, col vivere i valori familiari che sono in rotta di collisione — una collisione provocatoria e piena di affetto — con la perdita di vitalità e di valori che sta intorno a noi. Il fatto che tu viva di questi valori, con la componente della Croce che essi implicano, può inizialmente essere uno «scandalo» per gli altri; ma la gioia che ti dà, come mezzo di santificazione personale, mostrerà anche agli altri la strada della propria realizzazione: anzi, della salvezza.
[Famiglia, «avamposto dell'amore» nella società contemporanea: incoraggiante asserzione con cui si chiudono queste riflessioni amabilmente provocatorie sull'amore umano, fra coniugi e fra uomo e Dio. Affinché la visione personalistica dell'uomo e della famiglia — così centrale nel Magistero ecclesiastico e tanto cara all'attuale Pontefice — sia resa effettiva, è necessario scandagliarne fino in fondo tutte le caratteristiche, per giungere all'amore davvero personale, che è generoso e generante]
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Se vi domandassero che cosa vi renderebbe più felici, se ricevere un milione di dollari o dare un milione di dollari, forse ve ne stareste un momento in silenzio a riflettere: «Beh, se fossi in grado di dare un milione quando, per ipotesi, avessi un patrimonio di cento milioni di dollari, potrei essere felice di dare un milione di dollari. Ma per come stanno le cose, invece, penso che sarei più felice di riceverlo».
Parrebbe una risposta di buon senso, ma non necessariamente di senso evangelico. E potrebbe non essere vera neppure nel senso umano più profondo. San Paolo richiama le parole di nostro Signore: vi è più gioia nel dare che nel ricevere. Questa è una formula valida non solamente per acquistare il paradiso, ma anche per godere la felicità che è alla nostra portata su questa terra.
Noi non siamo autosufficienti; non possiamo renderci felici ripiegandoci su noi stessi. La felicità ci giunge dal di fuori: per accoglierla dobbiamo essere aperti. Chiunque sceglie di essere un sistema chiuso finirà sempre col fallire miseramente. L'inferno è fatto di sistemi chiusi che hanno fallito. Dio è deciso ad aprirci, e a volte per riuscirci si serve di circostanze che agiscono su di noi come un apriscatole — o magari come una carica esplosiva.
Tutta la concezione cristiana della vita si trova nel Vangelo: non cercare te stesso se non vuoi perderti; dimentica te stesso e ti ritroverai; è meglio dare, perché allora non soltanto sarai più felice, ma sarai anche meglio predisposto non tanto a ricevere quanto alla capacità di ricevere.
La nostra mentalità moderna è impregnata dell'idea opposta. Dopo secoli di individualismo, abbiamo raggiunto il culmine nella «generazione dell'io»: cerca te stesso; sii te stesso; crea te stesso; non legarti o vincolarti; sii diverso, anche se questo significa essere solo. Alla filosofia e alla psicologia è affidato di spiegare esattamente perché oggi nel mondo occidentale vi è tanta solitudine.
Sii unico anche se questo significa essere un isolato. Sii te stesso, anche se non sai che cosa significhi essere te stesso; anche se non sai chi sei e da dove vieni. Sii te stesso: ma ogni giorno noi cambiamo, siamo enormemente differenti! E allora smetti di cambiare, anche se non hai la minima idea se possa esser meglio o peggio.
Per l'individualismo dei secoli scorsi gli altri sarebbero alla fin fine soltanto strumenti -- oppure ostacoli -- dei miei interessi. Nauseati dal puro egoismo dell'individualismo, parecchi hanno reagito buttandosi verso il collettivismo in politica o nel pensiero sociale o economico. Entrambe le prospettive hanno degradato e spersonalizzato l'individuo. Ora (specialmente con il Papa attuale) si sta articolando una nuova filosofia dell'essere umano chiamata personalismo cristiano. Espressa nella semplicità del Vangelo dal quale deriva la propria fonte, essa fa un appello che si diffonde al di là degli schemi di ogni religione.
