Annullamenti Matrimoniali & Personalismo Coniugale (Studi Cattolici, 458/59 (1999), 244-251)

            [La concezione personalistica del matrimonio, recepita dal vigente Codice di diritto canonico nella linea di una riflessione magisteriale che dalla enciclica Casti connubii giunge al Vaticano II, trova ancora difficoltà ad affermarsi pienamente nella prassi dei tribunali ecclesiastici relativa alle cause di nullità matrimoniale. Muovendo da questa costatazione Cormac Burke, giudice della Rota Romana, delinea i tratti del personalismo coniugale, chiarendo nella loro pregnanza umano-soprannaturale note essenziali come il bene degli sposi e la mutua donazione aperta alla vita, che sono precisamente i fini del matrimonio cristiano. È infatti proposito dell'autore liberare la nozione di personalismo coniugale dagli equivoci di un'avvolgente psicologia individualistica, infiltratasi anche tra gli operatori del diritto canonico, inclini talvolta a motivare le dichiarazioni di nullità matrimoniale ricorrendo alla genericissima categoria della incapacità consensuale. Dei tanti scritti di Cormac Burke segnaliamo Autorità & libertà nella Chiesa e La felicità coniugale, pubblicati dalle Edizioni Ares.]

            -----------------------

            La mentalità del nostro tempo è ostile al concetto cristiano di matrimonio e a qualsiasi vero impegno coniugale. Coppie in numero sempre crescente vivono insieme temporaneamente e quasi per caso, senza pensare a sposarsi, e all'apparenza senza comprendere che stanno escludendo dalle loro vite qualcosa di profondamente umano. Indubbiamente, non poche delle persone che convivono pensano a un'eventuale cerimonia o evento sociale che «formalizzi» la loro relazione, a patto che la convivenza si sia svolta con soddisfazione reciproca.

            Anche fra quelli che considerano ancora il matrimonio come lo scopo principale della vita, molti sembrano guardare all'attività sessuale come a un modo normale e naturale di esprimere l'attrazione amorosa prematrimoniale. Così distruggono, ovviamente, la possibilità che un effettivo matrimonio imprima alla loro relazione un carattere nuovo e veramente singolare. Che cos'ha di speciale il matrimonio per continuare a essere lo scopo principale della vita? Può rimanere attraente per chi ne apprezza la fecondità, sebbene oggi i figli sembrino a molti un tesoro che ha un costo superiore al suo valore. Ma la peculiarità del matrimonio è andata perduta; è venuta meno la sua stabilità.

            Il matrimonio è stato radicalmente svalutato dall'accettazione quasi universale e comune del divorzio. A più persone (forse anche a più cattolici) sembra umanamente scontato che, se un matrimonio si rompe, le parti siano libere di sposarsi di nuovo. Il matrimonio vincola soltanto finché l'amore — finché due amori — lo tengano unito, perché l'amore o la fedeltà di una sola delle parti ha perso oggi il suo potere di obbligare l'altra a un impegno interpersonale liberamente assunto.

            Tutto questo è indice di una massiccia perdita di valori, che attiene al progressivo svuotamento di quelle che prima erano realtà umane ricolme di speranza, di mistero e meraviglia, di impegno e rischio. Il sesso, ora poco più significativo di un cenno o di una stretta di mano, è banalizzato. I figli sono intesi come semplice strumento di una «realizzazione» di cui molti più non sentono il bisogno. I vantaggi e gli svantaggi del matrimonio possono essere valutati in base a calcoli fiscali. Infine, per interi ambienti sociali c'è poca differenza tra una moglie o marito e un partner o «compagno» che, secondo la logica stringente della realtà emergente, può essere — perché no? — del medesimo sesso.

            La questione delle nullità va inquadrata all'interno di questo panorama generale.

Troppe nullità?

            Vi sono troppe dichiarazioni di nullità? Non ho dubbi che ve ne siano troppe negli abusati campi dell'incapacità consensuale, e troppo poche per simulazione (specialmente l'esclusione dell'indissolubilità o della prole). In casi di incapacità consensuale (canone 1095 del nuovo Codice di Diritto Canonico), sebbene al momento del matrimonio una o entrambe le parti abbiano inteso dare un consenso reale e completo, il consenso è nullo, perché la loro volontà e/o la loro mente soffrivano di qualche grave deficienza psichica che le ha rese incapaci di un minimo apprezzamento critico e pertinente circa i diritti e doveri essenziali del matrimonio, e/o di assumere le principali obbligazioni che esso comporta. Anche se il canone 1095 è un'introduzione nuova nel Codice del 1983, i princìpi che consacra erano stati sviluppati ben prima nella giurisprudenza rotale e nella pratica dei tribunali. Ciò nonostante, occorre osservare che, prima del Concilio, le dichiarazioni di nullità motivate da consenso viziato per difetto psichico (generalmente comprese entro il largo concetto di amentia) apparivano piuttosto infrequenti. Secondo le statistiche ufficiali, su un totale di 950 decisioni rotali (favorevoli o contrarie alla nullità) emesse dal 1960 al 1965, 53 (approssimativamente il 5%) si fondavano sull'incapacità psichica.

