Personalismo o individualismo?
E' un luogo comune affermare che nella disciplina del matrimonio del nuovo Codice si riflette il personalismo del Concilio Vaticano II. A mio avviso se ciò si può considerare vero per i cc. 1055 e 1057, per esempio, bisogna invece ridimensionare l'affermazione - molto ricorrente - che la maggiore importanza prestata oggi al consenso matrimoniale costituisca un'ulteriore espressione di questo personalismo. Ci sono, di fatto, nel diritto matrimoniale, per lo meno negli ultimi secoli, poche cose così costanti come la posizione di primaria importanza attribuita al consenso personale. Mi sembra più esatto affermare semplicemente che in relazione al tema in questione gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dalla tendenza ad aumentare i requisiti per il consenso, ampliando conseguentemente anche i motivi di incapacità consensuale.
Questa tendenza senza dubbio può essere interpretata in termini personalisti, nel senso che logicamente sono necessarie una consapevolezza della propria personalità e una libertà psichica di disporre di sé maggiori rispetto al passato, se l'uomo e la donna devono essere capaci della mutua autodonazione nel "consortium totius vitae", nel quale secondo la Chiesa, consiste l'essenza del matrimonio (cfr. per esempio, Bersini, F.: Il Nuovo Diritto Canonico Matrimoniale, Torino, 1985, p. 92). La tesi appare sufficientemente valida se si applica a certe innovazioni contenute nel Capitolo sul Consenso Matrimoniale (il canone 1098, per es., sul dolo), ma non ugualmente valida se si vuole applicare, senza un'altra specificazione, al più importante dei nuovi canoni: il 1095.
Considero senz'altro questo canone come uno dei più rilevanti del Codice attuale; e sono convinto che la sua giusta e adeguata applicazione servirà per proteggere diritti fondamentali dei fedeli. Ciònonostante ritengo che una parte non insignificante della dottrina canonica e della giurisprudenza che ha avuto peso nella formulazione di questo canone sia stata influenzata da tendenze che non sono proprie del personalismo cristiano.
Penso in particolare che l'applicazione abusiva del canone 1095 - ove ricorresse - non corrisponderebbe ad un autentico personalismo cristiano, ma piuttosto all'individualismo secolare ed al culto psicologico dell'"io", molto presenti nei valori non cristiani dei nostri giorni. Bisogna tenere presente, in questo contesto, che una delle caratteristiche più salienti dell'individualismo è l'atteggiamento di sospetto e di chiara ostilità verso qualsiasi vincolo duraturo. L'idea di una scelta permanente e irrevocabile è estranea all'individualismo che la considera alla stregua di una minaccia per l'autonomia della persona umana. Per converso il cristianesimo vede, nella scelta definitiva di un valore genuino, una delle principali espressioni della dignità e della libertà della persona, oltre che una condizione essenziale per la sua maturazione.
Lo spazio non consente di dilungarsi su questo punto. Vorrei, tuttavia, richiamare almeno l'attenzione sulla possibilità che, dietro l'interpretazione che molti giudici e avvocati ecclesiastici fanno di questo canone, vi sia non tanto un accresciuto apprezzamento della persona umana, quanto un maggiore scetticismo rispetto alla capacità dell'uomo stesso di fare una scelta libera e responsabile di qualcosa tanto naturale come il matrimonio, oltre che un pessimismo sulla sua capacità di mantenersi fedele all'impegno assunto.
Alla radice di ciò che Giovanni Paolo II nel suo discorso alla Rota Romana del 1988, definì una "indebita sopravvalutazione del concetto di capacità matrimoniale" (AAS LXXX (1988) 1183), bisogna intravvedere prima che una consapevolezza più profonda della dignità umana, una recondita sfiducia in ciò che riguarda la maturità della persona umana e/o la sua capacità di autodeterminazione.
Senza dubbio occorre riconoscere che era urgente introdurre nuovi e più validi motivi per impugnare la validità del consenso matrimoniale in quei casi non adeguatamente contemplati dal vecchio Codice. Tuttavia, accontentarsi soltanto di applicare le nuove norme intendendole superficialmente, potrebbe condurre a causare un bilancio ecclesiale negativo, mentre è necessario compiere tutto un lavoro eminentemente positivo che, sebbene non sia propriamente canonico, i canonisti dovrebbero tenere sempre presente. Si tratta di ricreare la mentalità secondo cui è connaturale all'uomo tendere verso la donazione coniugale (e non temerla), per cui il consenso matrimoniale costituisce uno dei modi di esercizio più naturali della libertà umana.
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Se si considera il matrimonio come una delle istituzioni più consone alla natura umana, allora l'incapacità consensuale nel caso di un adulto che goda di uso sufficiente di ragione è un fenomeno completamente fuori del normale o del naturale. L'incapacità di apprezzare gli obblighi essenziali del matrimonio, così come quella di assumerli, è un "handicap" straordinario ["incapacitas quid extraordinarium haberi debet" Pompedda, M.: "Incapacitas Adsumendi Obligationes Matrimonii Essentiales" (Periodica LXXV (1986) 138-140)], che può verificarsi solo nel caso di una persona seriamente "invalida" alla quale, di conseguenza, si toglie l'esercizio del diritto naturale di contrarre matrimonio (c. 1058) [1].
Non sorprende pertanto constatare che il legislatore, nel canone 1095, ha condizionato le norme che regolano l'incapacità consensuale in due modi:
a) l'incapacità ha rilevanza giuridica solo in relazione ai diritti/obblighi essenziali del matrimonio;
b) l'incapacità ove non consista semplicemente nella carenza del sufficiente uso di ragione deve essere originata da una condizione patologica grave.
Il primo di questi due punti è specificamente espresso nei numeri 2 e 3 del canone. Ad ogni modo il codice non indica in nessun punto quali siano questi diritti/obblighi essenziali, e la stessa giurisprudenza rotale non è ancora pervenuta ad un chiaro consenso circa il suo contenuto. Il secondo punto secondo cui l'incapacità deve avere origine da una patologia seria viene messo in discussione da alcuni. Penso, tuttavia, che si possa dimostrare che corrisponde sia alla "mens legislatoris" che all'importanza dei diritti naturali in gioco. Consideriamo ora ogni punto separatamente.