L'idea chiave del personalismo cristiano la si trova nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo moderno Gaudium et spes, del Concilio Vaticano II: «L'uomo [...] non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (cfr n. 24). L'uomo trova sé stesso dando sé stesso: ai valori e alle persone. L'ambiente naturale per questo genere di realizzazione di sé stessi è il matrimonio e la famiglia.
Il personalismo del Concilio Vaticano II viene applicato in modo tutto particolare al matrimonio dalla Gaudium et spes al n. 48, dove si dice che i due sposi «mutuamente si danno e si ricevono». È in questi termini — un dono di sé e un'accettazione dell'altro che dura per tutta la vita — che il consenso matrimoniale viene descritto nel Catechismo (n. 1627) e nel nuovo Codice di diritto canonico (can. 1057).
«Io dono me stesso: sono tuo». «Io non presto. Io non mi aggrappo a me stesso, a me stessa. Sono tuo, sono tua.». E l'altro dona sé stesso o sé stessa: «Io accetto; tu sei mio, mia. E ora che sei mio, mia, non ti respingerò e non recederò dalla mia accettazione». Il vero amore vuole impegnarsi e tener fermo questo impegno. Di qui fluisce la stabilità del vincolo dell'amore coniugale.
Che il matrimonio sia una modalità specialissima di realizzazione umana è espresso in quelle parole della Scrittura: «E il Signore disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile"» (Gn 2, 18). Questo passo deve naturalmente essere preso come fondamento del concetto personalistico di matrimonio, e mette in luce uno dei più importanti aspetti del piano e degli intendimenti divini nella creazione dei sessi.
La regola della Gaudium et spes — realizzarsi donando — si applica a tutti. Essa ha differenti applicazioni concrete secondo la vocazione di ciascuno. Anche il prete, il religioso e il laico che rimangono celibi per Dio donano sé stessi; la loro realizzazione consiste nella fedeltà a questo dono. È di ben poco conto discutere se la loro donazione sia in sé stessa più elevata di quella di una persona che si sposa. Le regole generali, in questo caso, sono devianti e solo Dio può giudicare i casi individuali. È molto più interessante prendere in considerazione alcuni punti che sono comuni ai due tipi di donazione di sé stessi, e altri che differiscono.
Un primo punto in comune è che, sia nel matrimonio che nella vita dedicata direttamente a Dio, il dono di sé viene effettuato da una persona piena di difetti. E le persone difettose non si danno facilmente e, per la stessa ragione, non vengono accettate facilmente, almeno dagli esseri umani: i loro difetti sembrano stare sempre lì a sbarrare il passo. Questo rivela immediatamente un punto di differenza: il dono di sé della persona rimasta celibe per Dio è fatto a Qualcuno che è divino e perfetto, mentre il dono di sé del matrimonio è fatto a qualcuno che è umano e imperfetto. È più facile donare sé stessi a Chi è perfetto, nonostante i propri difetti? Si è più facilmente accettati da Lui? Le sue esigenze sono più ragionevoli? O forse quegli altri hanno maggiori pretese e quindi la risposta a essi potrebbe essere più meritoria? Oppure alle richieste di una persona imperfetta è più difficile rispondere proprio perché possono essere meno ragionevoli? In questo caso, le richieste reciproche delle persone imperfette non potrebbero essere più meritorie nella risposta proprio per il carattere irragionevole che a volte sembrano avere? Non mi propongo di rispondere a queste domande, anche perché non sono affatto sicuro delle risposte. Ma mi sembrano quesiti che vale la pena di ponderare; li lascio al lettore.