            In caso di simulazione, la persona, essendo nel normale possesso delle sue facoltà psichiche, esclude consapevolmente e intenzionalmente alcune o tutte le proprietà essenziali del matrimonio: la fedeltà esclusiva, la permanenza del vincolo, l'apertura alla prole. La simulazione del consenso matrimoniale rappresentava la più comune tipologia di nullità. Degli accennati processi rotali tra il 1960 e il 1965, 442 (il 41%) si basavano sulla simulazione (l'altra causa più frequente era il metus, cioè la coercizione indotta dalla paura, per un totale di 275 casi, il 26%). Anche i dati riscontrati ai gradi di giudizio inferiori erano analoghi. Oggi comunque è estremamente raro (l'Italia tende a essere un'eccezione) trovare una richiesta di nullità per simulazione. Alcuni tribunali, infatti, persuadono fermamente le persone a evitare il ricorso alla simulazione, dirottandole verso l'incapacità consensuale.

            La prassi della nullità ha attraversato un periodo di grande mutamento, e appare evidente che si è venuto a creare uno squilibrio. Risulta meno chiaro quale sarebbe il risultato se lo squilibrio venisse corretto. Un numero, nel complesso, ridotto di dichiarazioni di nullità? È possibile, ma non sono sicuro di una riduzione sostanziale.

Scenari differenti

            Supponiamo (assegnando valori arbitrari) che 50.000 matrimoni di cattolici naufraghino ogni anno, che di questi, 40.000 ricorrano ai tribunali ecclesiastici per ottenere l'annullamento, e che a 38.000 istanze sia data risposta affermativa (cioè che il matrimonio fosse nullo dall'inizio). Consideriamo inoltre due ipotesi del tutto distinte che potrebbero corrispondere a questo scenario:

            a) II 99% delle nullità sono dichiarate secondo il canone 1095, ovvero per incapacità consensuale originaria;

            b) II 75% delle nullità sono dichiarate in base al canone 1101, ovvero, per simulazione, con la maggior parte delle nullità restanti dichiarate secondo il canone 1095.

            La prima di queste due ipotesi corrisponde più o meno alla situazione attuale. E una situazione che sta perdendo di credibilità. È lecito chiedersi (e infatti ce lo chiediamo) come mai la Chiesa cattolica sia l'unica Chiesa a ritenere che i suoi fedeli, in numero straordinariamente alto, siano incapaci di una cosa tanto essenziale e naturale come esprimere il consenso matrimoniale? Quanti canonisti realmente credono alle spiegazioni date negli anni Settanta e negli anni Ottanta per giustificare la massiccia applicazione dell'incapacità consensuale: cioè, che essendo pervenuti a un nuovo livello di complessità psicologica, e conoscendo ben più di prima i limiti e i difetti della personalità umana, ci siamo accorti che un numero più elevato — molto più elevato — di persone è incapace di esprimere un valido consenso [1]?

            La seconda delle ipotesi che abbiamo delineato potrebbe avere maggiore credibilità. Almeno si fonda su un presupposto diverso, cioè che la stragrande maggioranza degli sposi il cui matrimonio si è arenato fosse non tanto incapace di assumere al momento del consenso un vero impegno coniugale, ma che, al contrario, non abbia voluto assumerlo intenzionalmente. Che i coniugi abbiano voluto, in altre parole, quello che potremmo definire un «matrimonio di prova» o un «matrimonio contraccettivo», accettando consapevolmente un'unione aperta al divorzio o chiusa ai figli.

            Questo secondo scenario non coincide con la situazione attuale. Se le cose stessero realmente così avremmo, rispetto al presente, un numero inferiore di dichiarazioni di nullità? Ripeto che non lo so. Certo è che saremmo in contatto più diretto con la realtà, con il vero problema del nostro tempo, che a mio avviso non è tanto l'incapacità a impegnarsi nel matrimonio, quanto la riluttanza molto generalizzata a farlo.