L'incapacità deve riguardare i diritti/obblighi essenziali del matrimonio
La capacità consensuale per il matrimonio significa la capacità d'instaurare un'autentica relazione coniugale. L'incapacità consensuale significa l'incapacità di conferire/accettare i diritti/obblighi che sono essenziali per la costituzione del vincolo coniugale: essa deve pertanto riferirsi al minimo contenuto giuridico essenziale del "sese tradere" che il c. 1057, § 2 identifica con l'oggetto del consenso matrimoniale.
Le analisi che mi sembrano più attendibili fanno coincidere questo minimo contenuto giuridico essenziale con quello dei tre "bona matrimonialia" agostiniani che caratterizzano essenzialmente il matrimonio [2]. Pertanto una persona risulta consensualmente incapace se, rispetto ai diritti/obblighi essenziali inerenti a: a) la fedeltà al "unus coniux"; b) la partecipazione alla complementare procreatività coniugale; c) l'assunzione di un vincolo coniugale permanente, non è in condizioni di comprendere e valutare minimamente alcuno di questi diritti/obblighi, e/o di compierli.
Ma, si potrebbe obiettare, il c. 1101, paragrafo 2, quando distingue: "il matrimonio stesso", un "elemento essenziale" e "una proprietà essenziale" (del matrimonio), non suggerisce chiaramente che esistono altri elementi essenziali del matrimonio, oltre le sue proprietà? Pare di si, anche se né la dottrina né la giurisprudenza sono d'accordo su quali possano essere tali elementi.
Secondo me, se il "bonus prolis" nel senso della procreatività non viene classificato come proprietà essenziale del matrimonio (come credo dovrebbe classificarsi [3], allora va considerato un elemento essenziale.
Non è forse doveroso considerare la "communitas vitae" come un "elemento essenziale" del matrimonio, che darebbe origine a diritti/obblighi essenziali che devono scambiarsi con il consenso? Come è noto, l'espressione "ius ad communitatem vitae non è stata accolta nello schema del c. 1101, § 2; e nel nuovo Codice non viene impiegata in nessun punto, sia per la difficoltà di definirla giuridicamente che per la sua evidente ridondanza. La "comunità di vita" in questione è una "comunità di vita coniugale; pertanto non è un elemento del matrimonio, ma il matrimonio stesso, in quanto sinonimo del "totius vitae consortium" del c. 1055 (cfr. Communicationes 15 (1983) 233-234).
Già nella sua nota Sentenza del 25 febbraio 1969, Mons. Anné segnalò la difficoltà di specificare quali siano gli elementi essenziali della "communio vitae" (SRRD, vol. 61, p. 185), ed i venti anni trascorsi hanno suffragato e confermato questa difficoltà. Gli intenti giurisprudenziali rivolti a dimostrare come la "communio vitae" sia un elemento essenziale indipendente sono palesemente falliti; ritengo pertanto che qualsiasi ulteriore proposizione della medesima tesi in assenza di nuovi e gravi argomenti si possa difficilmente giustificare.
Altri elementi caratterizzanti una relazione umana interpersonale, perfino in un contesto più strettamente coniugale (per es. la capacità di giungere ad un accordo armonioso sulla educazione dei figli), sono auspicabili ma non essenziali. Si tratterebbe comunque come in tanti altri esempi che potrebbero farsi di un "aliquid elementum" del matrimonio, e non di un "elementum essentiale".
Gli obblighi essenziali che vanno accettati si riferiscono necessariamente all'immutabile essenza del matrimonio: l'unione permanente esclusiva e aperta alla procreazione di due persone di sesso diverso. Questa unione di persone comprende due personalità in evoluzione. Possiamo aggiungere, pertanto, che una persona, con il consenso, necessariamente accetta le possibili evoluzioni dell'altra, "nel bene o nel male"... L'eventuale evoluzione verso qualunque stato di malattia, senza escludere la malattia psichica "superveniens" deve entrare concretamente nelle possibilità che un coniuge accetta prestando il consenso al matrimonio.
Occorre chiedersi se i fini del matrimonio costituiscono oggetto dei suoi obblighi essenziali. A questo riguardo ritengo che, se essi lo sono, lo sono soltanto mediatamente, cioé in dipendenza degli obblighi contenuti nei "bona". Per quanto concerne la procreazione, per esempio, c'è un obbligo essenziale di formare un'unione procreativa, ossia "aperta alla vita", ma non esiste un obbligo essenziale di procreare di fatto.
Rispetto al "bonum coniugum", esso a mio avviso consiste fondamentalmente nella maturazione dei coniugi per raggiungere il fine ultimo della vita umana (cfr. C. Burke, op. cit.: The Jurist, p. 706-708; Apollinaris, pp. 562-563): la "salus animarum coniugatarum", a cui tende specificamente il matrimonio, quando lo si vive in pieno accordo con le sue proprietà essenziali.
Un'incapacità deve coincidere con una grave patologia
Spesso si leggono affermazioni inesatte che sembrano riferire l'incapacità soltanto ai casi contemplati nel n. 3 del c. 1095; e - ciò che è più importante - limitare il requisito di un'evidente psicopatologia esclusivamente ad essi. Altri più correttamente sostengono che il difetto di discrezione, non meno che l'incapacità di assumere, invalida solamente se deriva da una condizione patologica diagnosticabile (cfr. c. Bruno, 22 febbraio 1980 (vol. 72, p. 128); c. Pompedda, 16 dic. 1985 (vol. 77, p. 586)).
Di fatto tutto il canone 1095 tratta dell'incapacità (cfr. Sent. c. Boccafola, 23 giugno 1988, n. 6 (Ius Ecclesiae, II, 1 (1990), p. 143)); inoltre i discorsi tenuti dal Papa alla Rota Romana, negli anni 1987 e 1988, senza porre distinzione tra i nn. 2 e 3 del canone 1095, insistono sul fatto che l'incapacità deve essere il risultato di una grave anomalia che colpisca le facoltà spirituali dell'uomo: l'intelligenza o la volontà. In seguito alle parole del Papa, è indubbio che, a prescindere dalle classificazioni tecniche o mediche, solo un disordine o patologia seria della "psiche" umana può invalidare il consenso.
"Una vera incapacità è ipotizzabile solo in presenza di una seria forma di anomalia che, comunque la si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente la capacità di intendere e/o di volere del contraente" (Allocuzione alla Rota Romana, 5 febbraio 1987, (AAS LXXIX (1987) (1457)). E' giusto aggiungere che questa autentica interpretazione viene a riconfermare principi già ampiamente esposti nella giurisprudenza rotale [4].