In relazione al dono di sé del matrimonio, che è il motivo principale del nostro interesse, c'è un altro punto che deve essere chiarito. La persona che dona sé stessa direttamente a Dio ha, logicamente, la volontà di accettare Dio pienamente; altrimenti il dono di sé perderebbe scioltezza e forse anche autenticità. Nel matrimonio questa connessione fra il «dono di sé» e la «accettazione dell'altro» non è soltanto un problema di logica. Essa è assolutamente costitutiva, a tal punto che se i due elementi — dono di sé e accettazione dell'altro — non sono presenti nel consenso matrimoniale, il consenso stesso può essere invalido e il matrimonio, in realtà, inesistente.
Il moderno personalismo matrimoniale, specialmente nella legge canonica, prendendo in considerazione la nuova formula che descrive il consenso matrimoniale — un uomo e una donna che si donano reciprocamente e si accettano l'un l'altra — forse ha insistito unilateralmente sulla nozione di dono di sé e non abbastanza su ciò che implica l'accettazione dell'altro. Il matrimonio è l'unione di due persone che si amano con le loro virtù, ma sono pronte anche ad accettarsi con i rispettivi difetti. Se non si tiene presente questo, si finisce con l'avere un'idea irreale del matrimonio.
La realizzazione di una persona sposata dipende dalla relazione che si stabilisce in primo luogo con il coniuge, e poi con i propri figli. Consideriamo brevemente questi due aspetti.
È al proprio coniuge che la persona sposata si deve dare ed è il coniuge che deve accettare. Donazione di sé e accettazione dell'altro per tutta una vita. È questo il modo in cui Dio ha unito gli sposi: e ciò che Dio ha unito non deve essere separato da nessun uomo o donna, men che mai dagli sposi stessi, attraverso il rifiuto di dare o il rifiuto di accettare. Questo non è facile, specialmente — insistiamo su questa importante verità — perché il matrimonio è il legame fra due persone imperfette, nessuna delle quali può soddisfare pienamente l'altra e ciascuna delle quali, anche nel migliore dei casi, a volte deluderà o ferirà l'altra.
L'accettazione matrimoniale è l'accettazione di una persona con difetti umani generici (cioè, quelli comuni a tutto il genere umano: parecchi di quelli e persino — può sembrare dopo anni — tutti quelli!) e con difetti peculiari a lui o lei, che può mostrare un singolare carattere maschile o un singolare carattere femminile. Uomini e donne sono complementari, e perciò differenti. L'importante è che ciascuno impari ad accettare gli aspetti sia positivi che negativi implicati dalle diversità.
È notevole che il nuovo Catechismo dica che l'esperienza del male alla quale siamo tutti sottoposti «si fa sentire anche nelle relazioni fra l'uomo e la donna. Da sempre la loro unione è stata minacciata [...] La loro mutua attrattiva [...] si cambia in rapporti di dominio e di bramosia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1606-1607). Per proteggere il loro amore, marito e moglie devono tenere debito conto del disordine nella sessualità considerando se il loro rapporto fisico sessuale sia sempre espressione del reciproco amore e non sia mai espressione di una mera gratificazione, unilaterale o compartecipata.
Se il matrimonio deve condurre alla realizzazione, è necessaria tutta una serie di transizioni sul piano sessuale. La singola persona, con la sua identità sessuale di uomo o donna fondamentalmente costituita, deve operare una transizione a marito e moglie; e poi, di solito, da marito o moglie a padre o madre. Se un uomo non diventa effettivamente un marito, egli non riesce a realizzare la propria identità umano-sessuale. E analogamente (a parte il caso in cui la sterilità è volere di Dio per gli sposi) se non diventa padre (come espressione di paternità integrale, e non solo biologica) per i particolari figli che Dio ha disposto. Così pure, se una donna non diventa effettivamente moglie, non riesce a sviluppare la propria identità sessuale e umana; la stessa cosa accade se non diventa effettivamente madre.
C’è da chiarire subito un punto particolarmente importante. Un gran numero di presunti personalisti che oggi scrivono sul matrimonio tendono a classificare alcuni aspetti del matrimonio come «personalistici» (amore, aiuto, conforto, compatibilità) e altri come «istituzionali» (procreazione e indissolubilità, in particolare) e quindi a porli non in contrasto, ma in contrapposizione. Questo è un errore decisamente fuorviante.