            Aggiungerei poi che rilevante quanto l'eccessiva invocazione del canone 1095, o la scarsa invocazione del canone 1101, è la negligenza nell'applicazione del canone 1676, che recita: «II giudice prima di accettare la causa ed ogniqualvolta intraveda una speranza di buon esito, faccia ricorso a mezzi pastorali, per indurre i coniugi, se è possibile, a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale». Benché il canone parli del giudice ecclesiastico, gli orientamenti pastorali che offre sono chiaramente rivolti a coinvolgere tutti in un matrimonio che sta andando a rotoli. Alcuni commentatori mettono in dubbio l'applicabilità del canone in considerazione della pratica molto diffusa di non accettare una istanza di nullità se le pratiche del divorzio civile non siano concluse o in una fase avanzata; e così, dicono, quando l'istanza è presentata, è troppo tardi perché il Vicario Giudiziale possa tentare di porre rimedio alla situazione. Può essere, ma la mia esperienza di giudice mi ha fatto conoscere un numero considerevole di persone che, chiedendo consiglio in merito a una crisi coniugale, a un primissimo contatto con gente del dicastero — pastori, consulenti matrimoniali, ufficiali del tribunale —, hanno ricevuto il suggerimento subitaneo e sbrigativo di «cercare una nullità». C'è da sperare che il pessimismo che si riscontra in tali casi sia un fenomeno eccezionale.

Personalismo coniugale e «bene dei coniugi»

            Perché all'interno della Chiesa, e attenendosi scrupolosamente alle indicazioni per il rinnovamento della vita cristiana in generale e della vita coniugale in particolare che il Concilio Vaticano II ha cercato di offrire, i matrimoni cattolici che falliscono sono ancora così tanti? Alcuni attribuiscono la colpa al «personalismo» moderno, che a loro giudizio non ha fatto altro che avvalorare un approccio egoistico al matrimonio, incoraggiato — così ritengono — da una certa enfasi sul matrimonio come unione di amore, unitamente a una svalutazione del suo orientamento procreativo.

            Per illustrare questa loro opinione, citano il canone 1055 (quello che apre la sezione sul matrimonio nel Codice del 1983) e la mutata presentazione ivi delineata dei fini del matrimonio: «II patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole». Non si afferma più che il matrimonio ha un «fine primario» — la procreazione — (come nel canone 1013 del Codice del 1917), ma che ha due fini all'apparenza co-eguali: il «bene dei coniugi» e la «procreazione».

            Il «bene dei coniugi» (bonum coniugum) non solo è un'espressione di indubbio sapore personalistico, ma è anche una locuzione totalmente nuova nel lessico ecclesiale, essendo il Codice del 1983 il primo documento magisteriale che ne fa uso per esprimere uno dei fini istituzionali del matrimonio. Con la sua successiva adozione nel Catechismo della Chiesa cattolica del 1994 (n. 2363: «II duplice fine del matrimonio: il bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita»; cfr n. 2249), adesso fa parte del Magistero universale della Chiesa. La nozione è estremamente ricca e ha ripercussioni sostanziali. Richiede perciò un'analisi profonda e accurata, specialmente da un punto di vista teologico, scritturistico e antropologico. Ogni ben fondata valutazione canonica del contenuto giuridico della nuova espressione e della sua efficacia dovrà tenerla presente.

            La locuzione fece la sua comparsa in circostanze interessanti che vale la pena richiamare. Il Concilio mise in moto un vasto movimento di ricerca tra canonisti sulle possibili conseguenze giuridiche della definizione del matrimonio come «l'intima comunità di vita e d'amore» che appare nella Gaudium et spes (n. 48). La spinta personalistica, molto presente nei lavori degli anni Settanta per la revisione del vecchio Codice di Diritto Canonico, si concentrò sul matrimonio come «communio vitae», proponendo al riguardo il riconoscimento nel nuovo Codice di una serie di diritti connessi alle relazioni interpersonali degli sposi (diritti non specificati in natura, ma in ogni caso diversi da quelli tradizionalmente accolti) che avrebbero dovuto annoverarsi tra gli «elementi essenziali» del matrimonio e la cui esclusione avrebbe automaticamente invalidato il consenso coniugale. Diverse formulazioni furono presentate a tal proposito nei vari schemata sottoposti a considerazione dalla Commissione Pontificia per la revisione del Codice, ma furono tutte abbandonate alla fine della revisione nel 1983. Il bonum coniugum seguì una strada diversa. Introdotto non come «elemento essenziale», ma come un fine del matrimonio (in una bozza del 1977), ricevette approvazione unanime dai consultori della Commissione, e continuò a occupare la sua importante posizione all'interno del Codice.

