La Natura Pastorale delle Leggi Ecclesiastiche (Studi Cattolici (324) 1988, pp. 83-87)
[In taluni ambienti cattolici è radicata la tesi secondo cui l'azione pastorale non tollererebbe leggi ne strutture istituzionali, lesive, per l'astrattezza e la generalità della dogmatica giuridica, di quel principio personalistico che così peculiarmente, connota l'insegnamento del Concilio Vaticano II. Alla luce dei documenti conciliari e con frequenti riferimenti al nuovo Codice di diritto canonico Cormac Burke, uditore della Sacra Rota, sviluppa una puntuale confutazione della suddetta posizione concettuale, troppo disinvoltamente incline a enfatizzare la spontaneità e la sperimentazione nell'attività pastorale, e mostra come nella vita della Chiesa le istituzioni e le norme abbiano l'eminente funzione di servire e proteggere la persona, aiutandola a far crescere ogni giorno di più la propria vocazione cristiana]
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La finalità che si è proposta il Concilio Vaticano II riluce chiaramente nelle parole con le quali inizia il primo documento conciliare: dare rinnovato vigore alla vita cristiana dei fedeli (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 1). In effetti il rinnovamento delineato dal Concilio voleva essere un'innovazione del modo col quale la Chiesa ha cura delle anime, al fine di comunicare loro, con maggior forza ed efficacia, lo spirito e la vita di Gesù Cristo, Pastore eterno.
Senza dubbio, al presente, non tutti condividono i risultati conseguiti da questo rinnovamento. Alcuni — in particolar modo tra i pastoralisti — affermano che, se il rinnovamento non è avvenuto con la rapidità e l'efficacia auspicate, ciò è dovuto soprattutto all'impegno della Chiesa (o, meglio, di alcuni nella Chiesa) di continuare ad adattare le realtà ecclesiali a una filosofia e a un sistema giuridico angusti e antiquati. La tradizionale rigidità della legge sembra loro un fattore pastoralmente negativo: invece di aiutare le persone, le danneggia. Un "legalismo" rigoroso vorrebbe mantenere la vita cristiana in schemi prestabiliti, con il risultato - sempre secondo la suddetta tesi — di soffocare l'iniziativa, la spontaneità, la sperimentazione, l'uso dei carismi personali... Penalizzerebbe in particolar modo, quelle persone la cui vita non si attiene alle rigide norme legali proposte, fino a escluderle dalla piena partecipazione alla comunità cristiana.
La legge, così intesa, non può apportare alcunché di positivo all'azione pastorale; rivestendo al contrario un ruolo talmente negativo da divenire il maggiore ostacolo per un qualsiasi rinnovamento pastorale.
Ovviamente la mentalità che intende opporre "legge" a "pastorale" è venuta a costituirsi dal Concilio in poi. Oggi, in taluni ambienti, sembra affermarsi assiomaticamente che chiunque pensa secondo categorie giuridiche non pensa pastoralmente, anzi si è arrivati a rappresentare la realtà pastorale e quella giuridica come realtà opposte e perfino incompatibili. La conclusione — sempre in conformità a tale logica — è che il Vaticano II, nel sottolineare gli aspetti pastorali della vita della Chiesa, avrebbe dato inizio — e lo spirito del Concilio lo confermerebbe — all'attuale discredito in cui sono caduti il diritto ecclesiale e i molteplici aspetti canonici della vita della Chiesa.
Di fronte a questa situazione conviene porsi alcuni interrogativi: 1) le idee esposte trovano reale fondamento nel pensiero del Concilio? 2) qual è il rapporto tra la legge e la pastorale? 3) si tratta di un rapporto oppositivo o di armonia? Penso che si possa rispondere adeguatamente a tali interrogativi solo se si evidenziano, armonizzandole, due importanti correnti di pensiero del Vaticano II: l'accento personalista che caratterizza questo Concilio e la nuova visione che propone dell'autorità.
Il personalismo del Vaticano II
II Concilio è personalista. Non solo perché è incentrato sulla persona di Gesù Cristo, ma anche per il fatto di sottolineare insistentemente il fine e la dignità inviolabile di ogni persona umana. Orbene, nell'affermare che il Vaticano II è personalista, occorre fare alcune precisazioni:
- a) Personalista non vuoi dire individualista. Il Vaticano II non è individualista; non pone l'individuo al di sopra della comunità. È comunitario, pone l'accento sulla comunità (così come sulla persona). Il suo motivo e tema dominante è la "communio", il principio che propone per un rinnovamento della Chiesa (cfr Lumen gentium, n. 1 e passim).