Alla luce dei discorsi del Papa, mi sembra legittimo cercare di proporre i seguenti principi:
a) I Tribunali ecclesiastici devono attribuire importanza solo relativa alla terminologia che il perito o i periti usano per descrivere una condizione psicologica (E' evidente che, nonostante gli psichiatri e psicologi stiano costantemente cercando una terminologia comune e stabile, non l'hanno ancora trovata). Sembra che non si possa diversamente interpretare la frase del Papa: "comunque la si voglia definire".
b) Soltanto una grave anomalia psichica o psicopatologica, comunque la si voglia definire, rende incapace; e per essere grave deve intaccare sostanzialmente la capacità di intendere e/o di volere del contraente. Mi sembra che, considerata l'esistenza di molteplici scuole che caratterizzano la psichiatria e la psicologia clinica moderna, il Papa intenda qui ammonire i giudici ecclesiastici sulla convenienza di cercare una nozione più giuridica di ciò che rappresenta una grave psicopatologia incapacitante, tale che la giurisprudenza sia in condizioni di ricorrere ad essa, indipendentemente dalla terminologia che i professionisti possano usare per descrivere una condizione concreta.
c) La prova giuridica della presenza di una seria psicopatologia che origini l'incapacità consensuale deve provenire - prima di tutto e essenzialmente - dagli Atti e non dalla perizia. Rientra nella competenza e nella responsabilità del giudice valutare gli Atti, per vedere se vi si scorge la presenza di un'anomalia che intacchi sostanzialmente l'intelligenza o la volontà del contraente: in ciò consiste il suo stesso compito giudiziale. Le opinioni dei periti, ove siano state richieste, devono considerarsi, in conformità con il c. 1579, semplicemente alla stregua di un elemento in più - certamente qualificato - della istruzione del caso.
d) Non intendo suggerire che il giudice possa sempre prescindere dalle prestazioni del perito: desidero solo sottolineare che deve essere più professionale nell'invocare o valutare una perizia. Per tale questione è importante rammentare che non tutte le cause che si vorrebbero introdurre sotto il capitolo di incapacità consensuale devono essere automaticamente accettate; il giudice può e deve rifiutare la petizione ove gli allegati appaiono privi di ogni fondamento (c. 1505,§ 2, 4º). Ma anche quando la petizione è accettata e segue il processo, se non si allega nelle prove qualcosa che possa dimostrare la presenza di una grave anomalia psichica, il giudice o i giudici possono rinunciare alla richiesta di un parere periziale, in quanto non è necessario: soltanto quando il giudice o i giudici hanno positivi e seri dubbi sul tema oggetto della controversia è il caso di ricorrere al parere di un perito (c. 1680).
e) Una decisione "Affermative", in una causa che tratta di incapacità consensuale, deve essere sostenuta da una perizia: perché, come sostiene il Papa, deve dimostrarsi che era presente, una "seria anomalia psichica". Una decisione "Negative", invece, non deve necessariamente essere avallata da una perizia.
f) Pertanto, mentre un tribunale può emettere una decisione "Negative" contro le conclusioni periziali (cfr. cc 1579, § 2, e 1680), non può affermarsi lo stesso per il caso contrario: i.e. una dichiarazione di nullità quando dalla perizia non risulti nessuna diagnosi di anomalia psichica grave.
g) Infine, se c'è una palese contraddizione tra varie opinioni periziali, il giudice si trova in una posizione ancora più critica. E' possibile dimostrare che una opinione è ampiamente appoggiata dagli Atti, mentre l'altra non lo è assolutamente, anche se tale eventualità è concretamente poco probabile. Nella pratica tale contraddizione tra i periti sembra condurre ad uno stato di incertezza tale da rendere obbligatorio il ricorso al c. 1060.
Le cause introdotte sotto il c. 1095 sono più "facili" da trattare?
Mi ha sempre lasciato piuttosto perplesso il fatto che alcuni giudici e avvocati diano l'impressione di considerare che l'incapacità consensuale contemplata nel c. 1095 offra una base "facile" per le cause di nullità.
Non è mai facile pervenire alla certezza morale della nullità di un matrimonio a motivo del vizio del consenso, poichè ciò richiede un giudizio attuale sulla validità di un atto interno posto in essere cinque, dieci o venti anni prima. La valutazione giudiziale di fatti esterni è sempre difficile; ma, se il fatto da sottoporre a giudizio è interno, le difficoltà aumentano enormemente. Provare per esempio la simulazione - come ben sa qualunque giudice con un pò di esperienza - raramente è facile. Mi sembra evidente che - se si considera l'argomento con un poco di serietà giuridica -la prova dell'incapacità consensuale sia molto più difficile. Quando si tratta una causa di simulazione, una decisione affermativa dipende dalla prova della deliberata esclusione, da parte di uno dei contraenti, di qualche proprietà essenziale del matrimonio. Questa prova dipende - normalmente e naturalmente - dalla "confessio simulantis", poiché il supposto simulatore è l'unico che può veramente conoscere la propria intenzione al momento del consenso. La sentenza, in caso di simulazione, è una decisione sulla reale intenzione di una persona, sulla base delle sue affermazioni ed alla luce delle rimanenti prove [5].
Ebbene, il caso di incapacità consensuale presenta alcuni punti di somiglianza con la simulazione, ma altri, e molto evidenti, punti di contrasto. Anche trattandosi del c. 1095, il tribunale, probabilmente dopo molti anni, deve esprimere un giudizio su uno stato mentale interno situato in un determinato momento del passato. In altre parole, deve proiettarsi indietro nel tempo, per stabilire con certezza morale che cosa sia realmente accaduto nella "psiche" della persona al momento del consenso. E' questo il punto di somiglianza. Il punto di contrasto, invece, è che il tribunale deve stabilire non ciò che la parte realmente si è proposta di scegliere (un vero matrimonio o no), ma il fatto che era incapace di scegliere ciò che realmente si era proposto. Quanto al simulatore, la tesi è che si era proposto qualcosa di diverso da un vero matrimonio. Per quanto riguarda la parte incapace, la tesi è che, essendosi proposta un vero matrimonio - essendo addirittura convinta di contrarre un vero matrimonio - risultava, per ragioni delle quali era totalmente incosciente, incapace di farlo.