            Merita qui tener presenti parecchi elementi. Quando giunse a una definizione o descrizione del matrimonio (canone 1055 del Codice attuale), il nuovo Codice aggirò le proposte che sembravano più direttamente ispirate al Concilio — la «communio vitae» o «coniunctio vitae» — per affermare semplicemente che il matrimonio è un «consortium totius vitae» («la comunità di tutta la vita»), che è nozione classica ripresa pari pari dal Diritto romano. Perciò l'influenza del personalismo nel disegno del nuovo Codice non ha toccato la definizione del matrimonio ne ha condotto al riconoscimento di nuovi diritti o «elementi» essenziali per la costituzione del matrimonio. Ciò che ha ispirato è piuttosto la riformulazione dei fini del matrimonio, e specificamente l'espressione di uno di essi come «bene dei coniugi» [2].

            Tali distinzioni potrebbero sembrare sottili, ma sono chiare e importanti. Il bonum coniugum è un fine al pari della procreazione. Di conseguenza, l'esclusione dell'apertura (ordinatio ad) al bene dei coniugi rende invalido il consenso, proprio come l'esclusione dell'apertura alla procreazione. Il Diritto canonico da sempre ha richiesto un'apertura ai fini del matrimonio, ma non ha mai fatto della capacità dei coniugi di conseguire tali fini una condizione essenziale perché il matrimonio sia valido. Così, se uno dei coniugi risulta essere sterile, il matrimonio è sempre valido (can. 1084, § 3). I tribunali che invocassero una «incapacità di raggiungere il bonum coniugum» (quale che sia il senso: questione per niente facile) come motivazione per dichiarare nullo un matrimonio, muoverebbero da princìpi scorretti.

            Tenendo bene in mente quanto detto, possiamo arrischiare qualche considerazione sulla possibile natura canonica del bonum coniugum.

Natura del «bene dei coniugi»

            Alcuni autori hanno identificato il bonum coniugum con l'«armonia psico-sessuale» degli sposi, con la loro «integrazione affettiva interpersonale», o con l'edificazione di una «vera comunità di vita e di amore» tra loro. Tali interpretazioni sembrano inadeguate dal punto di vista cristiano, anche perché potrebbero con facilità inclinare a risolvere il bonum coniugum in una questione di «compatibilita» naturale. Si potrebbe altresì essere indotti a credere che un'incompatibilità apparente sia ostile al bene dei coniugi, quando al contrario l'esperienza pastorale dimostra che molti matrimoni altamente «integrati» sono matrimoni di uomini e donne con caratteri diversissimi e addirittura all'apparenza opposti, tali che avrebbero potuto diventare «incompatibili» se gli sposi non avessero scelto (in uno sforzo di evidente maturità) di agire diversamente. La giurisprudenza rotale ha dichiarato più volte che questo concetto psicologico di incompatibilità non offre base alcuna per una dichiarazione di nullità.

            Analogamente, far consistere il bonum coniugum nel conseguimento di una vita coniugale comoda o serena, poco si concilia con il concetto cristiano di vero bene della persona umana. Non è infatti possibile intendere cristianamente il «bene dei coniugi», a meno che in esso non si scorga il risultato dell'impegno liberamente assunto dagli sposi con l'alleanza coniugale.

            Nel tentativo di individuare la natura del bonum coniugum, è ovvio che si cerchino precisi orientamenti anzitutto nel volume ufficiale della Libreria Vaticana che annota le «Fonti» dei canoni del nuovo Codice [3]. La prima fonte magisteriale indicata per il canone 1055 è la famosa Enciclica di Pio XI sul matrimonio Casti connubii, una vera anticipazione preconciliare del personalismo coniugale. Ci dà una solida base per mantenere che l'essenza del bonum coniugum, deve essere cercata nella linea di quella «vicendevole formazione interna dei coniugi» e di quello «assiduo studio di perfezionarsi a vicenda» che l'Enciclica del 1930 indicava come lo scopo principale di un matrimonio concepito come patto di vita [4]. Detto altrimenti, è per il loro bonum ultimo — la crescita in virtù e in santità — che gli sposi sono chiamati ad aiutarsi l'un l'altro. Un'altra fonte indicata per il canone è una ben nota Allocuzione di Pio XII del 1951, dove Papa Pacelli parla del «perfezionamento personale degli sposi» come di un fine secondo del matrimonio. Fra i documenti del Vaticano II citati come fonti del canone 1055, vi sono il numero 48 della Gaudium et spes, i numeri 11 e 41 della Lumen gentium e il numero 11 del decreto Apostolicam actuositatem. In tutti questi passi l'enfasi è posta sulla crescita umana e soprannaturale degli sposi che, «prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, esperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la raggiungono [...]. Compiendo [...] il loro dovere coniugale e familiare, [...] tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione» (GS 48). Su questo aspetto soprannaturale si insiste particolarmente nei paragrafi pertinenti della Lumen gentium, specialmente al numero 11: «I coniugi cristiani [...] si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale e nell'acccttazione ed educazione della prole». E lo stesso accade nel decreto sull'apostolato dei laici: «I coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede reciprocamente e nei confronti dei figli e di tutti gli altri familiari» (AA 11).