È un errore, prima di tutto, perché l'aspetto personalistico del matrimonio è altrettanto «istituzionale» quanto la procreazione. Entrambi gli aspetti sono presenti nel resoconto — anzi, i due resoconti — che fa la Genesi dell'istituzione del matrimonio. Il primo capitolo ci dà una versione chiaramente orientata alla procreazione: «Dio creò l'uomo a sua immagine; [...] maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi"» (Gn 1,27- 28). Il secondo capitolo ce ne dà una versione che è altrettanto chiaramente personalistica: «E il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo"» — questo vale anche per la donna — «"sia solo: gli voglio fare un aiuto" [...] Per questo l'uomo [...] si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2, 18 e 24). È significativo che Gesù nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo si sia riferito al testo personalistico della Genesi e non al testo procreativo quando insegnò che il legame matrimoniale era stato reso indissolubile fin dalla sua istituzione (Mt 19, 4-6).
È un errore, in secondo luogo, perché gli aspetti della procreatività e dell'indissolubilità non sono solo istituzionali, essendo anch'essi personalistici. Cogliere questo non è meno fondamentale. Si svisa completamente il matrimonio se la realizzazione personale (o «il bene») degli sposi è messa in contrasto o in opposizione rispetto all'avere figli o all'essere legati l'un l'altra «nella buona e nella cattiva sorte» fino alla morte.
Così, con una più attenta lettura della Scrittura, siamo in grado di vedere la connessione fra istituzionale e personalistico. Lo stesso risultato deriva da un'accurata analisi di sant'Agostino, i cui scritti sono stati di straordinaria importanza nello sviluppo del pensiero cristiano sul matrimonio. Agostino è naturalmente uno spauracchio per molti moderni. È spesso presentato — erroneamente presentato — come un pessimista circa il sesso e il matrimonio, mentre egli era un ottimista: un realistico ottimista. È stato il primo grande filosofo della dignità e bontà del matrimonio (che difendeva contro i manichei), ma anche un chiaroveggente esponente (contro i pelagiani) delle difficoltà che assediano la sessualità come risultato dello stato dell'uomo dopo la caduta, nonché delle precauzioni che per questo si devono prendere, anche nel matrimonio, se si vuole che la sessualità conservi il suo significato intrinseco e la sua nobiltà. Comunque, non è questo punto che qui ci interessa, bensì l'insegnamento di sant'Agostino sui «bona» — i «beni» o valori — del matrimonio.
Egli ha specificato tre aspetti principali o valori del rapporto matrimoniale: la sua esclusività (l'unione di un uomo e una donna), la sua stabilità (unione per tutta la vita), la sua procreatività (unione aperta ai figli, frutto dell'amore coniugale). La sua genialità ha visto come soltanto questi tre beni altamente personalizzati o valori rendessero buono il matrimonio, con una sua gloria peculiare. «Questa è la bontà del matrimonio, dalla quale esso riceve la sua gloria: la prole, la casta fedeltà, il legame indissolubile» (Pl 44, 406).
Nel corso dei secoli, teologi e canonisti sono arrivati a considerare i tre «bona» come aspetti «istituzionali» del matrimonio; e questo è del tutto corretto. Stranamente, però, parecchi dei cosiddetti «personalisti» moderni, scrivendo sul matrimonio, sono diventati ostili ai «bona», con un'analisi che sembra sostenere che se essi sono istituzionali, allora non sono personalistici; e questo è completamente erroneo.