Pertanto l'argomento della incapacità consensuale, sottoposto ad una seria considerazione giuridica, offre notevoli difficoltà, e deve considerarsi tutt'altro che "facile" [6]. Naturalmente il caso è diverso se esiste una storia medica pre-matrimoniale di anomalia psichica, con qualche tipo di trattamento psichiatrico, o se la parte, poco dopo le nozze, cominciò a mostrare sintomi di qualche grave psicopatologia. Se non interviene alcuno di questi due presupposti, è francamente difficile capire come un giudice possa pervenire alla certezza morale dell'esistenza - dopo dieci o venti anni - di un "handicap" così anormale come l'incapacità di dare il consenso al matrimonio [7].
Patologia e normalità
Così come si comprende e si studia il disordine in relazione all'ordine, anche la patologia (l'anormalità fisiologica o psichica) può solo intendersi ed essere oggetto di studio e di discussione in riferimento alla normalità. A volte, esagerando, dico che l'anormalità è un'invenzione della psicologia moderna... Penso di non esagerare affatto sostenendo che il concetto di normalità proposto da quasi tutta la psichiatria contemporanea e la psicologia clinica non può essere accettato dalla antropologia cristiana.
Il Papa ha ricordato alla Rota nel 1988: "E' nota la difficoltà che nel campo delle scienze psicologiche e psichiatriche gli stessi esperti incontrano nel definire, in modo soddisfacente per tutti, il concetto di normalità. In ogni caso, qualunque sia la definizione data dalle scienze psicologiche e psichiatriche, essa deve essere sempre verificata alla luce dei concetti della antropologia cristiana..." Per il canonista, che si basa su questa visione cristiana, il Papa ha così continuato : "il concetto di normalità, e cioè della normale condizione umana in questo mondo, comprende anche moderate forme di difficoltà psicologica" (AAS vol. LXXX (1988), 1180-1181).
La psicologia moderna ha svolto uno studio profondo sui difetti della personalità e tende a far consistere la norma della personalità umana nel suo essere libera da qualunque di questi difetti. Il cristiano sa che tale norma è irreale su questa terra. Per il cristiano le personalità "normali" comprendono quelle che sono leggermente o moderatamente difettose. Soltanto quelle gravemente difettose sono tanto anormali da essere incapaci. Avere "una qualche" anormalità, di conseguenza, rientra necessariamente nella "norma" cristiana della normalità ("ad valide contrahendum perfecta sanitas psychica non requiritur... cum nullus homo a levibus saltem defectibus personalitatis immunis evadat": c. Bruno, 17 dicembre 1982: ARRTD, vol. 74, p. 651)).
Di conseguenza non posso condividere l'opinione di Bersini quando include, nel c. 1095, 2, "tutto l'insieme di disturbi psichici che sono al limite tra il patologico ed il normale" (op. cit., p. 94). La demarcazione tra ciò che facilmente può classificarsi come "normale" e ciò che necessariamente deve classificarsi come "gravemente patologico" è enorme; e non è lecito privare del diritto di sposarsi chiunque si trovi dentro questi limiti. In altre parole un gran numero di persone è "normalmente anormale" e il privarli dei loro diritti umani e ecclesiali comporterebbe un'innegabile violazione della giustizia.
Una parte non insignificante della psichiatria moderna ritiene che, una volta provata l'anormalità, si può e si deve concludere che essa è stata sempre presente nella persona [8]. Non sono psichiatra né figlio di psichiatra e mi manca la competenza per sapere se questa opinione abbia qualche solida base scientifica. Comunque, dal punto di vista dell'antropologia cristiana non ho nulla da obiettare a tale tesi, purché il punto di partenza sia che, entro certi limiti, siamo tutti anormali (Come conseguenza di quella anomalia "costituzionale" che il cristianesimo chiama peccato originale). Non si può invece concludere che una lieve normalità debba converirsi inevitabilmente in un'anormalità grave né tantomeno che una grave anormalità "superveniens" provi che la (lieve) anormalità esistente al momento del consenso costituisca incapacità.
Incapacità relativa o assoluta?
Bisogna premettere che esiste una certa ambiguità nell'uso del termine "relativo", applicato all'incapacità:
a) "incapacità relativa" normalmente evoca la tesi secondo cui la capacità per il matrimonio deve misurarsi non "in astratto" in relazione al matrimonio in sé, ma "in concreto", riferita cioé all'unione con la persona concreta che si è scelta come consorte;
b) ma si può parlare anche di incapacità relativa nel senso di incapacità "parziale" o perfino temporale. E allora può sorgere il dubbio: esiste un'incapacità parziale che invalida? Oppure l'incapacità invalidante deve essere assoluta o totale? Deve esserlo anche in termini di tempo?
La teoria dell'incapacità relativa, nella prima accezione, è sostenuta da alcuni giudici. Mons. Serrano è stato il suo principale sostenitore nella Rota Romana, nonostante abbia incontrato scarso sostegno tra i suoi colleghi [9]. D'accordo con la tesi secondo la quale il matrimonio è essenzialmente una relazione interpersonale, egli sostiene che, per determinare la capacità consensuale, non basta esaminare le personalità dei coniugi separatamente (l'uno dall'altra), ma va esaminata prima di tutto la loro capacità di stabilire questa relazione interpersonale essenziale.
Non trovo alcuna base solida né nel diritto né nella teologia o antropologia cristiane, che faccia da fondamento a questa teoria. L'incapacità consensuale è l'incapacità nei confronti dei diritti/obblighi del matrimonio nella loro essenza giuridica. Essa implica incapacità per il matrimonio considerato essenzialmente, in sé, e non a livello esistenziale, con riferimento al "partner" concreto che si è scelto [10]. L'incapacità consensuale va vista in relazione al matrimonio e non al coniuge. E' una incapacità "persona-istituzione, e non persona-persona" [11].
La teoria interpersonalista conclude, a partire dal fallimento del matrimonio "in facto esse", l'invalidità del matrimonio "in fieri". Se, con il passare del tempo, un coniuge si dimostra capace di un matrimonio "realizzato" - nel suo aspetto di relazione interpersonale - , aveva capacità consensuale dall'inizio; se non si dimostra capace in questo senso, non l'aveva. Il criterio probatorio è il risultato: un matrimonio fallito prova l'incapacità; uno felice o riuscito prova la capacità. Si crea un vincolo, che se non funziona si può sciogliere: è qui evidente che i presupposti non conducono logicamente alla nullità, bensì al divorzio. Mentre è possibile, almeno teoricamente, ideare il modo di provare - prima del matrimonio - l'adeguata discrezione di giudizio dei fidanzati, ritengo invece che l'incapacità relativa può essere verificata solo a posteriori. E ciò comporterebbe, in fondo, canonizzare una prassi pastorale di matrimonii "di prova".