- b) Il Vaticano II è, pertanto, personalista e comunitario al tempo stesso. Non c'è contraddizione tra i termini. Il personalismo pone in risalto la dignità e i diritti di ogni persona, considerata nel suo valore intrinseco di creatura di Dio e nella sua vocazione alla filiazione divina in Cristo. E tuttavia, nell'evidenziare i diritti, il personalismo sottolinea anche i doveri (ogni autentica filosofia dei diritti è altresì filosofia dei doveri) e pone l'accento soprattutto su quei doveri che ognuno di noi ha verso gli altri, verso la comunità; considera il loro compimento come mezzo di crescita personale, di autorealizzazione, contribuendo in pari tempo all'attuazione dei fini della comunità. L'individualismo, invece, insiste sugli interessi e sulle convenienze dell'individuo considerato come fine a sé stesso, prescindendo dalla comunità. L'individualista può talvolta dibattere a favore dei doveri, ma non gli interessano di per sé. Il suo criterio è il proprio tornaconto; e là dove sembra esserci conflitto tra l'interesse individuale e quello comunitario, l'individualista poni sempre in primo piano ciò che ritiene il proprio utile.
Si può costruire una "communio", una comunità, su una filosofia personalista, non invece sulla base dell'individualismo. È possibile essere contemporaneamente personalista e comunitario, mentre non è possibile essere individualista e comunitario. Aver perduto di vista questa verità così ovvia ed elementare ha provocate il fallimento di molti propositi di rinnovamento negli ultimi venticinque anni.
- c) Essere personalista non vuoi dire "contro la legge".
E lo spirito individualista che può essere in conflitto con la legge, e in generale lo è; il personalismo invece non può negare la legge, poiché una funzione eminente della legge è precisa quella di difendere i diritti di ciascuno e rendere armonici i diritti di tutti.
Se non si possiede un chiaro concetto della differenza che intercorre tra individualismo e personalismo è facile dimenticare che l'uso di un lessico personalista (con frequenti riferì alla "libertà", ai "diritti", alla "coscienza" e simili) può manifestare l'intenzione di celare attitudini individualiste e anticomunitarie.
Il Concilio & la legge
Altro aspetto del pensiero del Vaticano II che al riguardo è opportuno evidenziare è il suo modo d'intendere il concetto di autorità e, di conseguenza, quello di legge. È indubbio che il Vaticano II richiama a una diversa modalità d'intendere la legge e l'autorità, a una nuova procedura attraverso cui esercitare l'autorità. Ogni autoritarismo e arbitrio costituiscono un manifesto atto di violenza allo spirito del Concilio. Tuttavia il Concilio, proponendo una nuova concezione della legge, non respinge la norma giuridica; formulando altre modalità di esercizio dell'autorità, non afferma che questa non debba esistere o che non si abbia il dovere di rispettarla.
Il Concilio non propone affatto la svalutazione della legge, ne esiste alcun passo nei documenti conciliari sul quale possa fondarsi tale tesi; e tanto meno colloca una Ecclesia Spiritus — di doni carismatici e di spontaneità pastorale — al di sopra di una Ecclesia iuris, di leggi e di disciplina.
Al contrario, quando il Concilio si propone di enunciare il concetto — ricco ma in un certo senso nebuloso — di "communio" in maniera più specifica, adotta l'espressione "popolo di Dio", con terminologia che comporta necessariamente un'enfasi giuridica; il che invece non avviene con altre locuzioni, anche tradizionali, per designare la Chiesa: corpo di Cristo, sposa di Cristo, e altre. È evidente che mentre un'ecclesiologia del corpo di Cristo, ad esempio, si può sviluppare senza particolare riferimento alla realtà e alla necessità della legge, ciò non è possibile nel caso di un'ecclesiologia del popolo di Dio, poiché la stessa nozione di "popolo" è inconcepibile senza il riferimento ai diritti e ai doveri interpersonali: senza riferimento, dunque, ad argomenti di legge e di giustizia.
Questa verità, peraltro semplice, offre una condizione fondamentale per il programma di rinnovamento della Chiesa. E tuttavia molti tentativi di rinnovamento negli ultimi venticinque anni non soltanto l'hanno omessa ma l'hanno perfino negata, suscitando un moto di rinnovamento basato su una mentalità ostile alla legge. Ma — e occorre insistere su quest'affermazione — una visione individualista e contraria alla legge non può promuovere il rinnovamento. Può condurre soltanto al dissolvimento della comunità, a una situazione in cui — mancando l'ottemperanza alla legge — i diritti non si rispettano, i doveri non si adempiono e il popolo è sfruttato da poche persone.