Scrittura e «bene dei coniugi»

            I «conservatori» potrebbero forse guardare più positivamente al bonum coniugum e i «liberali» giungere a un'analisi più comprensiva del suo contenuto, se gli uni e gli altri ricordassero quanto emerge con impressionante evidenza nelle sacre Scritture, e cioè che l'originario piano divino per la creazione dei sessi e per il matrimonio è al tempo stesso procreativo e personalistico, e che il bene degli sposi (non meno della procreazione) è un fine istituzionale che Dio stesso ha assegnato al matrimonio. Un'analisi che segua queste linee armonizzerà i due racconti della creazione dell'uomo — maschio e femmina — e dell'istituzione del matrimonio (solo apparentemente contrastanti) riferiti nel libro della Genesi. Uno esprime una finalità chiaramente procreativa, mentre l'altro può ragionevolmente essere definito personalistico. Il primo, il cosiddetto testo «elohista», dice così: «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi"» (Gn 1, 27-28). Il secondo, il testo «yahvista» (considerato anteriore al primo riguardo alla data di composizione), afferma: «E il Signore Dio disse: "Non è bene [non est bonum] che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" [adiutorium sibi simile]» (Gn 2, 18). Così Dio creò la donna, e la narrazione continua: «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn, 2, 18-24).

            La tradizione teologica si era finora fermata al termine adiutorium nell'interpretazione di Gn 2, 18, poco analizzando in «che cosa» consista tale aiuto o — aspetto ancora più importante — a «chi» l'aiuto è volto. Ci troviamo ora in una situazione nuova, con l'enfasi trasferita dai mezzi (mutuum adiutorium) che Dio scelse, al fine da lui inteso (il bonum dell'uomo e della donna).

            La questione da analizzare è dunque la seguente: qual è il «bene» ultimo o bonum che Dio cerca in e attraverso l'unione sponsale dell'uomo e della donna? Non mi pare arduo suggerire la risposta: la maturazione degli sposi, mediante il peculiare impegno matrimoniale, in ordine alla vita eterna.

            Gesù stesso non ha usato mezzi termini nel richiamare l'attenzione degli apostoli sul disegno originario ed esigente di Dio circa l'impegno coniugale, e specificamente riguardo alla sua natura permanente e indissolubile: «Non avete letto che il Creatore da principioli creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi» (Mt 19, 4-6); «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19, 8).

            Il problema di noi uomini d'oggi è di essere troppo simili agli apostoli, in quella loro spontanea reazione alle parole del Signore: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19, 10). In altre parole, «l'indissolubilità è troppo; non si vorrà certo prenderla sul serio!»... Il nostro mondo moderno, almeno a prima vista, sembra altrettanto lontano dal comprendere le parole di Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio: «È necessario ribadire il lieto annuncio della definitività di quell'amore coniugale che ha in Gesù Cristo il suo fondamento e la sua forza» (n. 20).

            Un impegno definitivo. Non è così che generazioni e generazioni di uomini e di donne hanno inteso il patto matrimoniale: «Nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non ci separi»? Non è precisamente questo il lieto annuncio che l'amore umano desidera comunicare a chi è in grado di rispondere a sua volta: «Ti amerò per sempre»? Non c'è più nessuno, al giorno d'oggi, che cerca o si attende amore così? La maggioranza delle persone ha davvero perduto la speranza? È possibile che tra i pastori, gli educatori, i consulenti matrimoniali e i giudici vi sia stata una tale, massiccia perdita di valori umani e naturali che molti considerano l'indissolubilità come cattiva e non buona «novella», come qualcosa di «contrario a» (e non «in concordanza con») ciò che gli uomini vanno cercando nell'amore coniugale? Se qualcosa del genere è accaduto, è molto grave, ed è più grave ancora pensare che si tratti di una conseguenza del personalismo coniugale.