Il difetto fondamentale della teoria "interpersonalista" del matrimonio consiste nel non determinare concretamente l'essenza della interpersonalità coniugale. La teoria dell'incapacità relativa sbaglia nello stesso punto. Poiché non è riuscita a determinare quali siano i diritti/obblighi essenziali, propri dell'interpersonalità, non serve all'applicazione del c. 1095.
E' evidente che la validità del consenso matrimoniale esige la capacità di un tipo concreto di relazione: la relazione coniugale, caratterizzata da determinati obblighi - esclusività, procreatività, permanenza - verso l'altro coniuge, chiunque egli sia. Esige la capacità di instaurare una relazione secondo l'essenza del matrimonio; ma non in riferimento ad un tipo concreto di persona. Misurare la capacità secondo il tipo di coniuge che si è scelto, significa sottomettere il vincolo matrimoniale alla compatibilità [12].
Di fatto l'incapacità relativa viene ad identificarsi con l'incompatibilità, concetto questo non accettabile per l'antropologia cristiana. Per me, l'"incompatibilità" non si distingue dalla "impossibilità morale", che a sua volta significa semplicemente la "estrema difficoltà" che una persona, dato il suo carattere, esperimenta per fare o osservare qualcosa. In una visione cristiana, facilmente si accetta che certe azioni o prestazioni presentino gravi difficoltà, ma mai che risultino moralmente impossibili. Nessun confessore accetta la scusa: "Ma, è che non posso perdonare a questa persona!" Si che puoi, con la grazia di Dio, e se vuoi... Se un matrimonio ha attraversato una grave crisi, può risultare moralmente impossibile mantenere la vita coniugale in comune; ma non è mai impossibile rispettare il vincolo matrimoniale.
Gli stessi psichiatri a volte sono scettici circa la validità del concetto di un'incompatibilità radicale tra due persone. In una Sentenza rotale dell'anno 1975, leggiamo la risposta di uno psichiatra: "La seconda domanda che mi si propone si riferisce al concetto della "incompatibilità essenziale". Che cosa si intende con questo? Se si vuole proporre l'idea di un'incompatibilità di fondo, immutabile e irrevocabile, allora dubito che essa esista" (c. Raad, 14 aprile 1975 (vol. 67, p. 258)).
Potremmo ora considerare la tesi secondo la quale la necessaria discrezione di giudizio comprende la corretta valutazione "obiettiva e soggettiva" dei diritti/obblighi reciproci nel matrimonio. La valutazione "obiettiva", in questa tesi, si riferisce ai diritti/obblighi in se stessi, mentre la valutazione "soggettiva" alla discrezione con la quale le parti riferiscono questi stessi diritti/obblighi al loro matrimonio in concreto. Questa tesi non trova fondamento nel Codice. Il canone parla di capacità di discrezione di giudizio rispetto ai diritti/obblighi essenziali del matrimonio, e non di un matrimonio in concreto. In ogni caso, la valutazione non deve essere "obiettiva" (è sempre soggettiva); deve essere normale o "minima", in relazione al matrimonio in sé.
Consideriamo adesso gli altri casi nei quali si parla a volte di "incapacità relativa", i.e. quando si usa "relativa" nel senso di "temporale" o perfino "parziale". Indubbiamente questo uso, sebbene improprio, non è raro; e quando accade ci costringe a cambiare i termini del discorso.
Vi è discordanza di pareri nella Rota circa la portata invalidante dell'incapacità temporale o transitoria. Ritengo che debba distinguersi chiaramente il 1095, 2, dal 1095, 3. L'incapacità consensuale, secondo il n. 2 del canone, va giudicata esclusivamente in relazione al momento stesso del consenso: la persona, in quel momento, era affetta da un'anomalia psichica tanto seria che la sua discrezione di giudizio circa i diritti/obblighi essenziali del matrimonio era gravemente difettosa? Se ciò è provato di fatto, non vedo perché si debba escludere la possibilità che la parte possa più tardi superare questa anomalia e, in questo modo, giungere ad acquisire la sufficiente discrezione di giudizio. Ebbene, la "incapacitas assumendi vel adimplendi", così come il grave difetto di discrezione, deve essere presente al momento del consenso; ma, a differenza di quest'ultima essa è, per sua propria natura, proiettata verso il futuro: si tratta pertanto di un'incapacità attuale di compiere obblighi futuri. La prova della "incapacitas assumendi", pertanto, dipende molto di più da deduzioni "a posteriori". Se la persona, durante la convivenza coniugale, non ha mai compiuto alcun dovere essenziale, ci può essere una base per concludere che era incapace di farlo. Al contrario, se effettivamente ha compiuto gli obblighi essenziali (sebbene in misura minima o parziale), allora - dal punto di vista logico, morale e giuridico - è impossibile concludere che ne era incapace al momento del consenso.
Un'ampia giurisprudenza sostiene che l'incapacità deve essere perpetua o permanente; vale a dire, non solo deve essere presente di fatto al momento del consenso, ma non deve presentare alcuna speranza di essere curata con mezzi ordinari e leciti [13]. Penso sia questa l'opinione preferibile.
E' evidente che il consenso o è assolutamente valido o non lo è per niente; non esiste un consenso "relativamente" o "parzialmente" valido. Similmente, l'incapacità o è assoluta - anche in termini di tempo - oppure non è autentica incapacità [14]. Teoricamente, così come ho la capacità di impegnarmi su ciò che posso compiere oggi - nonostante sia incerto se lo posso compiere domani - è chiaro, come segnala Sánchez, che sono capace di impegnarmi su ciò che non posso compiere oggi, ma che spero di poter compiere domani ("Qui enim in praesenti non est solvendo, cum tamen sit spes fore in futurum, potest ad solvendum obligari" (S. Sanchez, De sancto matrimonii sacramento, lib. VII, disp. 92, n. 2)).