Alla luce di queste precisazioni sarà più agevole indicare il collegamento tra l'impegno pastorale, così come il Concilio Vaticano II lo intende, e il sistema giuridico.
La comunione con Cristo, e con gli altri in Cristo, è il grande tema e il grande impegno pastorale del Concilio Vaticano II, che ci presenta la comunione non soltanto come una possibilità, ma come un diritto, il diritto dei cristiani di partecipare alla vita del Signore. Ebbene, non appena iniziarne a parlare di diritti, è chiaro che abbiamo cominciato a esprimerci in termini giuridici, ed è quindi evidente come la connessione tra l'ambito pastorale e quello giuridico sia immediata e necessaria.
È importante definire i diritti, di modo che ognuno sappia individuare e i diritti propri e quelli degli altri; come pure ciò che costituisce un dovere verso di noi e ciò che ognuno di noi deve agli altri. Occorre altresì tutelare i diritti affinchè si dia effettivamente a ciascuno ciò che gli è dovuto. Entro questi àmbiti emergono necessariamente la legge e l'autorità, poiché, senza di esse, non si può conseguire una nozione adeguata — e tanto meno una conveniente difesa — dei diritti.
La nostra indagine sarà agevolata dall'analisi del contenuto del diritto alla "communio", diritto che presuppone la facoltà di incontrarsi con la grazia, con la verità e con la volontà di Cristo nella sua Chiesa e attraverso di essa, a condizione di fare uso dei mezzi che il Signore stesso ha istituito e ci ha lasciato. Il canone 213, uno dei più importanti del nuovo Codice, succintamente esprime tale concetto: «I fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti» (cfr can. 682 del Codice precedente). Il canone 762 — relativamente alla predicazione — insiste ancor più sull'aspetto del diritto dei fedeli: «...il popolo di Dio viene radunato in primo luogo dalla parola di Dio vivente, che è del tutto legittimo ricercare dalle labbra dei sacerdoti...». Il termine "legittimo" sta a indicare che il popolo cristiano ha tutto il diritto di ricevere la predicazione della parola di Dio.
Si possono segnalare in questi canoni vari punti rilevanti che promanano letteralmente dai documenti conciliari Lumen gentium (n. 37) e Presbyterorum ordinis (n. 4). In primo luogo i canoni, definendo i diritti di alcune persone, fissano gli obblighi di altre (il diritto di una persona istituisce sempre l'obbligo di un altro soggetto). Inoltre, sebbene le espressioni "fedeli" ("christi-fideles" in latino) e "popolo di Dio" racchiudano sia i chierici sia i secolari, avendo diritto anche i primi a ricevere l'adeguato aiuto spirituale, è evidente che con quelle espressioni il Concilio fa riferimento in modo particolare ai diritti dei laici.
È importante rilevare che il rinnovamento della vita della Chiesa, così come viene delineato dal Concilio, dipende massimamente dal modo in cui i laici prendono coscienza dei loro diritti (e doveri) ecclesiali, e da come li esercitano. Occorre segnalare che porre una specifica attenzione sui diritti dei laici non solo rappresenta un'innegabile novità, ma conferisce particolare risalto anche ai doveri di coloro che sono chiamati a essere ministri dei laici e del popolo tutto, cioè il clero.
Si comprende pertanto come non sia da auspicare, per il desiderato rinnovamento, che alcuni chierici discorrano — addirittura con insistenza — dei diritti ecclesiali, e non richiamino con pari enfasi i doveri ecclesiali. Non sembrano rendersi conto che nel popolo di Dio sono i laici ad avere più diritti che doveri, mentre sono i cherici che hanno più doveri che diritti. Sono vaghi per quanto concerne il contenuto di tali doveri, laddove il Concilio è chiaro (così come lo è il Codice), oppure li prospettano in modo negativo (l'obbedienza o il celibato, ad esempio), pur essendo le considerazioni del Concilio su questi temi altamente positive (cfr Lumen gentium, nn. 24, 36, 41, 42; Presbyterorum ordinis, nn. 15, 16; nonché cann. 273, 277, 284 e altri ancora).