Un importante compito che attende la teologia e l'antropologia cristiane è dimostrare che istituzionalismo e personalismo sono sintetizzati non solo nel resoconto scritturistico della creazione dei sessi e del matrimonio, ma anche nella dottrina agostiniana dei «bona»; che questi valori o beni esprimono tre desideri fondamentali dell'amore umano: appartenere esclusivamente l'uno all'altra per la vita in una unione portatrice di prole. Accenniamo ora brevemente a come tutto questo sia in relazione al «bonum prolis» (procreatività) e al «bonum sacramenti» (indissolubilità).
Un aspetto particolare, implicito nell'accettazione coniugale, è di accogliere di buon grado la potenzialità sessuale personalistica dell'altro, come realizzazione complementare della propria potenzialità sessuale. Marito e moglie corrono il grave rischio di non percepire mai il matrimonio come un'avventura in comune se non sono aperti alla piena potenzialità umana e personalistica della loro unione, e precisamente alla sua potenzialità procreativa.
Ho volutamente parlato di potenziale sessuale personalistico perché si deve superare la mentalità che considera l'aspetto procreativo dei rapporti sessuali matrimoniali come un semplice o casuale scherzo di natura sul piano biologico, che si può ostacolare o cancellare senza conseguenze sulla relazione personale fra gli sposi.
Non c'è stato nulla di accidentale né di stranamente biologico nel disegno di Dio di fare la complementarità dei sessi così sorprendente nella loro capacità di avere un figlio insieme. Non è stato alla ricerca di una opportunità organizzativa cosmica, ma per sottolineare la natura creativa dell'amore, che Dio ha fatto l'atto fisico — che è visto come così peculiarmente espressivo del rapporto matrimoniale da essere chiamato atto coniugale — come atto di scambio del seme di vita; un atto mediante il quale ciascuno dà all'altro, apre all'altro, la propria potenzialità procreativa e accetta la procreatività complementare che l'altro dà.
La realizzazione nel matrimonio, attraverso il dare/accettare, si collega naturalmente anche con l'avere dei figli. Questo non è approfondito a sufficienza col dire: «Certo, è chiaro che allevare dei figli richiede una bella mole di donazione di sé e perciò matura coloro che se ne devono occupare». Vero, ma potrebbe valere anche per un maestro di scuola. E non basta aggiungere che un genitore deve curarsene anche fuori della scuola. Occorre ancora cercare di considerare i figli come «munus», come missione responsabile — quale essa è — e un servizio alla società, che perciò fa maturare come ogni effettiva attività di servizio. Questo lascia intatto il diffuso punto di vista che distingue e contrappone le concezioni «personalistica» e «istituzionale» del matrimonio, ritenendo che mentre una volta il matrimonio era considerato principalmente un'istituzione in funzione dei figli, oggi esso va piuttosto vissuto come un mezzo per l'unione d'amore della coppia: una questione personalistica. In questa prospettiva il matrimonio può implicare apertura ad avere molti figli, se gli sposi trovano in questo la propria realizzazione o la propria soddisfazione; ma può essere altrettanto felice e persino più realizzante attraverso la scelta deliberata di una pianificazione familiare, se è questo in realtà che la coppia preferisce, come oggi sembra sia la scelta di molta gente.
Una tesi simile, che è comune alla maggior parte di coloro che fanno della teoria sull'argomento, segna il trionfo dei valori personalistici sopra quelli biologici, sociali e istituzionali. Nella realtà, comunque, non si tratta di un trionfo, bensì di un fallimento del personalismo. Se rende una coppia più libera dai figli, rende però il loro amore meno aperto e comprensivo l'uno dell'altro, e li coinvolge entrambi in un processo calcolatore in cui inevitabilmente ciascuno dona meno sé stesso all'altro e accetta l'altro sempre meno.
L'atto coniugale è l'espressione più personalizzata dell'amore nel matrimonio perché in quella condivisione ciascuno esprime l'unica condizione personale di coniuge che conferisce all'altro e riceve dall'altro. Tu sei unico, unica per me; e la prova è che con te, e con te solamente, sono disposto, disposta a condividere questo potere di procreare orientato alla vita che è dono di Dio. È anche l'espressione più personalizzata di amore, perché tende per sua natura a dare origine a una nuova persona, frutto e incarnazione dell'unione degli sposi.