Verosimilmente il tema risulterà più chiaro se passiamo dalla teoria al caso pratico. Quale esempio può addursi di una vera incapacità che invalida, anche quando la persona successivamente "diventi" capace? Di fatto, la ninfomania è frequentemente addotta. Se non sono d'accordo con la opinione secondo la quale, nonostante la successiva guarigione di una ninfomane, il suo precedente consenso matrimoniale era invalido, è per ragioni eminentemente pragmatiche. La guarigione successiva mi sembra confutare l'esattezza o il rigore della diagnosi - o altra "prova" - di un'autentica condizione di iperestesia sessuale al momento delle nozze. E' quindi giuridicamente impossibile raggiungere una certezza morale sul fatto che la persona in questione non poteva ("non valebat") assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.
In tal caso, sembra che il massimo che si possa provare è che, per un periodo, non ha compiuto di fatto un obbligo essenziale; più tardi, però, - per qualsivoglia ragione - lo ha compiuto. Forse le prove hanno indicato correttamente un certo grado pre-matrimoniale (o post-matrimoniale) di lassezza sessuale; in tal caso risulta scorretta la diagnosi o deduzione della irresistibilità, nel momento del consenso, dell'impulso verso la promiscuità (che è l'essenza della ninfomania). In altre parole, ciò che si riteneva un'incapacità è stata semplicemente una difficoltà che la persona, per un certo periodo (che includeva il momento del consenso), non voleva - e probabilmente ha pensato perfino che non poteva - superare; ma che più tardi, ponendo maggiore sforzo e utilizzando meglio i mezzi (anche indubbiamente quelli soprannaturali) ha saputo superare di fatto [15]. Comunque, mi sembra che, indipendentemente della possibilità di provare l'esclusione del "bonum fidei", non si può sostenere, in tal caso, l'incapacità consensuale.
L'incapacità temporale non invalida; né tanto meno, invalida l'eventuale futura incapacità. Se una persona ha una capacità consensuale attuale - conoscenza e volontà sufficienti per fare una scelta libera e vera - il matrimonio è valido. Tantomeno può invalidarlo un fattore "superveniens" che faccia si che sia moralmente impossibile mantenere il consortium coniugale. L'essere consensualmente incapace significa essere attualmente incapace: incapace, nel momento concreto, di consentire, di conferire diritti essenziali e/o di assumere obblighi essenziali; la possibilità latente ( o patente) che una persona possa diventare incapace, dopo alcuni anni, non può invalidare. Se così non fosse, nessuno potrebbe sposarsi validamente con una persona affetta da un tumore al cervello che, nel giro di 5 anni, sarà sicuramente in uno stato di demenza; o (per chi consideri l'educazione della prole un obbligo essenziale) non si potrebbe contrarre matrimonio valido con una persona condannata ad una pena capitale, poiché mai potrà adempiere la propria responsabilità rispetto all'educazione del figlio che può nascere da questa breve unione coniugale.
Vari gradi di patologia
Come abbiamo già precisato, il termine "relativo" si usa anche a volte per significare "parziale" quando si dice, per esempio che una persona è relativamente guarita da una malattia. Senza entrare nel merito sull'uso del termine, penso che tale uso ci potrebbe servire come punto di partenza per un'analisi più profonda, non solo della satiriasis o della ninfomania, ma anche di altre situazioni come quella dell'omosessualità, che è anche frequentemente addotta come motivo di nullità secondo il c. 1095. In alcuni tribunali si nota una crescente tendenza a concludere che queste situazioni sono necessariamente e assolutamente incapacitanti; penso che una riflessione più approfondita suggerisca che non è necessariamente così.
In questi casi conviene non perdere di vista due aspetti importanti: in primo luogo, queste condizioni costituiscono, senza alcun dubbio, seri ostacoli per il normale sviluppo della vita coniugale; in secondo luogo, queste sono tutte condizioni che ammettono dei gradi (cfr. c. Agustoni, 23 marzo 1982 (vol. 74, p. 127): vale a dire che possono essere presenti con maggiore o minore gravità.
Molti omosessuali hanno anche tendenze e capacità eterosessuali; in tal senso, essi non sono in senso assoluto omosessuali ma sono affetti per così dire, da un'omosessualità parziale o "relativa". Ugualmente, una persona può essere sessualmente debole o indulgente, senza che sia "assolutamente" promiscua. E' possibile, senza dubbio, affermare che queste persone sono "relativamente" incapacitate ad affrontare la vita matrimoniale. Ma allora dobbiamo ricordare la nostra antropologia cristiana fondamentale: tutti siamo relativamente incapacitati alla vita. Una incapacità "relativa", intesa in questo senso, non può invalidare il consenso matrimoniale.
Per provare l'incapacità, a mio avviso, non è sufficiente dimostrare che una persona, al momento del consenso, era affetta da qualche forma di omosessualità o ninfomania. Occorre provare che la sua condizione era tanto grave da renderla assolutamente incapace di un compimento minimo dei diritti/obblighi essenziali del matrimonio.
La giurisprudenza di opposta tendenza - vale a dire, l'esagerata tendenza ad incontrare un'incapacità in qualunque forma o grado di anormalità sessuale -sembra voler fomentare una politica discriminatoria e non cristiana nei confronti di ampie categorie di persone, con il rischio di escludere, alle persone sessualmente più deboli, la possibilità di contrarre matrimonio. Chi desidera vigilare sui diritti umani e ecclesiali di tutti, non può considerare con indifferenza questa possibilità.
Sia come moralista che come canonista non mi è mai stato gradito il termine "remedium concupiscentiae", che si impiegava anteriormente per descrivere un fine secondario del matrimonio. Ciò nonostante, esso non è un concetto del tutto irrilevante. Nella materia oggetto di discussione se non usiamo la massima cautela, possiamo effettivamente escludere dalla comunità cristiana persone che hanno particolari difficoltà in materia sessuale, negando loro l'accesso al Sacramento da cui forse potrebbero attingere le grazie necessarie per la loro salvezza.
Alcune riflessioni teologico-pastorali
Non vorrei concludere senza porre alcune brevi considerazioni sui possibili effetti dell'applicazione abusiva del c. 1095.
Alcuni affermano che esistono regioni in cui i cattolici possono ottenere un annullamento con la stessa facilità con la quale i protestanti conseguono il divorzio. Qualunque sia la verità, ritengo importante segnalare che il parallelismo - annullamento/divorzio - deve essere sottoposto ad'analisi adeguata, non solo sotto il profilo teologico, ma anche sotto quello pastorale.