Personalismo ed impegno matrimoniale

            Un approccio piuttosto superficiale all'analisi del bonum coniugum si è accompagnato a una certa tendenza a ravvisare in esso tutto il contenuto del personalismo coniugale che risulta dal nuovo Codice, o almeno la sua espressione centrale. Sicuramente un tale approccio non è adeguato e può riflettere la comprensione piuttosto inesatta dello stesso personalismo cristiano, delle modalità e degli effetti della sua introduzione nel diritto canonico sul matrimonio, che non pochi scrittori dei più diversi campi mostrano.

            Il personalismo cristiano correttamente inteso è la visione fìlosofìca o antropologica sottesa al magistero del Concilio Vaticano II sulla vita personale e sociale, e sul matrimonio in particolare. Ma, in pratica, tutto ciò che vuol dire? Il testo personalistico chiave è il n. 24 della Gaudium et spes: «L'uomo il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per sé stessa» non può ritrovarsi pienamente «se non attraverso un dono sincero di sé». La medesima Costituzione pastorale applica questa nozione direttamente al matrimonio, parlandone come di una «mutua donazione di due persone», o di un'unione in cui gli sposi «mutuamente si danno e si ricevono» (n. 48).

            Il personalismo cristiano è agli antipodi dell'individualismo. Non attiene principalmente ai diritti dell'individuo, bensì al di lui sviluppo. Il suo impulso non si rinviene nella preoccupazione per sé stessi o nell'autoprotezione, ma nel dono di sé. Fondamentalmente è una chiamata a uscire fuori di sé. È donandosi sinceramente, in adesione a valori per cui vale la pena farlo, che l'individuo realizza sé stesso (le radici evangeliche sono evidenti: dare la propria vita per poi ritrovarla).

            Quando si tiene presente tutto questo, diviene ovvio per un lettore del nuovo Codice che il personalismo cristiano e conciliare abbia configurato un altro canone fondamentale oltre al 1055, e lo abbia fatto anche in maniera più diretta: il canone 1057. L'importanza di questo punto difficilmente può venire esagerata, non solo perché i due canoni sono strettamente collegati, ma soprattutto perché la chiara formulazione del c. 1057 contiene indizi essenziali per la comprensione del contenuto piuttosto oscuro del «bene dei coniugi» del c. 1055.

            Il canone 1057, al § 2, tratta la natura dell'atto del consenso coniugale e contempla uno dei cambiamenti più radicali nella legge matrimoniale del nuovo Codice. Il Codice del 1917 offriva una descrizione poco attraente, generalmente considerata troppo fisicista, del consenso matrimoniale: un atto della volontà «col quale ambedue le parti concedono e accettano il diritto sul corpo, perpetuo ed esclusivo, in ordine agli atti per sé idonei alla generazione» (e. 1081, § 2). Il canone corrispondente del Codice del 1983 dice che il consenso è un atto della volontà «con cui l'uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente sé stessi per costituire il matrimonio». Si ritrova qui un'altra nozione nuova e fondamentale: consentire al matrimonio è un «dono di sé» e un'«accettazione dell'altro» («se tradere / alterum accipere»). L'idea non potrebbe formularsi in maniera più esplicitamente personalistica.

            Un vantaggio per la progressiva intelligenza del significato e dell'effetto giuridico di questa nozione è che non siamo davanti a un'espressione del tutto nuova o sconosciuta (come nel caso del bonum coniugum). Al contrario, che il consenso matrimoniale coinvolga il dono di sé era già stato affermato nel 1930 dalla Casti connubii, dove si dice che «dall'uomo [...] dipende l'esistenza di qualsiasi matrimonio particolare [...] mediante la donazione generosa della propria persona ad altra, per tutta la vita» (AAS 22 [1930] 543). La Gaudium et spes arricchisce questa nozione in modo molto significativo, parlando dell'«atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono» (n. 48).

            A mio avviso il «dono di sé», e in particolare l'«accettazione dell'altro», del canone 1057, offrono la chiave per una corretta comprensione del bonum coniugum. Non è bene che l'uomo (o la donna) sia solo. La solitudine è grande nemico dello sviluppo della persona e della sua salvezza. Il «bene» che Dio vuole per gli sposi, attraverso il patto matrimoniale, è il risultato finale della reciproca donazione generosa e incondizionata che i coniugi fanno di sé stessi (dandosi l'un l'altro così come sono, difetti inclusi) e, forse ancor più, della generosa e incondizionata acccttazione del partner così come egli è — nella sua difettosa personalità —, prolungata, con l'aiuto della grazia, per tutto l'arco di una vita di fedeltà esclusiva e di apertura ai frutti del mutuo amore coniugale.