La contraccezione coinvolge troppi sposi in una riduzione della sessualità, nel rifiuto del coniugale dare e accettare. Nessun coniuge dà pienamente sé stesso e accetta pienamente l'altro. Essi non sono veramente uniti e così non sono in grado di scoprire il segreto e la gloria della loro sessualità, contemplando le molteplici incarnazioni che il loro amore può creare.
Oggi questo è un grave handicap per i giovani, quando hanno assorbito questa mentalità e la portano al loro matrimonio, perché essa immiserisce una vera e piena unione, riempie di frustrazione la più significativa espressione dell'amore coniugale e ne debilita la crescita, forse persino le possibilità di sopravvivenza.
Il secolo attuale è arrivato a separare e contrapporre la realizzazione nel matrimonio e l'avere dei bambini. Molti guardano al matrimonio come a una questione a due — una felicità «à deux» —, in cui i bambini sono visti come un possibile vantaggio, ma anche come una possibile remora, un impedimento alla realizzazione personale. Il moderno mondo occidentale ha infatti perduto il senso dell'unità del disegno di Dio per il matrimonio, mettendo in contrasto o in contrapposizione aspetti che sono strettamente collegati e interdipendenti.
Il contenuto personalistico del «bonum sacramenti» — la indissolubilità del vincolo matrimoniale — dovrebbe essere più facile da vedere; ma sembra che parecchi non lo vedano più. Secondo loro legarsi con una scelta irrevocabile equivale a perdere la propria libertà. Ma non è così: è impegnarsi a un costante esercizio di libertà fatto per amore. Che sorta di amore è quello che preferisce lasciarsi sempre aperta la ritirata? Molta gente oggi è diventata cronicamente incapace di liberarsi da dubbi e incertezze e sospetti; non si rende conto che per tutti viene il momento di volersi liberare dalla camicia di forza dell'egocentrismo una volta per tutte, cosa che è possibile soltanto mediante un impegno definitivo. La persona veramente innamorata non ha timore di perdere la propria libertà, bensì di perdere il proprio amore. Non la libertà di impegnarsi si dovrebbe temere, ma la libertà di recedere dal proprio impegno.
La libertà di cui si dovrebbe aver timore è la libertà di essere infedeli, che ci accompagna fino alla fine. È per questa ragione che l'amante umile sente la necessità di pregare: «Signore, fammi fedele»; è anche il motivo per cui coloro che recedono sono infelici, perché non solo hanno tradito coloro che dovrebbero esser loro cari, ma hanno anche tradito sé stessi. Essi non solo hanno perduto quelli, come sanno nel profondo del loro cuore, ma si sono rimessi nella camicia di forza abbandonando la via della realizzazione.
Quando le persone imparano ad amare e si rendono conto che, con la grazia di Dio, il legame fra loro non sarà mai rotto, allora comprendono meglio le parole di sant'Agostino sul gloriarsi del loro legame inscindibile.
L'indissolubilità e la procreatività sono i due grandi valori istituzionali del matrimonio che oggi sono visti come fardelli negativi, mentre sono la chiave per la vera realizzazione e per la felicità. Una coppia unita e felice è la migliore testimonianza della possibilità e del valore dell'amore come legame inscindibile, come una famiglia unita e felice è la migliore testimonianza della benedizione di avere dei figli.
Abbiamo visto alcuni aspetti del bene racchiuso in quella reciproca donazione di sé di un uomo e una donna che è il matrimonio. Ma nessun bene è contenibile; esso tende naturalmente a crescere. E questo è meravigliosamente vero nel piano di Dio. L'unione di due normalmente si espande in un insieme particolarmente unito di tre o quattro o più. L'impegno diventa naturalmente la famiglia. Quando arrivano i figli, una famiglia cambia. Il modello di crescita e la realizzazione del darsi e accettarsi l'un l'altro è allargato e intensificato, assumendo caratteristiche totalmente nuove. Diventando una famiglia, un matrimonio è più personalizzato, anche perché più persone sono coinvolte nella sfida arricchente della donazione-accettazione.