Si è scritto molto circa l'effetto del divorzio facile sulla stabilità del matrimonio: il divorzio facile crea una situazione in cui la preparazione al matrimonio suole essere considerata con crescente leggerezza, e risulta che i matrimoni, di conseguenza, abbiano una maggiore propensione al naufragio, concludendosi con un divorzio. A quanto pare può affermarsi la stessa cosa per l'annullamento facile; ma giunti a questo punto ritengo che è doversoso esporre delle considerazioni ben più serie.
Gli acattolici, normalmente, non mettono in dubbio la validità del matrimonio che credono sciolto con il divorzio. E' vero che essi possono avere dei dubbi circa il felice esito della decisione di sposarsi; ma raramente ritengono che quella decisione rivelava, o si basava su una condizione psicopatologica. I loro figli soffrono a causa del divorzio; raramente tuttavia giungono a pensare che i loro genitori erano degli anormali, e mai viene loro in mente che i genitori non fossero veramente marito e moglie...
Ma stiamo riflettendo abbastanza su quanto sia diversa la situazione per i cattolici quando gli annullamenti per motivo di incapacità consensuale diventano cosa di ogni giorno? Due persone hanno convissuto per 5, 10 o 20 anni, ponendo in essere una relazione non-coniugale o pseudo-coniugale; i loro figli sono strettamente, se non tecnicamente, illegittimi ("i miei genitori non sono mai stati marito e moglie"); ed una delle parti, o entrambe, viene considerata come una persona che, al momento delle nozze, era patologicamente anormale o immatura...
Mi domando se il nostro clero in generale sia consapevole della situazione ecclesiale che una prassi di facili annullamenti tende a creare. L'annullamento è stato descritto come il "divorzio cattolico", ma ciò non è vero perché se esso non corrisponde a verità e giustizia, è molto peggiore del divorzio.
Vi invito a riflettere soltanto su questo punto: un protestante può, in buona fede, credere (e di fatto normalmente lo crede) che un vero matrimonio può essere sciolto dal divorzio. Un cattolico, invece, non può credere che un vero matrimonio si possa scioglire con l'annullamento. Un pastore protestante, pertanto, può - in perfetta buona fede - preparare al matrimonio una coppia che forse non vede sufficientemente matura. Egli può dire a se stesso (loro stessi perfino possono dirsi): se non riesce bene, c'è sempre il divorzio. Essi credono di contrarre un matrimonio perfettamente valido e in ordine; e che il loro divorzio - nel caso in cui avesse luogo - non signifecherebbe in assoluto che non sono mai stati sposati.
Un sacerdote cattolico non può, in buona fede, preparare una coppia ad una cerimonia nuziale, se ha dei dubbi sulla discrezione o capacità dei fidanzati, pensando (o, ciò che sarebbe ancora peggio, dicendo loro): se non riesce bene, potete sempre ottenere un annullamento. Ciò comporterebbe condurli, o consentire che vadano alla deriva, verso un "non-matrimonio", in cui mancherebbe loro tra le altre cose la grazia sacramentale, ed in cui le possibilità di insuccesso sarebbero enormemente moltiplicate.
NOTES
[1] c. 1058 - "Omnes possunt matrimonium contrahere, qui iure non prohibentur" - riafferma un diritto umano ed è alla base della diffusa presunzione giuridica a favore della piena capacità dell'adulto di contrarre matrimonio.
[2] "Prae oculis habendum est non quemlibet defectum sufficere ad matrimonii nullitatem declarandam, sed tantum debere esse, qui contrahentem liberae electionis peragendae vel trium bonorum essentialia onera assumendi incapacem reddat" (c. Pinto, diei 8 iulii 1974, SRRD, vol. 66, p. 501; cfr. c. Pompedda, diei 3 iulii 1979; c. Davino, diei 19 februarii 1981).
[3] cfr. C. Burke: "The Bonum Coniugum and the Bonum Prolis; Ends or Properties of Marriage?": The Jurist, 49 (1989):2, pp. 709-713. "Il «Bonum Coniugum» e il «Bonum Prolis»: fini o proprietà del matrimonio?": Apollinaris, LXII (1990), pp. 566-570.
[4] Molte Sentenze rotali, precedentemente ai discorsi del Papa, avevano già chiaramente espresso il contenuto essenziale di questi principi. "In causis matrimonialibus de invaliditate consensus ob quamdam mentis conditionem, graviter morbosam... haud necesse est ut perspicue definiatur species ultima morbi mentalis quo nupturiens laborat, dummodo de ipsa gravi mentis perturbatione morbosa plane constet" (c. Anné, 30 marzo 1971: vol. 63, p. 220). "Incapacitas ex gravi anomalia oritur vel psychica vel sexualis" (c. Pinto, 28 ottobre 1976 (vol. 68, p. 387). Perturbationes animi: "cum certae tamen sint et graviores... in moralem certitudinem de irrito matrimonio ducere queunt" (c. Serrano, 4 marzo 1977: vol. 69, p. 81). "Patet igitur ad praedictam incapacitatem agnoscendam requiri aut gravem psychicum defectum aut gravem psychopathiam" (c. Lefebvre, 21 gennaio 1978 (vol. 70, p. 48). "...Iuxta probatam N. F. iurisprudentiam solummodo gravem psychopathiam praepedire posse discretionem iudicii matrimonio proportionatam" (c. Di Felice, 14 marzo 1979 (vol. 71, p. 97). cfr. c. Parisella, 27 novembre 1980 (vol. 72, p. 740); c. Bruno, 18 aprile 1980 (vol. 72, p. 275; cfr. p. 128); c. Egan, 12 gennaio 1984 (vol. 76, p. 3); c. Stankiewicz, 11 marzo 1980 (vol. 72, p. 170); 22 marzo 1984, (vol. 76, pp. 175-176); c. Masala, 19 giugno 1984 (ib., p. 359-360); c. Giannecchini, 26 giugno 1984 (ib., p. 393); c. Pompedda, 25 novembre 1980 (vol. 72, p. 732); 16 decembre 1985 (vol. 77, p. 586), ecc. E' interessante risalire a 60 anni fa per vedere sottolineato lo stesso principio della necessaria presenza di una grave condizione patologica: "Neque ad excludendam libertatem satis est ostendere hominem infirmitate aliqua mentis laborare, sed probare oportet consensum, attenta gravitate morbi, praestari haud potuisse" (c. Massimi, 20 novembre 1931, SRRD, vol. 23, p. 464).