Dono di sé e autorealizzazione nel matrimonio

            C'è forse qualcosa di inadeguato in certe analisi che vedono il personalismo coniugale come una nuova presa di coscienza della dignità dell'amore sponsale. Questa interpretazione corre il rischio di fermarsi alla superficie della questione, specialmente se è volta ai «diritti» o alle aspettative dell'amore e non, almeno in eguale misura, ai suoi «doveri» e alle sue «esigenze». Il vero personalismo guarda alla maturazione della persona; è, ripetiamo, l'impegno del matrimonio — con le esigenze di un amore fedele e sacrificato — che porta gli sposi alla pienezza dello sviluppo personale: la santificazione, nella quale è riposto il loro vero e definitivo «bene».

            Sant'Agostino, nella sua difesa della bontà del matrimonio contro il pessimismo dei manichei, ha sviluppato una dottrina dei «beni» (bona) del matrimonio che ne mostra la dignità: la natura di relazione esclusiva, permanente e aperta alla vita, tra un uomo e una donna. Ho scritto altrove [5] sulla tendenza moderna a vedere i bona agostiniani non nella loro attrattiva naturale di «valori» o «benefici» dello stato coniugale, ma semplicemente nella visuale dell'«obbligazione» che accompagna ciascuno di essi. Questo principio si applica particolarmente al bonum sacramenti (l'indissolubilità) e al bonum prolis (i figli). È vero che la generosa accettazione di questi «beni» richiede uno sforzo vigoroso; ma è altresì vero che tale fatica è fonte di felicità e possiede un profondo effetto maturante sulle persone che l'affrontano.

            La Gaudium et spes, sulle orme della Casti connubii, insegna che è in vista del bene sia dei coniugi sia della prole che il vincolo matrimoniale è indissolubile [6]. L'indissolubilità favorisce positivamente il bonum coniugum, perché lo sforzo e il sacrificio richiesti per la fedeltà al carattere indissolubile del vincolo — nella buona e nella cattiva sorte — sono oltremodo utili allo sviluppo e al perfezionamento della personalità degli sposi. Analogamente la Gaudium et spes afferma che «i figli [...] sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono pure al bene dei genitori» (n. 50). I figli arricchiscono le vite dei genitori secondo molteplici modalità umane, non ultima in ragione della generosa dedizione che inclinano a suscitare in loro.

            È attraverso la dedizione, lo sforzo e il sacrificio, specialmente se affrontati per gli altri, che le persone crescono e maturano; così ciascuno esce dal proprio io e si innalza sopra di sé. La lealtà all'impegno della vita coniugale — essere fedeli, perseverare in questa fedeltà fino alla morte, avere figli ed educarli — contribuisce più di ogni altra cosa al vero bene dei coniugi, eminentemente realizzato nel far fronte a quell'impegno assunto in piena libertà che, per il reciproco consenso, diviene pure un dovere di giustizia. In una Allocuzione del 1987 alla Rota Romana, Giovanni Paolo II parlò di questo dovere che implica «uno sforzo cosciente da parte degli sposi di superare, anche a costo di sacrifici e rinunce, gli ostacoli che impediscono la realizzazione del loro matrimonio» (AAS 79 [1987] 1456).

            La Lettera alle famiglie del Papa (1994) si è soffermata sull'«antitesi tra l'individualismo e il personalismo. L'amore, la civiltà dell'amore si collega con il personalismo. Perché proprio col personalismo? Perché l'individualismo minaccia la civiltà dell'amore? Troviamo la chiave della risposta nell'espressione conciliare: un "dono sincero". L'individualismo suppone un uso della libertà nel quale il soggetto fa ciò che vuole, "stabilendo" egli stesso "la verità" di ciò che gli piace o gli torna utile [...]. Non vuole "dare" a un altro sulla base della verità, non vuole diventare un "dono sincero". L'individualismo rimane pertanto egocentrico ed egoistico. [...] L'"ethos" del personalismo è altruistico: muove la persona a farsi dono per gli altri e a trovare gioia nel donarsi» (n. 14).

            Questa visione cristiana di realizzazione dell'uomo è radicalmente opposta all'idea di realizzazione che domina tutta la moderna psicologia e la formazione della personalità, tanto da giungere a deformare anche le prospettive di molti cattolici.