Ora marito e moglie devono non solo amare, aiutare e accettare l'un l'altro come co-sposi, ma fare le stesse cose anche come co-genitori. Continuano a derivare importanti conseguenze dall'identità sessuale. Il marito ha una nuova sfida da affrontare: imparare a essere padre. E la moglie, imparare a essere madre. E tutt'e due insieme, imparare a essere genitori, dai quali — insieme, o separatamente, o alternativamente — fluiscono l'autorità, la guida e il supporto di cui i figli hanno bisogno. Ora marito e moglie devono in verità ripartire daccapo a imparare, a questa scuola del dare e dell'accettare e dell'esigere. In questa scuola d'amore, i figli — accettati incondizionatamente dall'amore dei genitori — gradualmente imparano ad amare i propri genitori e, ancor più gradualmente, ad amarsi fra loro. Nella sua Lettera alle Famiglie del 1994, il Papa dice: «L'amore è vero quando crea il bene delle persone e delle comunità, lo crea e lo dona agli altri [...] L'amore è esigente [...] Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente, perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia» (n. 14).
Qui la natura ci è di notevole aiuto. È naturale per i genitori amare i figli. Si potrebbe dire che sia anche naturale per i figli amare i propri genitori, ma non è altrettanto facile (in parte perché i genitori non sempre amano saggiamente o si rendono amabili). Forse è per questo che esiste un comandamento che ordina ai figli di amare i genitori, mentre il Decalogo non contiene un simile comando ai genitori di amare i loro figli.
Quando i genitori viziano i loro figli dando o lasciando loro troppo, non solo non li amano, ma generalmente non ne sono amati. Non si ama una persona se non se ne ha rispetto. E non si rispetta una persona senza ideali, che tollera nulla o tutto, che non ha princìpi o ha paura di mantenervisi fedele quando è necessario, nonostante le proteste altrui. Coloro che hanno paura di esercitare l'autorità, la perdono. Questo può accadere nel governo civile, nella Chiesa e nella famiglia.
Si può dire che sia naturale per fratelli e sorelle amarsi reciprocamente? Forse non inizialmente, almeno a detta di alcuni psicologi infantili. L'atteggiamento di un fratello maggiore è spesso quello della possessività e del dominio, o anche di gelosia.
I genitori devono fare attenzione a non avere favoritismi, o almeno a non farlo trasparire. L'amore dei genitori dovrebbe porsi al di là delle preferenze. Ogni figlio è, allo stesso modo dei fratelli e delle sorelle, figlio dei suoi genitori, e peraltro è diverso dagli altri. L'amore dei genitori dev'essere lo stesso per tutti, e allo stesso tempo si esprime a ciascuno in modi diversi secondo il momento. Questo è ciò che il beato Josemaría Escrivá voleva dire quando parlava di amare figli uguali in modo disuguale; in altre parole, con una giustizia «variabile» (cfr Amici di Dio, n. 173).
Alla madre di Napoleone, che ebbe otto figli, domandarono una volta chi di loro fosse il suo favorito. La sua risposta fu: chiunque ne abbia più bisogno. Non che evitasse diplomaticamente di scegliere; stava semplicemente parlando da madre. Nel vero ordine dei valori familiari, il figlio che ha bisogno di più amore è quello che ne ha di più (e dal quale si esige di più in proporzione). I genitori che conoscono i loro figli sanno che quello che ha più bisogno di amore tende costantemente a variare.
È a tutti familiare l'antico detto così pieno di verità: «La famiglia che prega insieme, sta insieme». Mi sia consentito di completarlo con un altro che a prima vista può sorprendere: «La famiglia che lotta insieme, sta insieme».