[5] E' vero che la nullità può dichiararsi anche in assenza della "confessio simulantis" e perfino nonostante una ferma "negatio simulantis", purché il resto degli Atti ponga il fatto della simulazione fuori da ragionevoli dubbi. Ma perfino in questo caso piuttosto raro, è chiaro che il giudice, alla luce di tutti i fatti e delle prove, sta decidendo quale fosse l'autentica intenzione della parte al momento del consenso.
[6] Forse è questa la ragione per cui gli avvocati italiani con il buon senso giuridico che li caratterizza, tendono ad evitare il motivo di incapacità consensuale e preferiscono quello della simulazione, quando come succede oggi così spesso il caso lo richieda.
[7] "Difficillime, morali cum certitudine, constare potest contrahentem iam tempore nuptiarum incapacem esse exsequendi officia substantialia coniugalia, nisi iam tempore celebrati matrimonii ille laboraverit gravi omnino nevrosi, in animo iam altissisimis inhaerente radicibus" (c. Anné, 15 aprile 1975: vol. 67, p. 291).
[8] "Nelle personalità abnormi il decorso è prettamente costituzionale. Personalità abnormi non si diventa, ma si viene concepiti, si nasce, si vive, si muore. Si tratta di una costituzione, cioé di un modo di essere innato nel soggetto" C. Ferrio, Trattato di psichiatria clinica e forense, Torino 1970, vol. I. p. 522.
[9] Lo stesso Mons. Serrano, riferendosi alla teoria in una recente Sentenza (Lafayatten. 26 maggio 1988, n. 4) cita soltanto qualche sentenza di Mons. Pinto a sostegno del suo punto di vista. Sentenze rotali che rifiutano la teoria comprendono: c. Raad, 14 aprile 1975 (vol. 69, p. 260); c. Di Felice, 12 novembre 1977 (vol. 69, p. 453); c. Lefebvre, 4 febbraio 1978; c. Agustoni, 20 febbraio 1979; c. Parisella, 15 marzo 1979; c. Bruno, 22 febbraio 1980 (vol. 72, p. 127); c. Fiore, 27 maggio 1981 (vol. 73, pp. 314-317); c. Pompedda, 19 febbraio 1982 (vol. 74, p. 90); c. Egan, 19 luglio 1984 (vol. 76, p. 471); c. Stankiewicz, 24 ottobre 1985 (vol. 77, p. 448ss.); c. Ragni, 24 maggio 1988, n. 5, ecc.
[10] Mons. Pinto sostiene che la discrezione necessaria per la validità esige deliberazione sui diritti/doveri essenziali, "non in abstracto sed in casu concreto considerata" (22 novembre 1985: vol 77, p. 538). Non condivido questa opinione: l'imprudenza o l'irresponsabilità nel contrarre matrimonio con una persona concreta, non può elevarsi al livello di una mancanza invalidante di discrezione circa gli obblighi essenziali del matrimonio. Cfr. c. Colagiovanni, 11 dicembre 1985 (vol. 77, p. 571).
[11] "sicuti connubii natura a voluntate hominum non pendet, ita pariter iura-obligationes essentialia matrimonii suam habent obiectivam vim et exsistentiam. Non igitur agendi et essendi ratio personarum moralem bonitatem et validitatem iuridicam confert actibus humanis, sed istorum conformitas cum ordine morali-iuridico obiectivo. Exinde, etiam capacitas eiusmodi... refertur ac referri debet non de subiecto ad subiectum, sed obiective ad matrimonii obligationes essentiales" (c. Pompedda, 19 febbraio 1982, loc. cit.)
[12] "Rotalis iurisprudentia docet agi debere de vera incapacitate neque tantummodo de mera difficultate, atque eandem verificari dumtaxat in casibus morborum psychicorum at non sufficere simplicem characteris incompatibilitatem" (c. Ewers, 4 aprile 1981: vol. 73, p. 221). Nella istruzione della causa, pertanto, bisogna respingere come "suggerentes" e completamente contrarie alla norma processuale (cfr. c. 1564) domande sui "tratti di personalità" delle parti, che a volte si propongono per il perito. Per esempio: "Sono/erano di tale natura tanto da essere distruttive della relazione interpersonale che è essenziale per la vita coniugale?"
[13] cfr. c. Pinto, 18 marzo 1971 (vol. 63, pp. 187-188), 15 luglio 1977 (vol. 69, p. 405), 12 febbraio 1982 (vol. 74, pp. 68-69), 3 dicembre 1982 (ib. p. 571); c. Lefebvre, 31 gennaio 1976 (vol. 68, p. 41); c. Parisella, 23 febbraio 1978 (vol. 70, p. 75); c. Ferraro, 28 novembre 1978, n. 10; c. Agustoni, 20 febbraio 1979, n. 13; c. Bruno, 30 marzo 1979 (vol 71, p. 121); c. Stankiewicz, 11 dicembre 1979 (ib. p. 552); c. Egan, 10 novembre 1983 (vol. 75, p. 608); c. De Lanversin, 8 febbraio 1984 (vol. 76, p. 91); c. Jarawan, 19 giugno 1984, (ib. p. 372); c. Doran, 1 luglio 1988 n. 11 (in Ius Ecclesiae II, I (1990), p. 163); c. Giannecchini, 20 dicembre 1988, n. 3; c. Ragni, 2 maggio 1989, n. 8; c. Palestro, 17 gennaio 1990, n. 7, ecc.
[14] "vitium hoc quod supponitur antecedens, requiritur etiam necessario perpetuum..., dum vere naturaliter incapax dici nequeat is, cui remanet sanationis possibilitas" (c. Lefebvre, 31 gennaio 1976: vol. 68, p. 41).
[15] Possiamo qui ricordare nuovamente le parole di Giovanni Paolo II alla Rota, nel 1987: "Per il canonista deve rimanere chiaro il principio che solo la incapacità, e non già la difficoltà a prestare il consenso e a realizzare una vera comunità di vita e di amore, rende nullo il matrimonio. Il fallimento dell'unione coniugale, peraltro, non è mai in sé una prova per dimostrare tale incapacità dei contraenti, i quali possono aver trascurato, o usato male, i mezzi sia naturali che soprannaturali a loro disposizione". (AAS, vol. LXXIX, 1457).