Le leggi ecclesiastiche e lo spirito di servizio
Dopo la "communio", altro essenziale tema del Concilio Vaticano II è quello della "diaconia" — del servizio — che viene esposto con particolare riferimento al servizio sacerdotale. Servire: ecco l'alto compito, il privilegio e l'obbligo dei chierici. Gran parte delle norme di diritto ecclesiastico è infatti volta alla promozione e all'adempimento del servizio che il clero deve all'intero popolo di Dio.
Solo muovendo dall'insistenza conciliare sulla "diaconia" si può giungere a una corretta valutazione dell'atteggiamento contestatario di quanto è giuridico (la legge ritenuta come un onere, un ostacolo, un legame), atteggiamento che, a distanza di venticinque anni dal Concilio e perfino dopo la promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico, ancora esiste in alcuni settori della Chiesa, tenendo presente peraltro — è inevitabile dirlo — che le proteste provengono per lo più dal clero.
È ipotizzabile che in qualche caso la legge o la sua applicazione sia divenuta notevolmente ingiusta; oppure potrebbe darsi semplicemente che non si sia recepito il concetto conciliare di servizio, talché la "diaconia" si riduce a parola di moda negli ambienti ecclesiastici, mentre lo spirito di servizio viene a indebolirsi fortemente, soprattutto tra coloro che più dovrebbero esercitarlo.
Il sacerdote dotato di un forte spirito di servizio verso il popolo di cui ha cura, si dimostrerà sollecito nell'adempimento delle leggi ecclesiastiche dirette per l'appunto a tutelare i diritti dei fedeli. Ma se perde di vista il suo ruolo primario di servitore, può facilmente giungere ad abusare dei diritti del popolo — senza neppure averne coscienza — perfino in nome del rinnovamento, della spontaneità, del carisma e simili.
Si considerino, per esempio, le seguenti ipotesi: 1) che il sacerdote disattenda alle norme stabilite per il culto o per l'amministrazione dei sacramenti; 2) che imponga un unico modo di osservanza liturgica là dove la Chiesa permette opzioni; 3) che si dimostri poco disponibile a ricevere le confessioni dei fedeli (cfr can. 986) o ponga difficoltà a quei genitori desiderosi che i propri figli ricevano il battesimo appena nati (cfr can. 867); 4) che si assenti senza giustificazione dalla propria parrocchia o diocesi (cfr cann. 395 e 533); 5) che trascuri la predicazione o nel corso di essa parli di politica o di economia in termini totalmente carenti di fede e di criterio soprannaturale, o non segua "la genuina dottrina sulla Rivelazione divina e la sua trasmissione" (Dei Verbum, n. 1); oppure fondi le sue parole esclusivamente sulla Sacra Scrittura, ignorando che "la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio" (ibidem, n. 10), o non insegni ai fedeli che essi hanno il diritto di ricevere dal Magistero della Chiesa un'interpretazione autentica della Parola di Dio data in nome di Gesù Cristo (cfr ibidem). Il sacerdote che si comportasse in uno dei suddetti modi non eserciterebbe lo spirito di servizio, non si dimostrerebbe responsabile, non assolverebbe i suoi obblighi e, quindi, non rispettando i diritti del popolo affidategli, non sarebbe ne giusto ne pastorale. Innanzi a siffatti abusi è evidente che al popolo deve spettare la facoltà di ricorrere alla legge e all'autorità ecclesiastica al fine di ottenere il pieno riconoscimento dei suoi diritti violati.
Pertanto, alla domanda su quale sia il ruolo o la funzione pastorale della legge, la risposta è netta: la difesa dei diritti ecclesiali. Senza la legge, i diritti ecclesiali mancano di un'esplicita definizione, così come di trasparenza e di certezza; inoltre, senza la legge, le violazioni dei diritti restano impunite, dando luogo ad abusi di ogni tipo, anche di tipo pastorale, e perfino da parte del clero.
Tutela delle persone o delle istituzioni?
Alcuni teorici della pastorale non solo accolgono la tesi che la legge ha la funzione di tutelare le persone, ma sembrano aver avocato a sé la responsabilità di difendere tale tesi contro coloro che — a loro giudizio — attribuiscono alla legge il compito non della tutela delle persone bensì di quella delle istituzioni. Questa visione dialettica li ha portati a trasformare un settore importante del diritto canonico in campo di battaglia tra una scuola cosiddetta "legalista" — con mentalità preconciliare e conservatrice, volta a difendere le istituzioni al di sopra delle persone — e una scuola pastorale, postconciliare e progressista (la "loro" scuola), che proteggerebbe invece le persone dalle istituzioni. Di fronte a una siffatta concezione sembra opportuno porre due quesiti: 1) è funzione della legge salvaguardare le istituzioni? 2) in caso affermativo, la legge, difendendo le istituzioni, si manifesta indifferente verso le persone e i loro diritti?