            All'interno stesso della Chiesa non è infrequente trovare che la normalità, la maturità o la capacità di una persona siano valutate secondo parametri fondamentalmente egocentrici: autoidentità; realizzazione di sé piuttosto che autotrascendenza; obbedienza al proprio io anziché agli altri o ai valori; esagerata sensibilità per i diritti della persona, accompagnata da scarsa percezione dei doveri [7]; autonomia piuttosto che interdipendenza; autoaccettazione e, ancor più, perseguimento ossessivo della propria stima (quel segno di «pubertà morale» di cui parlava Emmanuel Mounier) che fa sì che ci si senta colpevoli a dubitare di sé e vulnerabili alla «vittimizzazione»; accettazione dagli altri e non degli altri; autoconferma; ricerca di guarigione con mezzi propri...

            Giudici, avvocati, difensori del vincolo, psicologi che accolgono quei parametri di «realizzazione» o di capacità, riterranno nulli più matrimoni di coloro che hanno attinto una migliore comprensione del personalismo. A un diverso livello (ma altrettanto importante), consulenti che hanno assorbito dottrine psicologiche individualistiche anziché una vera psicologia radicata nel personalismo non sono probabilmente in grado di formare bene le persone a vivere una vita che richiede la donazione di sé (il ministero sacerdotale non meno della dedizione coniugale) o di aiutarle a superare le difficoltà che necessariamente incontreranno lungo il loro cammino.

Non incapacità, ma diffidenza...

            Dubito di aver soddisfatto il lettore circa la questione delle dichiarazioni di nullità. Non sono soddisfatto neanch'io. Sono favorevole a mutare in ampia parte i motivi di incapacità consensuale per cui si chiede l'annullamento in motivi di simulazione. Che il risultato possa essere una sostanziale riduzione numerica dei matrimoni dichiarati nulli, come ho già detto, è cosa di cui non sono affatto certo.

            Ciò di cui sono del tutto sicuro, e che più mi preoccupa, è il fatto che troppi matrimoni validi si rompono: per una preparazione carente, per scarsa fiducia nella preghiera e nei sacramenti in momenti di difficoltà, per un consiglio pastorale inadeguato o negativo, spesso fondato sull'eccessivo richiamo a un indefinito «bene dei coniugi», e su una insufficiente riflessione intorno alla donazione di sé e all'accettazione dell'altro inerente all'impegno e al consenso coniugale.

            La crisi di oggi non sta nell'incapacità, ma nella diffidenza. Il nostro ostacolo non è una radicale inabilità a impegnarsi, ma un dubbio profondo circa il valore di un impegno totale. Il personalismo cristiano c'è non per confermare la prima, ma per fugare il secondo, aiutando le persone a capire che non può esserci nessuna felicità o autorealizzazione senza il dono di sé; che ogni cammino veramente cristiano è una via di impegno, di fedeltà che porta alla felicità: possibile con la grazia di Dio, impossibile senza.

NOTE

[1] Cosa che a molti, cattolici e no, sembra davvero assurda; o forse comica, una specie di videogame dì realtà virtuale. Perché ingannarsi?, ha detto qualcuno; non sarebbe più sincero ammettere l'esistenza di un vero matrimonio che, semplicemente, è fallito e ricorrere al divorzio? Per i protestanti è questione di logica naturale. Per alcuni cattolici, può riempire un'agenda di cose da fare.

[2] Questo fine, come la Commissione Pontificia ha specificamente affermato, non deve essere inteso in senso soggettivo, come il fine personale degli sposi, ma in senso oggettivo, come un fine del matrimonio in quanto istituzione (cfr Communicationes, [1983] 221). Si tratta di un fine istituzionale e personalistico al tempo stesso. È inutile e scorretto classificare i fini come se il bonum coniugum fosse «personalistico» e la procreazione «istituzionale». Entrambi i fini sono istituzionali, come entrambi sono personalistici; cfr Cormac Burke, I fini del matrimonio: visione istituzionale o personalistica?, «Annales theologici», n. 6 (1992), pp. 237-239.

[3] Codex luris Canonici, Libreria Editrice Vaticana, 1989.

[4] AAS 22 (1930) 548.

[5] La felicità coniugale. Edizioni Ares, Milano 1996, pp. 137 ss.

[6] Cost. past. Gaudium et spes; cfr Casti connubii AAS 22553.

[7] L'affermazione dei propri diritti non sempre è segno di maturità; rinunciarvi spesso può esserlo di più. La preoccupazione per i propri diritti è un indizio probabile di immaturità. Non si cresce solo con l'esercizio dei propri diritti (non è raro che si cresca di più cedendoli): si cresce adempiendo i propri doveri.