Intendo questo non solo nel senso umano paradossale che qualche scaramuccia familiare, come qualche litigio coniugale, sia inevitabile; e che — una volta risolto — alla fine serve a cementare l'amore. Per risolverlo occorre umiltà: nulla di meglio per aprirci e per liberarci dall'egocentrismo. Ma intendo anche nel senso che oggi ogni famiglia cristiana è un posto di combattimento nella lotta per portare il mondo a Cristo e dev'essere consapevole della propria condizione di «truppa d'assalto», della propria responsabilità di «avamposto», non solo per evitare di perdere terreno, non solo per difendersi, ma per avanzare, per guadagnare terreno — e gente — a Cristo, il quale è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11, 52).
Immagino e spero che voi che leggete abbiate spesso riflettuto sulla potenza di qualcosa che senza dubbio accade fra le persone a voi vicine. Parlo del colossale impatto che subiscono un ragazzo e una ragazza provenienti da una famiglia con uno o due figli quando vengono in contatto con una famiglia dove ci sono quattro o sei o dieci figli. Essi imparano una quantità di cose che non s'impara mai da alcun manuale: che quelle persone sono capaci di cavarsela, che possono essere molto unite fra loro senza essere identiche, che i litigi si devono superare, che ciascuno può avere una propria strada, che il non perdonare o non chiedere perdono lascia sempre più soli.
Quando spieghi ai tuoi figli la necessità di imparare a cavarsela nella vita di famiglia, non aver timore di precisare gli enormi svantaggi dei loro amici che provengono da famiglie con un solo figlio, che hanno più cose, ma scarse occasioni per imparare a condividere la vita. Dì ai tuoi figli che cavandosela essi portano Cristo nella famiglia e, attraverso di loro, nelle famiglie dei loro amici.
Mobilita i tuoi figli per Dio, in una benedetta battaglia per dare una scrollata alla gente, per svegliarla e renderla consapevole e per rendere libero il mondo. Dì loro che, poiché sono ricchi in Cristo, essi sono in grado di dare un milione di dollari e più ancora ogni giorno a quelli che stanno intorno a loro. Mentre cercano di arricchire sé stessi in nostro Signore — attraverso la preghiera e i sacramenti — essi possono aiutare la povertà dei loro amici, le vite dei quali hanno scarso supporto e carenza di ideali perché non conoscono Cristo.
Conosco famiglie nelle quali si fanno regolari incontri per programmare l'evangelizzazione del vicinato. Vi si ricevono rapporti dai diversi fronti (liceo, università), si richiedono iniziative, si discutono errori; si riflette insieme su come mai, poiché siamo solo strumenti di Dio, i nostri errori non contano, perché Egli è molto abile nel girarli a buon fine; Egli trova strumenti particolarmente adatti in coloro che non hanno timore di farsi giullari per Lui, di esser messi in imbarazzo e di acquistare così una «santa sfrontatezza». Dove si chiede a ciascuno quali pensa possano essere i problemi dei suoi amici, chi è il più solo, che cosa si può fare per aiutarlo o aiutarla...
Sì, «la famiglia che lotta insieme»... Prego perché ognuna delle vostre famiglie, dovunque siate situati, sia una sorgente di «gratuità per tutti», in cui lo scopo sia «libertà per tutti»: la libertà di dare e di amare. Hai bisogno di renderti conto della tua missione umana e divina; di riempire la tua vita matrimoniale e familiare di effettiva vitalità, col vivere i valori familiari che sono in rotta di collisione — una collisione provocatoria e piena di affetto — con la perdita di vitalità e di valori che sta intorno a noi. Il fatto che tu viva di questi valori, con la componente della Croce che essi implicano, può inizialmente essere uno «scandalo» per gli altri; ma la gioia che ti dà, come mezzo di santificazione personale, mostrerà anche agli altri la strada della propria realizzazione: anzi, della salvezza.