Per quanto concerne la prima domanda, ciò che sorprende in àmbito cattolico è il fatto che sia necessario prospettarla. È principio fondamentale dell'ecclesiologia cattolica che il Signore Gesù non ha istituito una Chiesa meramente spirituale, bensì una Chiesa che, secondo la costituzione Lumen gentium, è una società gerarchicamente ordinata e al tempo stesso una comunità spirituale (cfr n. 8). In questa società esistono realtà che appartengono all'essenza costituzionale della Chiesa: i sacramenti, il deposito della fede, la gerarchia, il Magistero... Queste realtà furono istituite dallo stesso Gesù Cristo e vantano il diritto a essere tutelate dalla legge; non solo, ma la legge, proteggendole, difende la volontà costituzionale di Gesù a vantaggio della sua Chiesa e del suo popolo.
Se la tesi secondo cui la legge canonica non avrebbe il compito di difendere le istituzioni della Chiesa è in contrasto con l'ecclesiologia del Vaticano II, l'altra tesi in forza della quale la legge, difendendo le istituzioni ecclesiali, violerebbe le persone e i loro diritti, denota una radicale incomprensione del genuino personalismo proposto dal Concilio.
Nel piano divino della Redenzione le persone hanno bisogno delle istituzioni e di poter fruire di esse per la loro crescita personale in Cristo. Ad esempio, questa crescita rimarrebbe notevolmente limitata nel caso in cui una persona ricorresse di rado ai sacramenti. Fa altresì parte del piano divino che alle persone siano richiesti quegli obblighi specifici che le istituzioni talvolta impongono, se la loro crescita in Cristo deve giungere a pienezza.
La legge, pertanto, difendendo le istituzioni, tutela le persone. Protegge le istituzioni a beneficio delle persone, allo scopo di far giungere a ogni membro del popolo di Dio (anche mediante le istituzioni) la pienezza della grazia e dell'aiuto personale che Cristo voglia inviargli, così come l'interezza del progetto particolare di cui può essere oggetto da parte di Cristo e degli obblighi concreti che egli voglia imporgli.
Se dunque vogliamo definire le alternative che il tema pone, siamo costretti a scegliere non tra la difesa delle istituzioni o quella delle persone, ma tra la difesa delle persone che si radica nella difesa delle istituzioni fondate a loro vantaggio e arricchimento, o il rifiuto alla tutela delle persone stesse, privandole però in tal maniera del potere e dell'efficacia dei doni che Gesù Cristo ha istituito e ha voluto lasciare alla sua Chiesa e, attraverso di essa, a ognuno dei suoi discepoli.
Merita dunque segnalare, alla luce di quanto esposto, la nostra posizione concettuale — e operativa — di fronte alle istituzioni della Chiesa: il Magistero, ad esempio. Solo uno spirito individualista è ossessionato al pensiero che il Magistero "mette in pericolo" i diritti dei fedeli. Uno spirito più in sintonia con l'ecclesiologia del Vaticano II si rende infatti conto che il Magistero difende i diritti dei fedeli; in concreto, il loro diritto a conoscere il pensiero di Cristo — ciò che egli vuole comunicarci — su temi essenziali per il popolo di Dio.
Ciò vale per il teologo, così come per qualsiasi altro fedele. Il teologo, da uomo di fede, riconoscerà agevolmente che il Magistero possiede un singolare carisma di verità che egli, personalmente, non possiede. Al pari di tutti gli altri membri del popolo di Dio, il teologo ha il diritto — privilegio e dovere a un tempo — di orientarsi secondo questo carisma istituzionale del Magistero.
Se la Chiesa interviene, in un caso concreto, per affermare che le idee di qualche teologo non sono in accordo con la dottrina cattolica, tale intervento non si configura negativamente, poiché non mira a violare alcun diritto del teologo. È, al contrario, positivo, essendo volto a proteggere il diritto degli altri fedeli a sapere quale sia, anche su un argomento determinato, la verità di Cristo. Ecco in conclusione la nostra tesi: la difesa delle istituzioni della Chiesa non va contro le persone, bensì è a loro favore. In un successivo scritto considereremo come questo principio si applichi all'istituto del matrimonio, con particolare riferimento al tema della indissolubilità.